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Paraguay: dove gli Ayoreo resistono al land grabbing

di Paolo Tosco - 01/02/2016

Fonte: slowfood



ayoreo paraguayLa popolazione nomade degli Ayoreo, una delle più remote del sudamerica, combatte per tornare a popolare il Gran Chaco, arida regione a cavallo tra Paraguay, Argentina e Bolivia. È questo, infatti, l’obiettivo della battaglia legale che ormai da anni la comunità indigena porta avanti contro gli interessi e le speculazioni senza scrupoli di compagnie private che hanno messo a rischio non solo una popolazione, ma un intero ecosistema.

Questa storia comincia a metà dello scorso secolo quando, dopo i primi contatti con gli allevatori mennoniti, quasi tutti gli Ayoreo furono spinti con l’inganno e con la forza ad abbandonare le loro terre per trasferirsi in città, nelle missioni. Come succede regolarmente alle comunità indigene trapiantate forzatamente nelle metropoli, con il passare del tempo anche questa antica società, una volta privata della propria indipendenza e sovranità alimentare, crollò e si sfaldò. Gli Ayoreo si ammalarono e molti tra gli anziani cominciarono a diventare impazienti e a sentire la mancanza della foresta, finchè un giorno decisero di fare ritorno alle loro terre. Quello che trovarono li lasciò senza parole: anche se alcuni piccoli nuclei erano rimasti nel profondo della foresta rifiutando qualsiasi contatto con gli stranieri, buona parte dei territori della tribù era stata sfruttata per la coltivazione e l’allevamento.

Con l’aiuto di alcune Ong locali i leader degli Ayoreo iniziarono il lungo percorso legale per veder riconosciuti i loro diritti, finchè nel 2010 riuscirono a recuperare 25.000 ettari di territorio, permettendo a 23 famiglie di tornare a vivere nella regione di Cuyabia. L’effetto positivo fu immediato: gli Ayoreo recuperarono vigore e ricostruirono i rapporti tradizionali e culturali con le loro radici, guadagnandone anche in salute e in benessere. Purtroppo nel 2012 l’allora presidente di Indi, l’ente incaricato di tutelare i diritti delle popolazioni indigene, vendette l’intero territorio di Cuyabia a gruppi internazionali di allevatori: questi cominciarono a distruggere la foresta per “liberare” le terre in modo da destinarle all’allevamento bovino.

Questa decisione, assolutamente illegale, portò il Chaco paraguayano a diventare la zona con il tasso di deforestazione più alto al mondo (con un quarto di milione di ettari perso ogni anno) e condannò gli Ayoreo a una nuova serie di cause e battaglie legali. Il responsabile di questo scempio fu individuato e arrestato, ma il danno era fatto e la regione di Cuyabia era ormai stata spartita tra undici compratori: compratori che, per assicurare il proprio investimento, fecero ricorso a gruppi di vigilantes armati. Il risultato fu un ulteriore aumento della tensione con i nativi e le denunce di minacce e abusi si moltiplicarono esponenzialmente. Non toccò destino migliore all’altra sponda del fiume Paraguay: dove un tempo c’era una lussureggiante foresta, oggi i campi di soia destinati a nutrire i capi di bestiame si estendono a perdita d’occhio.

Il bilancio attuale è drammatico: oggi solo il 7% della foresta atlantica paraguaiana è ancora intatto, una situazione che ha sicuramente aggravato la pericolosità delle recenti alluvioni. Ma a preoccupare gli indigeni non è solo il danno materiale, dato dal fatto che la foresta produce tutte le materie prime necessarie alla sopravvivenza di ciascuna famiglia: una delle paure più grandi degli Ayoreo piuttosto è che venga reciso per sempre il legame fondamentale sviluppato nel corso dei secoli con la terra.

I legali al servizio delle Ong che assistono gli Ayoreo hanno preso l’iniziativa nei loro ricorsi e hanno cominciato le misurazioni per determinare i confini della zona che dovrebbe essere restituita ai nativi. Ma anche se la strada è quella giusta l’epilogo è ancora lontano: le compagnie internazionali non si arrendono, e corruzione, intimidazioni, interessi speculativi e violenza non sono certo scomparsi. Tocca anche a noi tenere alta la guardia per assicurarci che nel polmone verde del pianeta non si consumi a nostra insaputa l’ennesimo sopruso.

Fonte: theguardian.com
Foto: NYTimes