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I conti difficili di Fitoussi con l’ambiente

di Carla Ravaioli - 13/09/2006

 
Che un economista di fama, addirittura un Nobel, come Jean-Paul Fitoussi, si soffermi a riflettere sulla “questione ecologica”, (“Tra ecologia ed economia”, La Repubblica, 6 settembre) è davvero una bella sorpresa. Lo è tanto più in quanto l’autore, sulla base delle leggi della termodinamica e dell’entropia desunte dalle opere di Carnot e di Georgescu-Roegen, si mostra perfettamente consapevole delle ragioni della crisi ambientale. «Il processo economico, non può essere autonomo», afferma. E’ anzi naturalmente «partecipe di uno scambio reciproco con l’ambiente circostante»: attingendo dagli stock di risorse non rinnovabili, sfruttando il patrimonio ambientale a ritmi superiori alla sua capacità di rigenerarsi, producendo «conseguenze irreversibili in ragione delle sue molteplici interazioni con la natura». Tutto ciò «ha sganciato il ritmo economico (la crescita) dal ritmo ecologico», con la conseguenza di un degrado generale dell’ecosfera e di un temibile mutamento del clima.

Perfetto.

Soprattutto se si considerano le posizioni della grande maggioranza degli economisti, tendenzialmente ignari del problema ambientale, e ben poco disponibili verso chi glie ne rammenti l’esistenza e le cause.

Perfetta e pregevole anche la premessa del discorso, affidata a una sottile riflessione da un lato sull’economia come sistema aperto, da integrare con discipline confinanti, problemi “di frontiera”, quali il diritto, l’etica, il sociale e, appunto, l’ecologia, dall’altro sulla irrecuperabilità del tempo, del suo andare senza ritorno, e delle incancellabili tracce del suo cammino.

Ma il giudizio non può essere altrettanto positivo appena ci si avventura verso il “che fare”. Il problema, ancorché «di grande rilevanza», «non può avere soluzioni politiche semplici», dice Fitoussi. Che è verissimo. Ma ciò non gli impedisce di far proprie ragioni che in qualche modo appartengono a una vulgata sostanzialmente antiambientalista. Come limitare il dinamismo dei paesi emergenti, si domanda Fitoussi, come imporre un «ritmo ecologico» ai più poveri di noi (noi, i veri colpevoli del degrado del mondo), e in tal modo accettare «le disuguaglianze esistenti»? Domanda non certo nuova, anzi puntualmente inalberata dal più incurabile sviluppismo. Oppure - altro interrogativo ricorrente cui il grande economista non si sottrae - come imporre una redistribuzione tendente a una ripartizione omogenea della ricchezza? Insomma, che cosa scegliere tra un «insostenbile cinismo» e «l’utopia totalitaria»?

Ma possibile (ora tocca a noi fare domande) che ancora si pensi alla crescita produttiva come strumento di riduzione delle disuguaglianze, quando tutti (compreso Fitoussi) riconoscono che negli ultimi decenni, mentre il prodotto continuava ad aumentare (poco, tanto, spesso tantissimo), anche le disuguaglianze aumentavano, nel Sud del mondo come nei paesi più ricchi, Usa in testa? Possibile non considerare che andamenti di crescita come quelli attuali di Cina India ecc., a non lungo andare comporterebbero la catastrofe definitiva dell’intero pianeta, ivi comprese India Cina ecc.? E che già ora inquinamento pesantissimo, desertificazione crescente, gigantesche alluvioni, stanno seminando malattie e morte a ritmi accelerati tra Indiani Cinesi ecc.? Eppoi perché mai l’alternativa alla crescita dovrebbe necessariamente essere l’«imposizione» di un regime ugualitario? Perché mai l’utopia non può che essere totalitaria? E’ vero, questa è stata finora la regola: ma chi ha detto che il futuro debba necessariamente somigliare al passato?

Fitoussi prova però a elaborare un altro argomento, ben più sottile e accattivante, in cui riporre le sue speranze di vittoria sulla minaccia ambientale. «Fortunatamente la nostra evoluzione - scrive - non è governata solo dalla legge dell’entropia: ne esiste un’altra, meno tangibile ma altrettanto determinante, legata all’aumento della conoscenza». Per cui il divenire della nostra specie è «contrassegnato da due irreversibilità, una felice e l’altra nefasta: l’accumulo del sapere e del progresso tecnologico da un lato, e dall’altro il decremento delle risorse non rinnovabili e la degenerazione, irreversibile anch’essa, di parte delle ricchezze ambientali». Il «tempo dell’economia» si muove dunque, come tra le due lame di una forbice, tra due processi dinamici, quello entropico delle risorse e quello storico dell’organizzazione e della diffusione del sapere. Dall’andamento di questo confronto può prendere forma un futuro affidato a un «livello di crescita forte quanto si vuole», purché si disponga di «un livello di conoscenza sufficiente ad assicurare la perennità del sistema».

Così dunque finisce questo affascinante scenario che a tratti era parso una sorta di duello tra il Bene e il Male: da un lato nel sogno di una ulteriore corsa alla bulimia produttiva (ancora auto, autostrade, Tav, aerei, aeroporti, computer, telefonini, shopping center, grattacieli, ecc. ecc.?), dall’altro nell’auspicio di investimenti in «istruzione e ricerca», puntando soprattutto sulle fonti di energia rinnovabile. Esattamente quanto ripetono in coro economisti e politici di tutto il mondo. Anche Fitoussi insomma, come tutti, implicitamente indica il mutamento climatico non come la manifestazione più grave e pericolosa del problema ambiente, ma come il problema ambiente tout court: risolto il quale potremo continuare felicemente a crescere. Anche lui in definitiva convinto di poter curare la natura sconvolta con gli stessi strumenti, lo stesso appoccio mentale e operativo, che stanno alla base del suo sconvolgimento. Anche lui fermo a ragionare all’interno della razionalità del capitalismo, un sistema che ha focalizzato l’attenzione sociale su un certo tipo di attività e interessi, identificabili con produzione e profitto, mentre ha svalutato e marginalizzato quanto riguarda la continuità vitale degli individui e della società, la complessità dell’esistere. Peccato. L’apertura dell’articolo pareva promettere di più.

E tuttavia dobbiamo ringraziare Fitoussi: ha detto che il problema ambiente esiste, dipende dall’attuale modo di produzione, è grave, va risolto. Cose che nessun economista (salvo ovviamente gli eco-economisti) di solito dice. Non è poco.