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Quando la tecnica uccide la bellezza

di Alex Barone - 21/02/2016

Fonte: L'intellettuale dissidente


La modernità e l’esaltazione fanatica dei principi della tecnica e del progresso hanno intriso la realtà dei principi dell’utile incondizionato, contro i principi della bellezza e della passionalità.

  

La modernità, la tecnica , lo sviluppo industriale,  per quanto abbiamo, senza dubbio, migliorato la vita materiale dell’uomo,  ha anche instillato,  nella società moderna, un processo a ritmo sempre crescente: l’idolatria della tecnica stessa. È a partire dalla prima rivoluzione industriale, e, sul piano culturale,  dal l’avvento dell’illuminismo  (vero fenomeno culmine di questo processo di esaltazione massima dell’artificio e del progresso) che la tecnica ha assunto un valore quasi divino nelle nostre esistenze,  smantellando tutto il resto ed imponendosi sul reale. La tecnica è divenuta quasi il paradigma d’ogni cosa, tanto che non c’è più spazio per il resto. Si è imposta sull’uomo,  intravedendo in essa sola  il metro e la norma d’ogni cosa.

Martin Heidegger,  nel corso del Novecento, fu uno tra i più autorevoli pensatori che pose sotto analisi la questione della tecnica,  a partire dall’osservazione dei rapporti esistenziali del mondo contemporaneo, sempre più pervaso da una artificializzazione delle cose, figlio di quel positivismo assoluto che aveva caratterizzato la società tardo-ottocentesca e dei primi del secolo.  Heidegger, infatti,  compie interessanti riflessioni sul tema,  inserendole in un discorso di tipo ontologico, ovvero cercando di cogliere l’essenza stessa della tecnica. L’analisi heideggeriana, sicuramente, si pone in una prospettiva di tipo metafisica, ovvero di interpretazione della tecnica e del suo essersi imposta sulla natura e sulla vita dell’uomo in una logica di oggettivazione forzata dell’essere. L’essere , con l’intensificazione della scienza e con la materializzazione progressiva delle cose, si è adeguato agli assunti della stessa scienza, privandola del suo svelamento reale, nella sua essenza. L’essere è divenuto manipolabile, facilmente determinabile dalla supremazia della tecnica, che trascende la natura metafisica.

Heidegger, pensatore geniale ed originalissimo, articolava la sua riflessione in un contesto culturale del tutto avverso rispetto alle sue posizioni,  poiché altri ordini di pensiero si erano imposti nell’ambiente accademico dell’epoca. Erano i neo- kantiani che, invece,  fedeli alla tradizione di pensiero molto illuminista del loro maestro,  vedevano nella metafisica una condizione filosofica da superare. Nel pensiero kantiano, infatti,  vi è un totale abbandono della ricerca della sostanzialità dell’oggetto, dal momento che l’essenza ultima della cosa (il Noumeno) non sarebbe afferrabile dell’uomo,  il quale non può far altro che cogliere esclusivamente il fenomeno del mondo,  ovvero la plasmazione conoscitiva e soggettiva (umana) della cosa stessa.  Heidegger, invece , vuole ripartire dalla metafisica, e ritornare a cogliere la natura ed il mondo nella sua reale essenza. Il filosofo tedesco riscopre, in qualche modo, la ricerca del cosiddetto “essere in quanto tale”. Secondo lui, infatti,  l’uomo (unico essere in grado di cogliere il substrato profondo del proprio esistere, le radici ultime dell’esistenza stessa), deve tornare a prendere coscienza di sé , de proprio statuto e del proprio grado ontologico nel mondo. La tecnica,  invece, avrebbe assunto un ruolo talmente decisivo e primario, nella società, tale da essersi riuscita ad imporre sull’uomo stesso, ed essere divenuta canone stesso della vita umana, asserendo L’essere non più ai principi del “bello” (com’era ai tempi dei greci), bensì alle logiche dell’utile,  del progresso, della manipolazione e dell’oggettizzazione del mondo.

Quando la tecnica si impone tutto diviene manipolabile, e la natura stessa , da cosa ontologicamente definita, diviene fluidamente manipolabile,  disperdendo ed annullando quello statuto di bellezza originaria che si annida nella radice ontologica stessa della cosa. La società odierna , dimostra, di fatto, questo superamento del primato della scienza sull’antropologia, dove il processo tecnico, talvolta,  deturpa ed indebolisce la bellezza naturale delle cose, in nome dell’individualismo progressista, che pretende di poter modificare ed alterare ogni cosa. La tecnica, avrebbe, infatti, nel corso della storia, dopo la civiltà greco-classica, assunto una sorta di degenerazione,  divenendo da puro “saper fare”, finalizzato alla ricerca dell’utile ma anche alla realizzazione e soprattutto alla concretizzazione del concetto di Bellezza , un vero e proprio fare finalizzato al suo autoriprodursi, un’azione finalizzata a sé stessa, che ha trovato,  poi, nella rivoluzione industriale e specialmente nel pensiero illuminista una specie di divinizzazione stessa.
Nel nostro linguaggio quotidiano, infatti,  termini come “sviluppo” e “progresso” assumono,  a partire da assunti dogmatici , significato della giustizia assoluta ed incondizionata,  bene in senso acritico. Ma con quale garanzia tutto il progresso, tutta la manipolazione del reale è sempre giustizia sul mondo, anche quando la tecnica stessa può riversarsi come strumento di vera e propria distruzione della bellezza stessa, ingenerando , invece,  bruttezza, ovvero opponendosi all’umanità ed alla sua sensibilità estetica della cosa?

La fredda ragione è divenuto sostituito del sentimento, e lo spazio per il dilettevole è stato sottratto dall’utile assoluto,  dimenticando l’impatto sensibile del percepire estetico dell’uomo e del rapporto stesso tra l’uomo ed il mondo. Oggi, tutto sembra poter divenire merce, anche la maternità stessa, ultimamente, oscurando, in nome dell’individualismo stesso, la bellezza del vivere che si incardina nell’assenza naturale delle cose. Così, ad esempio, la bellezza di una donna che, nella sua femminilità originaria partorisce il proprio bambino, donando nuova vita all’umanità, diviene oggetto dell’utile mercificazione egoistica ed individualista. La società moderna, infatti, sembra aver perduto quell’atavica connessione con l’essenza stessa delle cose ed aver dimenticato la nobiltà stessa della spiritualità che si annida nella mondo. Ernst Jünger,  altro immenso pensatore novecentesco, all’interno del suo romanzo Sulle scogliere di marmo, dirà: «Profondo è l’odio che l’animo volgare nutre contro la bellezza».