11 settembre, lezione già dimenticata
di Massimo Fini - 13/09/2006
Alle due del pomeriggio di quel giorno
stavo dormendo, dopo una notte
passata a scrivere. Squillò il telefono.
Era la mia prima moglie: «Accendi la
Tv, stanno bombardando New York». Corsi.
Feci in tempo a vedere - a meno che alle
immagini in tempo reale non si siano
sovrapposte quelle viste e riviste mille volte
nei replay - il tremendo impatto del secondo
aereo contro una delle Twin Towers. Sembrava
tutto finto, tanto era inverosimile: un
modellino di plastica come si usano per le
riprese cinematografiche. Provavo pena per
quei poveretti che sventolavano i fazzoletti
bianchi e che, essendo sopra la linea d’impatto,
non avevano scampo e orrore - ma
anche questa può essere un’immagine
sovrapposta - per quei corpi che si lanciavano
nel vuoto. Ma ero anche terribilmente
attratto e affascinato. Come tutti, credo.
Sarei però disonesto con me stesso e col lettore
se nascondessi che nel groviglio di sentimenti
contraddittori che si agitavano in me
c’era anche dell’altro.
Per tutta la vita ho sognato che borbardassero
New York. Per far capire agli americani,
che fino ad allora non erano mai stati colpiti
sul loro territorio mentre avevano colpito,
con tranquilla e spietata coscienza, in quelli
altrui, che avevano bombardato a tappeto
Dresda, Lipsia, Amburgo, Berlino, col premeditato
proposito di uccidere
Segue dalla prima
(…) milioni di civili per «fiaccare
- come dissero i loro
comandi politici e militari - la
resistenza del popolo tedesco»,
che hanno sganciato l’Atomica
su Hiroshima e Nagasaki, che
avevano bombardato la mia
città, Milano (gli adulti mi
dicevano che ci avevano liberato,
ma io bambino vedevo
solo le facciate delle case
ergersi, senza corpo, come
quinte di teatro, o le orbite
vuote delle finestre e le macerie),
che nel dopoguerra hanno
fatto centinaia di migliaia di
vittime innocenti in ogni parte
del mondo (lo scrittore Gore
Vidal ha contato 250 attacchi
che gli Stati Uniti hanno sferrato
senza essere stati provocati),
per fargli capire, insomma, che
cos’è un bombardamento.
Ha scritto il filosofo francese
Jean Baudrillard: «Che l’abbiamo
sognato quell’evento, che
tutti, senza eccezioni, l’abbiamo
sognato - perché nessuno
può non sognare la distruzione
di una potenza, una qualsiasi,
che sia diventata tanto egemone
- è cosa inaccettabile per la
coscienza morale dell’Occidente,
eppure è un fatto, un fatto
che si misura, appunto, attraverso
la violenza patetica di
tutti i discorsi che vorrebbero
cancellarlo».
Ma gli americani hanno ricavato
dall’11 settembre la lezione
opposta. Non vi hanno riflettuto
sopra. Invece di chiedersi
come mai proprio loro, gli onesti,
bravi, buoni, simpatici yankees
(perché tali si credono, in
totale buona fede) erano oggetto
di un odio così feroce, cieco
e disperato, han preso l’abbrivio
per fare una ulteriore accelerazione
ai loro deliri di egemonia
universale che non partono
dal dopo 11 settembre, ma
hanno avuto inizio all’indomani
del crollo dell’Unione
Sovietica. Nel 1990, con la Prima
Guerra del Golfo che aveva
pure le sue ragioni (ma Saddam
sarebbe stato spazzato via
già nel 1985, se proprio gli
americani non fossero venuti in
suo soccorso, fornendogli, tra
l’altro, le famose “armi di
distruzione di massa”), dove,
per non affrontare fin da subito,
sul terreno, il ridicolo esercito
iracheno, sotto le luminarie
e i fuochi d’artificio che ci
fece vedere il glorioso Peter
Arnett, sono stati uccisi
160mila civili, di cui 32.196
bambini che non sono meno
bambini dei nostri. Poi nel
1999, quando non era in corso
nessuna lotta al terrorismo
internazionale e l’11 settembre
era di là da venire, con l’aggressione,
questa volta senza
ragione alcuna, della Jugoslavia
e il bombardamento, per 72
giorni, di una grande capitale
europea, civile e colta, come
Belgrado (5.500 morti).
Dopo l’11 settembre gli americani
si sono comportati come
un gigantesco cow boy che,
colpito e atterrato da un sasso,
senza aver potuto vedere
la mano che l’ha lanciato,
rialzandosi si mette a sparare
all’impazzata. Prima hanno
aggredito l’Afghanistan,
dove, per prendere un uomo
che poi non hanno preso,
hanno spianato un Paese a
suon di “bombe blu” e all’uranio
impoverito, (qui i morti
non si contano, perché gli
afghani, popolo tradizionale,
non contano), l’hanno invaso,
l’hanno occupato e ora vi
sostengono il governo-fantoccio
di Hamid Karzai. Poi
l’Iraq. Se con l’occupazione
dell’Iraq si voleva combattere
il terrorismo, beh, si è
ottenuto il risultato opposto.
Saddam Hussein era quello
che era, ma come ogni potere
forte non tollerava sul
proprio territorio altri poteri
forti, alla bin Laden ( vedi
fascismo e mafia). E infatti
non c’era un solo iracheno
nei commandos che hanno
abbattuto le Torri Gemelle e
attaccato il Pentagono.
Adesso l’Iraq è una sorta di
“terra di nessuno”, dove
accorrono i terroristi internazionali
che vi trovano spazi,
basi, logistica, quattrini,
armi, complicità e bersagli
immobili e facili. Ora nel mirino,
com’è noto, c’è l’Iran.
Ma gli americani non hanno
riflettuto anche su un altro, più
profondo e più importante, fattore.
Un modello di sviluppo
come quello occidentale, di cui
gli Stati Uniti sono la punta di
lancia, basato sulle crescite
esponenziali, è destinato fatalmente
a implodere su se stesso,
come certi grattacieli minati ad
arte, una volta che abbia occupato
tutto l’occupabile, perché
non potrà più espandersi e crescere.
Gli americani alla velocità folle
cui stanno portando ed
espandendo il modello di sviluppo
occidentale ne stanno
accorciando il futuro e, quindi,
anche il loro stesso futuro e
quello dell’intero Occidente.
L’11 settembre era un’occasione
per frenare. Invece hanno
accelerato ancora. Non sembrano
rendersi conto che il raggiungimento
della loro meta
segnerà anche la loro fine e la
fine dell’Occidente.
In fondo, il radicalismo islamico,
opponendosi, rallentandoci,
ci sta facendo, sensa saperlo e
senza volerlo, un favore.