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Come, dichiarandosi “vittime”, le minoranze stanno instaurando la dittatura del rancore

di Francesco Lamendola - 07/02/2016

Fonte: Il Corriere delle regioni


 

 

 

Si assiste, nel corso degli ultimi decenni, a un fenomeno sempre più ampio e diffuso: la crescente, dilagante e ormai quasi incontenibile vittimizzazione di aspetti sempre più rilevanti della dialettica sociale, politica, giuridica, economica, culturale. Illich parlava di una “scolarizzazione” della società; altri parlano di una sua “medicalizzazione”; ma nessun altro fenomeno può reggere il confronto con l’attuale vittimizzazione. Il sapere obbligatorio imposto dalle scuole e la sanità obbligatoria imposta dai governi (con le relative sanzioni per gli inadempienti: i genitori che non mandano i figli a scuola, o che non fanno vaccinare i loro bambini) sono niente, sono giochi da dilettanti, in confronto a quel che stanno riuscendo a fare, e a ottenere, tutte quelle categorie e tutti quei soggetti sociali i quali, a ragione o a torto, riescono a ottenere lo statuto giuridico, ufficialmente riconosciuto, di “vittime”. Praticamente, non ci sono quasi limiti a ciò che possono pretendere sotto forma di risarcimento per i danni, materiali o morali, che hanno subito; non solo: non ci sono limiti alla pressione morale permanente che sono in grado di esercitare, non sui colpevoli (a quelli, hanno già pensato giudici e tribunali), ma sull’intera società, alla quale è vietato di assumere un atteggiamento neutrale e che si vede costretta, invece, a schierarsi dalla loro parte, ogni qual volta rullino i tamburi per denunciare una violenza patita e chiamare a raccolta tutti i “buoni” nella crociata contro il male. In questo modo, si sposta significativamente anche il comune sentire della società nei confronti di particolari tematiche.

Questo fenomeno trae origine da parecchi fattori - e sia detto con il massimo rispetto per le vittime autentiche, le quali, l’ultima cosa di cui si preoccupano è trasformare la loro vicenda in una storia “esemplare”, da consegnare ai mass-media, e pretendere un risarcimento che stabilisca un precedente politically correct per le future crociate vittimiste. Ma, fra tutti, il fattore che spicca di più è l’universale diffusione della cultura dei diritti, figlia, a sua volta, dell’individualismo democratico, sommato alla teoria giusnaturalista del diritto naturale garantito da un patto sociale originario che non può mai essere rescisso, perché la “natura” è conforme a “ragione” e, pertanto, negare un diritto “naturale” a qualcuno,  equivale a macchiarsi di un’azione irragionevole (il che, in una cultura razionalista, è, evidentemente, il peccato più grave). Dunque, il ragionamento è questo: ciascuno viene al mondo con una serie di diritti; la società esiste per soddisfarli o, comunque, per impedire che essi vegano violati; ma togliere a qualcuno l’esercizio dei diritti equivale a fare di costui una vittima; e la vittima di una ingiustizia ha, per definizione, il diritto di esigere, anzi, di pretendere riparazione, non solo da colui che l’ha offesa, dal colpevole, ma dalla società intera, che non ha saputo vigilare, non ha saputo proteggere la vittima, chiudendosi nel proprio egoismo.

Lo ripetiamo: non è più consentito essere neutrali, chiamarsi furori, proclamarsi insufficientemente informati per esprimere un giudizio: tutti sono tenuti alla solidarietà obbligatoria con la vittima e tutti sono chiamati ala crociata contro il reo. Il quale può essere una persona fisica, un gruppo umano, uno stato; oppure la fame, la sete, la montagna, il mare, un terremoto, un’eruzione vulcanica, uno sciogliemmo dei ghiacci, uno squalo che attacca i bagnanti, un orso che aggredisce un turista nel parco di Yellowstone; oppure può essere la povertà, l’ignoranza, la superstizione, il pregiudizio, il sessismo, qualche “barbara” usanza sociale; o, ancora, la malattia, il cancro, il morbo di Alzheimer, la sordità, l’artrite, l’osteoporosi, l’handicap e più ancora il pregiudizio sull’handicap, la falsa e dannosa credenza nella malattia mentale, il revisionismo o il negazionismo storico.

In tutti questi casi, è sufficiente che chi ha subito, o ritiene di aver subito, una violazione del proprio diritto (alla salute, all’istruzione, alla libertà di espressione, ad avere una famiglia, ad essere mantenuto a vita dai genitori, a essere promosso anche se non studia, ad avere un posto  inamovibile anche se non ha voglia di lavorare) si presenti, magari con l’aiuto di un buon avvocato, nei panni della vittima, e la sua vittoria è assicurata; non solo: il ruolo di vittima potrà trasformarsi in una redditizia professione, in una maniera per risolvere definitivamente il problema del proprio mantenimento. Una moglie che riesca a ottenere il divorzio con una sentenza di “crudeltà mentale” nei confronti dell’ex marito, vera o no che sia la cosa (ma a chi interessa più la cosa in sé, a partire dal buon vecchio Kant?; ci basta ormai la cosa come appare) può considerarsi sistemata per tutta la vita, specialmente se il brav’uomo sta bene a quattrini: la povera vittima non dovrà più lavorare neppure per un giorno e potrà vivere dell’assegno mensile cui il solerte giudice femminista avrà obbligato l’indegno ex marito.

Oppure basta che una persona omosessuale riesca a dimostrare di essere stata licenziata, poniamo, dal posto di lavoro, non perché era pigra, inefficiente, o perché cercava in tutti i modi di farsi esentare mediante certificati medici, o, ancora, perché disonesta, e faceva sparire somme di denaro non indifferenti nell’esercizio della sua funzione impiegatizia: non per una di queste cose, ma perché il suo datore di lavoro è “omofobo”, e voilà, il gioco è fatto: otterrà prontamente un reintegro con tante scuse, insieme, naturalmente a una cifra adeguata al danno morale patito.

Sul piano della politica: oggigiorno le guerre  si fanno per difendere le vittime, per proteggerle dai “crimini” del più forte. Per tali motivazioni, alla fine del secondo millennio, le nazioni occidentali hanno condotto una guerra durissima contro la Serbia, accusata di non rispettare i diritti umani della popolazione albanese del Kosovo e di mirare a una pulizia etnica. In seguito all’intervento occidentale, il Kosovo è stato, di fatto, sottratto alla sovranità serba, e, a riflettori spenti, la popolazione serba è stata sottoposta a uno stillicidio di discriminazioni e violenze da parte degli albanesi, fino a rasentare, essa sì, una effettiva “pulizia etnica”. Ma ormai, nell’immaginario dell’opinione pubblica mondiale, e anche per gli organismi internazionali di alta giustizia, i colpevoli erano i serbi, e gli albanesi erano le vittime: i ruoli erano stati assegnati una volta per tutte e nessuno è tornato a parlare di quella vicenda, nessun pietoso e imparziale giornalista ha riacceso le telecamere per documentare quel che le ex vittime stavano facendo agli ex colpevoli, ormai ridotti all’impotenza.

Scrivono, su questi temi, Caroline Eliacheff e Daniel Soulez Larivière nel libro «Il tempo delle vittime» (titolo originale: «Le temp des victimes», Paris,  Editions Albin Michel, 2007; traduzione dal francese di  Monica Fiorini, Milano, Adriano Salani Editore, 2008, pp.160-162):

 

«Il fatto che nella nostra società si siano imposte due grandi categorie, una invidiata, quella della vittima, e l’altra fatta oggetto di riprovazione, quella del colpevole si radica, come si è già visto, nella stessa democrazia che favorendo l’individualismo implica anche un’attenzione all’altro nelle sue particolarità più accettabili e più semplici. L’elemento compassionevole è inerente alla democrazia. La distruzione dei grandi ideali esplicativi della Storia accelera la distribuzione di tutti e di tutto nelle categorie del bene e del male che corrispondono alla griglia vittima-colpevole. E questo nonostante lo statuto di vittima non sia necessariamente acquisito per sempre, e possano avvenire improvvisi rivolgimenti, come si può facilmente osservare nelle relazioni internazionali. […] La Shoah è il principale evento che ci permette di capire la rivoluzione della vittimizzazione alla fine del XX e all’inizio del XXI secolo. Nel corso del processo Barbie, per definire il crimine contro l’umanità André Frossard ha detto che le vittime erano “colpevoli di essere nate”. Questa innocenza del bambino, ovvero la sua assenza di responsabilità nei confronti del reale, ha costituito una delle basi della percezione della Shoah da parte degli ebrei , ma anche di chi è stato costretto a guardare quelle immagini di corpi morti simili al proprio. La Shoah ha senza dubbio rappresentato uno degli elementi essenziali di una rivoluzione che tocca il grande pubblico.  Per la prima volta, forse, la morte dell’altro, da cui spesso di trae un segreto godimento, quello che prova il sopravvissuto per il fatto di essere in vita, ha rinviato ala morte in sé.  Dopo la Shoah, queste immagini di morte hanno raggiunto milioni di individui nelle loro case e nelle loro città; per identificazione, esse hanno generato in loro la paura di morire.  E questo proprio in una società che fa ogni sforzo per non pensare alla morte. Le persone comuni, ri faccia a faccia con la vittima espiatoria, non potevano dunque non sentirsi solidali con essa. Il crimine era così grande e l’innocenza così perfetta che la vittima è divenuta sacra.

Era dunque naturale che fosse l’ONU a introdurre il concetto e la denominazione di “vittima” nel diritto. L’ultima guerra ha creato in tal modo il posto occupato oggi dalla vittima e ha avuto come esito uno sviluppo dei diritti dell’uomo diverso, per natura e intensità, rispetto all’epoca precedente. Come già ricordato, queste rivoluzioni hanno portato, in particolare sul piano penale, alla creazione di una Corte penale internazionale istituita con il trattato di Roma del luglio del 1998 che prevede, per la prima volta in un’istituzione giudiziaria internazionale, una rappresentanza delle vittime. Ma al di là di questo aspetto istituzionale, per una sorta di disseminazione della situazione vittima ria la Sohah ha indotto una rivoluzione della mentalità per quel che riguarda il posto delle vittime in generale.

Una buona guerra,m una guerra giusta, viene condotta ormai condotta solo per difendere vittime oppresse, perseguitate, anche se, anche se a volta, come in Africa o nei Balcani, mostra tutti i suoi limiti. Quando l’elemento umanitario si affranca troppo dalla riflessione politica, può trasformarsi in una sorta di politica inconscia o in una incoscienza politica. Negli odierni conflitti mediorientali o in quelli che, in futuro, opporranno nord e sud, le posizioni vittima rie saranno sempre le migliori, perché offriranno agli uni la possibilità di conservare la propria buona coscienza attribuendo una cattiva coscienza gli altri. Non a caso sono oggetto di grandi manipolazioni.

Nel dopoguerra, la divisione del mondo in due blocchi, imperialista e anti-imperialista, ricalcava parzialmente quella tra vittima e colpevole. Il crollo del blocco sovietico ha determinato la nuova divisione del mondo che si è venuta delineando. Ma prima ancora della caduta del Muro di Berlino», in tutte le società occidentali e sul piano della comunità internazionale , questa distinzione è stata considerata – compici soprattutto la diagnosi psichiatrica resa “oggettiva”,  il movimento femminista, le rivendicazioni degli omosessuali e la giuridificazione di tutte le tragedie e gli incidenti dell’esistenza – la griglia di lettura dell’infanzia e dell’adolescenza, una griglia che ha solo due entrate, vittime o delinquenti.»

 

Il discorso rispetto alle persone affette da malattie fisiche, da handicap o da malattie e disturbi psichiatrici, è ancora più delicato, ma non possiamo passarlo sotto silenzio, a meno di sottostare al ricatto delle minoranze. Lo ripetiamo ancora una volta: siamo ben lungi dal voler negare che tali situazioni esistano; che siano dolorose; che siano meritevoli del massimo rispetto e, fin dove possibile, della massima solidarietà sociale; che è una vera barbarie il fatto che quelle persone ed i loro familiari siano sovente lasciati da soli alle prese con problemi di sopravvivenza e di terapia estremamente onerosi, sotto tutti i punti di vista. Ciò non toglie che si stia diffondendo, presso una minoranza di tali persone sfortunate, una sindrome del risentimento, per cui vorrebbero “farla pagare” alla società per le sofferenze e le difficoltà che devono sopportare. Il risultato è che alcune di queste persone sono portate a pretendere dei “risarcimenti” che mettono in difficoltà gli altri, e che trasformano il naturale e bellissimo sentimento della solidarietà spontanea in un duro obbligo da adempiere sotto la minaccia del codice penale. E, a volte, si lasciano andare le cose talmente avanti, che, per non violare i diritti delle presunte vittime, si finisce per negare i diritti fondamentali di altri soggetti deboli: per esempio, a costringere due anziani genitori a vivere nel terrore della violenza fisica di un figlio drogato, o psichicamente disturbato, posto che questi non voglia curarsi o disintossicarsi e che riesca a farsi passare per una vittima della loro indifferenza o durezza di cuore.

Un discorso del tutto simile si può fare per certe categorie di immigrati clandestini, i quali non si danno nemmeno il disturbo di attendere che la loro domanda di asilo politico sia stata accolta, per abbandonarsi a commettere reati nel Paese che li ospita e li mantiene. Assumere un atteggiamento severo verso di essi non si può, senza passare per razzisti: e il razzismo è un crimine, punibile per legge. Inoltre, equivale alla negazione di un preteso diritto: quello dell’accoglienza indiscriminata…