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L’Italia, uno strapaese dimenticato

di Alex Barone - 14/02/2016

Fonte: L'intellettuale dissidente


L’Italia è l’insieme delle tradizioni che la costituiscono, le anime e le essenze regionali che la caratterizzano, quelle strutture identitarie che implorano d’essere recuperate.
  

Nelle vecchie pellicole cinematografiche, quelle del cinema neo-realista, nei capolavori di Rossellini, di Vittorio De Sica e di tanti altri, nella magnifica genialità artistica di attori come Walter Chiari, Ugo Tognazzi, Giorgio Albertazzi, piuttosto che Vittorio Gassman e Lando Buzzanca, era possibile cogliere tutto lo spirito puro del maschio italiano: virile, tradizionalista e deciso, ma anche sentimentale,  audace e scapigliato. In donne come Anna Magnani, Claudia Cardinale e Sofia Loren, tutta la carica emotiva e la femminilità non languida della donna italiana. Era L’Italia pura, l’Italia che sapeva ancora essere italiana, che si riconosceva in uno spirito preciso,  in una condizione identitaria ben definita. Era l’Italia rurale e cittadina, coi suoi pregi ed i suoi difetti, coi suoi connotati che la contraddistinguevano dagli altri popoli. Si respirava ancora quell’aria pura, che precedeva la fetida aria di quella globalizzazione che, pian piano, ha impoverito queste essenze di popolo, che rendevano differente il pianeta.

L’Italia prima ancora di essere nazione, si sa,  è assolutamente “strapaese”. L’Italia e l’italianità sorgono dalla fusione storica di particolarità locali, di essenze popolari, di radici culturali e sociali tra le più disparate, dal connettersi di tradizioni, usi e costumi che, nel loro essere differenti, costituiscono la sintesi dell’antropologia italiana. È quello spirito popolare, quell’ atavico senso del sacro unificato al profano, quella prontezza di spirito, quel naturale essere nel mondo, che definiscono l’antica radice dell’uomo e della donna italiani. È quel sentimento primitivo, quel senso d’attaccamento alla terra, quel coagulo di valori, fissazioni, riti ed abitudini, che, nonostante la globalizzazione, il modernismo ossessivo ed il progressivo americanismo patologico,  ancora si annidano in quell’ inconscio di popolo, che è del popolo italiano, dell’essere italiani.

Tolkien affermava che “Le radici profonde non gelano mai” e, di fatto, questo è vero, poiché, nonostante le pressioni esterne verso quel progressismo ultra-occidentalista che vorrebbe distruggere le identità di popolo, non si può ancora abbattere quella matrice profonda che determina il carattere, la personalità e l’istinto di un popolo. Infatti, le radici culturali di un popolo, rappresentano la storia del popolo stesso, le evoluzioni socio-economiche e politiche che hanno determinato i corsi di quella nazione. L’identità di popolo è un misto tra cultura, società, economia, politica ed adattamento al territorio, è connessione delle genti al suolo su cui risiedono. Pretendere di sradicare l’identità di popolo, significa ambire a distruggere, alla natura, la struttura inconscia di un uomo. A partire dagli anni Sessanta, tuttavia, si è assistito ad un progressivo rifiuto della cosiddetta “tradizione” e ad un graduale processo di demolizione di quelli che erano i sentimenti identitari di popolo. Lo stesso Pasolini,  si era ben accorto di questo processo di progressiva rinuncia del popolo, ed aveva altresì abilmente colto la caduta verso un’industrializzazione totale dei rapporti nei quali il cosiddetto “strapaese” stava sprofondando.

L’economia di mercato, la mercificazione di ogni ambito del reale (dall’economia alla lingua), l’imborghesimento degli assetti societari ed il lento abbandono della sfera bucolica che aveva caratterizzato un’importante componente dello spirito proprio del popolo italiano dalle origini fino al dopoguerra, hanno innescato questo processo di depauperamento dell’identitarismo di popolo. Lo spirito liberale stava sostituendo lo spirito proletario,  e questo fenomeno era percepibile ad ogni grado della vita sociale. È come se qualcosa avesse innescato nella società un graduale rifiuto del passato e ci avesse immersi inesorabilmente verso un’ineluttabile decadentismo progressista. Un decadentismo avido, ambizioso di divorare, in nome del freddo capitalismo e dell’ameno mercantilismo, tutto ciò che abbia a che fare con la tradizione e lo spirito tipicamente paesano.  È una lenta morte di quel l’essenza selvaggia, o, forse, selvatica,  che è propria della purezza dello “spirito della terra”, e un incondizionato trionfo della gelida tecnocrazia che rinnega origini, radici ed idee.

La burocratizzazione forzata delle cose è un’arma letale nei confronti della natura, di quella natura atavica e sincera. Nell’ambito dei rapporti geopolitici di potere, l’Italia, così come tutte le nazioni sovrane, dovrebbero tornare ad imporsi nelle decisioni e nella difesa delle proprie particolarità millenarie, abbattendo questa tendenza uniformante che guida le sorti attuali della nostra società. Si tratta, dunque, di opporsi a questa mondializzazione e ridare vitalità alle culture di popolo. Si torni ad essere cultura, si riparta dai popoli sovrani. Si riparta dalla tradizione, si difenda la tradizione.