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La tecnica, nuova etica

di Alessandro Di Marzio - 14/02/2016

Fonte: L'intellettuale dissidente


Oggi per ritenere una pratica giusta è sufficiente che essa sia tecnologicamente fattibile. Il fatto stesso che lo sia ne certifica la liceità. L’etica così abdica alla tecnica, dietro alla quale si cela, nascosto, il mercato.
  

Oggi grazie alla tecnologia è possibile fare di tutto. Ciò che solo 30 o 40 anni fa sembrava fantascienza oggi è spesso una banale e scontata realtà. Oggi si può guarire da malattie fino a pochi decenni fa considerate incurabili, si può aprire il telefonino e trovare in pochi secondi qualsiasi tipo di informazione, o collegarsi via video in tempo reale con persone che si trovano dall’altra parte del mondo. I progressi della tecnica sono sotto i nostri occhi in continuazione, e hanno per molti aspetti migliorato la nostra vita, è innegabile.

Oggi, tra le varie cose possibili grazie al progresso tecnico e tecnologico, un uomo se vuole può inseminare artificialmente una donna, pagarla lautamente, farle portare avanti la gravidanza per nove mesi, dopodiché prendersi il bambino e crescerlo come suo assieme alla propria compagna o al proprio compagno. La meglio nota maternità surrogata, o utero in affitto. Una pratica del genere, per la sua stessa natura, non ha mancato di suscitare forti discussioni e dibattiti ovunque, e ovviamente anche in Italia, dove proprio in questi giorni è difesa orgogliosamente da molte coppie omosessuali che vi hanno fatto ricorso e vedrebbero nell’approvazione della stepchild adoption prevista dal ddl Cirinnà la soluzione per il problematico stato giuridico del “genitore” non biologico, convivente di quello biologico.

La strenua difesa della maternità surrogata si basa principalmente sul fatto che, argomentano i difensori di essa, i tempi sono cambiati, la società si evolve, la tecnologia ha fatto molti progressi ed è giusto avvalersi di essi. Lo schema sotteso a un ragionamento simile è estremamente semplice: è tecnologicamente fattibile? Allora si può fare, è giusto farlo. Una logica stringente che non ammette obiezioni. Ma l’apparente, condivisibile o meno, riflessione che sta dietro a una simile speculazione è quanto di più avvilente e annichilente possa esistere per lo stesso pensiero dell’uomo: la tecnologia ha fatto così tanti progressi che noi non pensiamo più, non riflettiamo più su ciò che abbiamo davanti, ma prendiamo a priori per buono ciò che essa (la tecnologia) ci consegna. Non ci interroghiamo più se qualcosa è giusto o sbagliato, è bene oppure male, è lecito oppure no, ma per il solo fatto che si può fare lo facciamo, convinti che ciò basti a giustificarci,  forse sperando che ciò possa quantomeno sopire le nostre coscienze. La tecnica è così diventata la nuova etica, l’ha soppiantata e ne ha assunto il ruolo, decidendo ora essa stessa ciò che è buono e ciò che non lo è. E se approfondiamo l’analisi vediamo che ciò che tecnologicamente si può fare è anche mercificabile. Dunque in ultima istanza è buono ciò che, potendo essere fatto, può essere venduto. Siamo, di nuovo, chini davanti all’altare del mercato.

Un simile procedimento mentale non fa altro che testimoniare il totale appiattimento del pensiero, la totale abdicazione di esso verso ciò che viene proposto dall’esterno, verso un’accettazione dell’esistente per il solo di essere, esso, esistente. Un circolo vizioso che alla fine va sempre a favorire il mercato e la merce come unici metri di giudizio. In quest’ottica bisognerebbe accettare, per il solo fatto di essere praticabili, anche la clonazione, l’energia nucleare, la bomba atomica, o chi sa cosa.

E così, secondo quest’impostazione, in Italia si giustifica e si ricorre senza problemi (andando all’estero) all’utero in affitto, e ci si appresta con il ddl Cirinnà a porre un avallo, una convalida, un incentivo a questa pratica tramite l’espediente della stepchild adoption, venduta come misericordioso aiuto ai bambini nati da utero in affitto che dovessero ritrovarsi orfani del loro genitore biologico, in modo che non vadano a finire in un orfanotrofio. Questo anche quando a tal proposito è sufficiente leggere la legge 184/1983 sull’adozione per rendersi conto che nel nostro ordinamento è già prevista la cd figura dell’”adozione in casi particolari” con la quale il bambino viene affidato al convivente con cui abbia instaurato un “lungo e duraturo rapporto”. Dunque è evidente come il fine ultimo della stepchild sia quello di fungere da cavallo di Troia per la maternità surrogata, in una prospettiva di lungo termine che probabilmente ne prevede l’introduzione anche in Italia, per compiacere le tasche di chi più vorrà avvantaggiarsene. Considerato tutto questo, continueremo ingenuamente a giustificare l’utero in affitto semplicemente perché fattibile (e mercificabile) o ci renderemo conto che tali criteri non bastano a certificare la bontà di una simile pratica?