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Papa Bergoglio, sui migranti, sta prendendo una cantonata colossale, che ci costerà carissima

di Francesco Lamendola - 14/02/2016

Fonte: Il Corriere delle regioni


 

 


 

Papa Bergoglio, sul tema dei cosiddetti migranti, in realtà invasori travestititi da profughi, sta sbagliando proprio tutto, clamorosamente, disastrosamente: e, quel che è peggio, sta sbagliando per testardaggine, per presunzione intellettuale e per disprezzo delle opinioni diverse dalla sua, mostrando di non avere affatto le doti di un vero leader, ma solo la cieca fiducia in se stesso di un capo fazione, che è cosa ben diversa.

La sua sensibilità verso i problemi sociali passa attraverso la lente deformante della teologia della liberazione, con l’aggravante che egli non si rende conto delle differenze abissali che esistono fra la situazione geopolitica dell’Europa e quella dell’America Latina; crede, pertanto, che lo schema latino-americano, già semplicistico di per sé, che vede una contrapposizione rigida fra buoni e cattivi, sfruttai e sfruttatori, lavoratori e capitalisti, si possa trasporre, sic et simpliciter, in qualunque altro contesto, a cominciare da quello europeo.

Per difetto d’immaginazione, di cultura, e, soprattutto, di umiltà, Bergoglio pensa all’Europa così come pensa alla sua Argentina: come ad un grande spazio semi-vuoto, suscettibile di ospitare, se necessario, una popolazione doppia o tripla di quella attuale; i problemi economici non lo interessano, anche perché, semplificando, pensa che siano solo dettagli che si possono sempre risolvere, o, peggio, che siano pretesti per fare dell’ostruzionismo allo spirito del Vangelo. E qui si arriva al punto veramente dolente: perché, fino a quando sbaglia sul terreno sociale e politico, si tratta pur sempre di sbagli che nascono da una insufficiente conoscenza dei problemi; ma quando lo sbaglio riguarda la teologia morale, la cosa è gravissima e, forse, irrimediabile.

Bergoglio legge il Vangelo alla lettera, alla maniera dei protestanti. C’è scritto che bisogna dar da mangiare agli affamati e dar da bere agli assetati; e lui prende tutto ciò alla lettera. Beninteso, l’idea è giusta, giustissima: questo è, effettivamente, e senza ombra di dubbio, lo spirito del Vangelo. Ma Gesù non ha mai vincolato i suoi seguaci quanto alle modalità dell’aiuto al prossimo: non ha mai stabilito come si debba dar da mangiare agli affamati, e dar da bere agli assetati. Per Bergoglio, chiunque bussi alla porta di casa nostra, deve essere accolto: non importa se si tratta di milioni di persone; non importa se sono, per nove decimi, falsi profughi e, in parte, terroristi, o, comunque, islamici desiderosi di sottomettere l’Europa cristiana; e non importa nemmeno se essi non chiedono, ma pretendono l’accoglienza. Il Vangelo dice che bisogna accoglierli, e lui ordina di farlo. Però non è vero che il Vangelo ordini di spalancare le porte: dice di aiutare i bisognosi, questo sì; non di aiutarli come vogliono loro, quando vogliono loro, alle condizioni che impongono loro. Questo non si trova né nella lettera, né nello spirito del Vangelo.

Bergoglio legge il Vangelo in maniera assoluta, totalitaria, decontestualizzata. È un fondamentalista. Il grande problema del cristianesimo, trovare un punto di conciliazione fra l’ideale e il reale, non è cosa che lo riguardi o che lo tocchi minimamente. Non è un problema suo. Non sono problemi suoi le implicazioni politiche ed economiche di una generosità all’ingrosso, cieca e sorda a qualunque cosa tranne l’imperativo categorico dell’accoglienza. Che le migrazioni, anzi, le invasioni che si stanno rovesciando sull’Europa, siano pilotate, e che siano pilotate sia dall’esterno – attraverso i finanziamenti degli sceicchi arabi, forti dei loro petrodollari -, sia dall’interno, per volontà della banca Mondiale e della Trojka europea, interessata esclusivamente al Pil e, quindi, a un incremento demografico dell’Europa, non importa se con Europei o con Arabi e Nordafricani – è, del pari, cosa che non lo riguarda. A lui importa solo il fatto che questa gente sta scappando “da guerra e fame”, come recita il mantra del politically correct, ripetuto fino alla nausea da tutti i media , allineati piattamente sulle posizioni mondialiste.

E va bene: non è affar suo. Lui è un capo religioso, non un capo politico; anche se, di fatto, sta facendo politica, e in maniera più clamorosa e più totalitaria di qualunque altro uomo politico occidentale. Quel che non ha capito, è che la sua lettura del Vangelo è sbagliata, perché fondata su un letteralismo irrealistico, velleitario e fondamentalista. Non gli viene in mente che ci sono molte maniere di aiutare chi è in difficoltà, diverse dall’aprirgli la porta di casa, senza nemmeno domandargli i documenti, anzi, senza neppure conoscere le sue reali intenzioni; e che nessuno ha il diritto di fare il generoso ipotecando il futuro dei propri figli. A lui non interessa che il 95% dei migranti/invasori sia di religione musulmana; benissimo. Non gli interessa nemmeno che, al 90%, non stiamo fuggendo “da guerra e fame”, ma che stiano cercando, semplicemente, migliori condizioni di vita, o che vogliano conquistare e sottomettere l’Europa con il loro alto tasso di natalità. Benissimo. E non gli interessa neppure che il loro arrivo, di fatto, crei una concorrenza insostenibile, ovviamente al ribasso, nei confronti della mano d’opera europea, dato che queste persone sono disposte a lavorare per qualsiasi cifra: il che vuol dire minori salari e peggiori condizioni di vita per le classi più deboli dell’Europa, già ridotte allo stremo dalla crisi economico-finanziaria iniziata nel 2007. E va bene anche questo. Non è un politico (anche se fa politica); non è un sociologo (anche se fa sociologia); e non è un economista (anche se la sua linea di condotta ha pesanti ricadute economiche).

Quel che non si può ammettere, è che si muova con tale rigidità, con tale ostinazione, con tale durezza, sulla base di un fraintendimento teologico e morale. E questo sì che lo riguarda; questo sì, che sarebbe affar suo. Bergoglio non ha alcun diritto di ordinare l’accoglienza indiscriminata sulla base del Vangelo, perché tale imperativo morale, così come lui lo intende, non appartiene al Vangelo. Di fatto, il cristiano è libero di aiutare il prossimo nelle maniere che ritiene più idonee. Se qualcuno, per esempio, ordinasse a un cristiano di versare metà del suo stipendio per i poveri, e di distribuirlo direttamente ai barboni che incontra per la strada (parte dei quali sono sicuramente affiliati a delle bande criminali che fanno dell’elemosina un commercio, e ridono alle spalle degli ingenui cristiani, pronti a intenerirsi davanti a un braccio rattrappito o a un bambino piangente), ebbene, questo non sarebbe cristianesimo: sarebbe comunismo di guerra, esproprio proletario, violenza e terrorismo psicologico. Nessuno ci può ordinare come dobbiamo aiutare il prossimo; che dobbiamo aiutarlo, è certo; ma che ciascuno di noi sia responsabile, in solido, della politica di aiuto che compete agli stati e ai governi, questa è tutta un’altra cosa.

Nessuna persona singolarmente presa, e neppure alcun cristiano, può vedesi accollata la responsabilità della miseria in cui giacciono molti Paesi dell’Africa e dell’Asia. Anche se vi sono responsabilità storiche dell’Europa, e degli Stati Uniti, per tale stato di miseria, certamente la soluzione non è quella di colpevolizzare i singoli cittadini occidentali: né per lo sfruttamento passato (colonialismo), né per il presente (multinazionali e speculazione finanziaria). Scaricare la soluzione dei problemi mondiali sulla coscienza del singolo cittadino occidentale, o del singolo cristiano, è sommamente iniquo: significa usare il senso d colpa, artificialmente suscitato e tenuto desto, per tormentare gli animi e obbligare le persone ad accettare di sottoporsi a qualsiasi forma di “riparazione”. Ma la richiesta di decine di milioni di Africani e Asiatici, quasi tutti di religione islamica, di essere accolti in Europa, anzi, non la richiesta, ma la pretesa imperiosa, rabbiosa, rancorosa, non può essere accolta, perché non spetta a chi domanda aiuto stabilire i modi, i tempi e l’entità dell’aiuto stesso. Per essere veramente tale, l’aiuto deve essere volontario e discrezionale; e, nel caso specifico, deve passare attraverso l’azione dei governi, non dei singoli. Il problema non si risolve aggiungendo un posto a tavola nelle singole case dei singoli cittadini. Semmai, sono i governi che devono avviare politiche di sostegno e di ricostruzione, per rendere possibile a quelle sterminate masse umane di rimanere nelle loro case, nei loro paesi, all’interno del loro tessuto sociale. Se la contribuzione non è volontaria e non può esprimersi nelle forme e nei tempi che volontariamente ciascuno ritiene opportuni, non è tale, ma è una costrizione, una imposizione.

Il Vangelo non si può imporre. Gesù non ha mai ordinato di soccorrere i poveri secondo ciò che i poveri domandano: per favore, non facciamo di Gesù un Fidel Castro del I secolo, non facciamone un comandante Sandino dell’antica Palestina. Non espropriava nessuno, non costringeva nessuno, non ricattava nessuno; esortava ad essere generosi, ad essere compassionevoli, ad essere solidali: non pretendeva delle contribuzioni coatte e ultimative. Non aveva in mente un mondo dove tutte le ingiustizie vengono sanate mediante una redistribuzione delle risorse materiali; se non altro per il piccolo dettaglio che non era interessato a predicare il paradiso in terra, ma, al contrario, un regno che non è di questo mondo. Lo disse e lo ripeté fino all’ultimo, fino all’ultimo colloquio con l’ultima persona che stette ad ascoltarlo: il procuratore Ponzio Pilato, che lo stava processando. Il mio regno, disse, non è di questo mondo. Del resto, lo aveva già fatto capire al Demonio quando, alla vigilia della sua predicazione, si era ritirato a pregare e digiunare nel deserto. Anche il Diavolo lo aveva tentato, suggerendogli la via del potere in questo mondo; ma lui l’aveva fermamente rifiutata. Questo non significa che Gesù fosse insensibile ai problemi sociali, o indifferente al dramma della miseria; significa che la sua predicazione era una predicazione religiosa, che si rivolgeva all’uomo totale e in una prospettiva soprannaturale: dunque, che non pensava che tutto andrà bene nel momento in cui gli uomini riusciranno ad instaurare la perfetta giustizia sociale sulla terra. Perché l’uomo rimane peccatore, se la sua anima si allontana da Dio e se non cerca costantemente l’aiuto di Dio. Diventa peccatore, perché si lascia tentare dalla superbia: la superbia di fare da solo.

Ecco: nella lettura fondamentalista del Vangelo,  benché ammantata di ossequio apparente, e quasi esagerato, per la parola di Dio, la parola di Dio viene sostanzialmente travisata. L’antica tentazione diabolica, la tentazione di Adamo ed Eva, fa nuovamente capolino: quella che l’uomo possa fare da solo, che possa instaurare la giustizia sulla terra, che possa creare il regno di Dio qui e ora. Il regno di Dio, per il cristiano, incomincia qui e adesso, laddove c’è una sincera conversione; ma si realizza solo lassù, quando passeremo all’altra vita e quando Gesù sarà ritornato “per giudicare i vivi e i morti”. Non prima, e non per opera nostra. Pensare diversamente, è apostasia. È la tentazione più pericolosa, e più subdola, per il cristiano. È l’ennesima tentazione del serpente, e sia pure ammantata di falsa umiltà e di apparente sottomissione al Vangelo. «Mangiate la mela, e sarete come Dio», disse il serpente a Eva. I cristiani progressisti e modernisti, che vogliono cambiare il mondo per instaurare il regno di Dio fin d’ora, non in senso morale e spirituale, ma in senso economico, politico e sociale, sono dei superbi che addentano la mela. Credono di poter fare il lavoro di Dio; credono, inconsciamente, di essere come Dio. In qualche angolo della loro presunzione, pensano perfino di essere migliori di Dio: perché il mondo creato da Dio è pieno di difetti, d’ingiustizie, di limiti; ma il mondo che essi hanno in mente, e che vogliono stabilire una volta per tutte, sarà perfetto, o quasi.

Alla larga da una simile tentazione. È diabolica. A caderci, talvolta, sono delle persone generose, piene di buone intenzioni: ne diamo loro atto. Però sono persone fondamentalmente superbe, che leggono il Vangelo con la stessa rigidità con cui moltissimi musulmani leggono il Corano: alla lettera, senza sfumature, con umiltà solo apparente. La vera umiltà consiste nel fidarsi di Dio, nel lasciar fare qualcosa anche a Dio, nel lasciarsi condurre per mano da lui. La mancanza di umiltà consiste nell’ergersi a paladini integerrimi di Dio: che pretendono, che tuonano, che giudicano. Non c’è umiltà nella loro voce, nel loro sguardo, nel loro modo di predicare il Vangelo. Lo brandiscono come un’arma: vogliono che tutti si sottomettano. Oh, non gli altri: ci mancherebbe; per i non cristiani, sono pieni di riguardi e di delicatezza. Rispettano tutte le altre fedi, rispettano la mancanza di fede, fino a pensare che molti atei e molti seguaci di altre religioni sono migliori dei cristiani (il che può essere vero) per una sorta di struttura mentale originaria (il che è falso). La loro durezza, la loro intransigenza, la loro critica implacabile sono solo per i cristiani, e, in particolare, per quei cristiani che non la pensano in tutto e per tutto come loro. Quelli, non li possono vedere; davanti a loro, si stracciano le vesti, si vergognano, vorrebbero cambiare marciapiede. Non vorrebbero averci niente a che fare. Hanno sempre il papa in bocca, ora che il papa si chiama Bergoglio; quando si chiamava Ratzinger, non lo nominavano, se non per criticarlo, insultarlo, denigrarlo. Curioso, vero?