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Dostoevskij, il più grande rivale del nichilismo

di Luca Gritti - 21/02/2016

Fonte: L'intellettuale dissidente


Ormai, i classici non si leggono quasi più. Non ci sono più quelle letture obbligatorie, formative, di un tempo. Profetiche, a tal proposito, le parole di Buttafuoco: 'La futura classe dirigente sarà la prima a non aver mai letto Dostoevskij. Mentre invece, chi si prenderà il mondo se lo prenderà in virtù di una sapienza antica e di occhi critici sempre più affinati. In Oriente vanno avanti a colpi di Confucio e Kant. I nostri nipoti citeranno Fabio Volo, come ho letto su Twitter'.
  


Oggi non ci sono più autori obbligatori, non esistono più canoni ed elenchi; certo, gli autori che si studiano a scuola sono degli autori considerati imprescindibili, ma talvolta tra di loro ci sono nomi che andrebbero quantomeno ridimensionati, ed altri che, senza alcuna ragione apparente, vengono omessi. Come in altri campi, anche in quello della letteratura si è interpretata in modo distorto l’idea di uguaglianza: come gli uomini comuni, anche gli autori sono tutti uguali in partenza, ma è assurdo pretendere che restino tutti allo stesso livello, attribuire a tutti la stessa importanza e la stessa visibilità; in base all’opera si deve giudicare, selezionare, “discriminare”, e costituire un ventaglio di libri imprescindibili, mete obbligatorie nel personale percorso che ciascuno compie nella comprensione della vita.

Ecco, Delitto e Castigo di Fëdor Dostoevskij è uno di questi libri fondamentali, un libro che tutti dovrebbero leggere, non per vana erudizione né per passatempo, ma perché in quel libro c’è davvero la vita, l’esistenza umana in tutti i suoi momenti. Se, come diceva Eliot, la poesia – ma potremmo dire la letteratura in generale – è il corrispettivo emotivo del pensiero, allora Delitto e Castigo è un evento della storia della letteratura, perché è un libro che riesce a restituire tutte le emozioni della vita: il dolore e la rabbia, la commozione e la compassione, l’odio e la paura, l’ironia e l’amore. È un libro che non è mai troppo tardi per leggere, ma ha un sapore e un valore diverso se lo si legge da giovani, alla soglia dei vent’anni, come il protagonista del romanzo, perché solo così si riesce a percepire con chiarezza quanto in questa storia inventata si celino tante storie vere; quanto dentro questa letteratura si celino le vite di molti e la vita in generale.

Raskol’nikov è un giovane di vent’anni che si sente come oppresso dall’ambiente della San Pietroburgo di fine Ottocento, non sa perché vivere la vita, a cosa valga la pena dedicarla, se valga la pena imboccare la strada di sicurezza che la famiglia auspica per lui, che però, a suoi occhi di sognatore e di idealista, appare anche una strada claustrofobica di mediocrità. Raskol’nikov è un giovane che rassomiglia la gioventù d’ogni tempo, il suo smarrimento e insieme la sua febbrile ansia di agire, la sua paura di vivere e la sua famelica voglia di vita. Chi non ha mai vagato, camminato per ore in strade che non conosceva, senza avere una meta od uno scopo, nella speranza illusa di trovare qualcosa o qualcuno che gli riempisse la vita, che ponesse fine al suo inesausto cammino, o che, meglio ancora, gli indicasse una meta, fosse pure lontana, una direzione lungo cui camminare? Chi non ha mai pensato, come Raskol’nikov, che “casa sua gli era diventata insopportabile”? Chi non ha mai avvertito quell’ansia di andare senza sapere dove, di fare qualcosa di eclatante ed epocale, che segnasse finalmente una svolta, senza sapere cosa? E così Raskol’nikov si fa travolgere da questa gioventù impaziente e febbricitante, eccitata e disorientata, e compie un assassinio, senza riuscire neppure a spiegarsi il perché.

E qui entra in gioco anche il valore filosofico del libro, che è monumentale almeno quanto quello letterario. Dostoevskij vive la Russia dell’Ottocento e la grande nascita del pensiero nichilista, questa generazione perduta che annunciava la fine del senso della vita, il trapasso della morale e l’avvento della forza come sola variabile determinante della vita. Si parla della Russia di due secoli fa, ma non è lo stesso nell’Occidente di oggi? Quante volte si afferma, subdolo e strisciante, il sospetto, che non esiste alcuna giustizia, alcuna morale; chi aiuta gli altri lo fa solo per appagare se stesso, per cui è un esempio di ipocrisia, non di virtù; chi davvero riesce ad affermarsi lo fa perché è forte, è la forza ciò che conta; chi non riesce ad essere forte, allora si accontenta di essere giusto…Il capitalismo moderno, rinfrancato dal darwinismo, non fa altro che rafforzare questo terribile modo di pensare, come non manca di ironizzare anche Dostoevskij, quando Marmelanov all’inizio del romanzo dice che la carità, un tempo creduta una virtù, ora è additata come un male nei paesi come l’Inghilterra, dove esiste “la scienza economica”…Lo stesso protagonista, quando viene preso dalla voglia di costituirsi, non lo fa, almeno in un primo momento, perché ha capito che il suo è stato un gesto sbagliato, ma perché crede di non essere all’altezza del suo gesto: Napoleone, argomenta, ha ucciso molte persone per approdare alla grandezza, e se è stato grande è perché non ha mai provato rimorsi…Insomma, Raskol’nikov quando pensa di confessare non lo fa perché vuole diventare giusto, ma perché si convince di essere debole, di essere uno destinato alla mediocrità.

La contrapposizione tra forza e giustizia, nel romanzo, è intrecciata a quella tra sogno e realtà, tra velleità di grandezza e concretezza, tra idealismo e realismo: l’idealista è colui che sacrifica la realtà presente con quella futura, uccide un uomo concreto oggi per fare del bene domani; il realista è colui che non combatte la realtà, ma la vive: questo non significa che ci si adegui con rassegnato fatalismo, ma che lui tenta di cambiare la realtà vivendola; il bene che compie non è un ideale astratto, ma ha il volto concreto della bambina che ha aiutato, dell’uomo che di cui ha ascoltato le sofferenze, della donna che ha amato…Si legge Dostoevskij e tornano in mente le parole di Simone Weil sulla “falsa grandezza”: l’autrice ebrea diceva che, se si continueranno a celebrare i cesari, gli Alessandro, i Napoleone come dei grandi, allora nulla vieterà ad un giovane, domani, di essere affascinato da Hitler e di tentare di ripercorrere il suo cammino. E qui viene l’aspetto cruciale di Dostoevskij, cioè la Fede cristiana, in particolare ortodossa, che è il punto nodale di tutta la sua opera, la presa di coscienza su cui si fondano l’espiazione e la gioia di vivere.

Per l’autore russo la grandezza non è quella di Napoleone, a lungo inseguita da Raskol’nikov, ma è quella di Cristo, di Cristo soltanto, il cui regno “non è di questo mondo”. La grandezza autentica non passa dalla forza, dall’esercizio del proprio potere sugli altri, ma sulla capacità di sopportare il dolore, di vivere la vita anche quando è piena di ingiustizie; la capacità di portare la propria croce. Scrive Dostoevskij in un passaggio pazzesco della lettera al fratello in cui spiega cos’è per lui Delitto e Castigo: «L’idea del romanzo è la concezione ortodossa! (…) Non vi è felicità nelcomfort, la felicità si acquista con la sofferenza. (…) Non vi è in questo nessuna ingiustizia, perché la conoscenza e la coscienza della vita (sentita direttamente con il corpo e con l’anima, ovvero con il processo stesso del vivere) si acquista con l’esperienza dei pro e contro che occorre provare su di sé con sofferenza; tale è la legge del nostro pianeta, ma questa coscienza immediata, sentita col processo stesso della vita, è una gioia così grande che si potrebbe pagare con anni di sofferenza». Queste parole dell’autore russo ci elettrizzano e ci esaltano: ci vediamo un’arringa al capitalismo, alla società dei consumi, al regno dei centri commerciali; ma poi siamo franchi con noi stessi e ci domandiamo: davvero siamo all’altezza di quest’idea di felicità che passa dalla sofferenza, da questa concezione della vita come cammino in cui portare croci? Davvero saremmo in grado di rinunciare al nostro benessere? In fondo, che ne sappiamo noi davvero di cos’è la sofferenza?

Forse è più realistico intendere la croce in un’ottica quotidiana, più accessibile: la gioia di cui parla Dostoevskij si raggiunge o almeno si accarezza facendo seguire ogni giorno ad un capriccio una privazione, ad un’azione interessata per sé un gesto gratuito per qualcun altro…Inoltre, quello che pure colpisce di Dostoevskij è la battaglia succitata tra idea e realtà, in cui si rivede di nuovo Simone Weil e la sua concezione di Bene (“Bene è dare più realtà all’Altro”). Un uomo diventa malvagio (“s’incattivisce” si scrive nel romanzo) quando si rinchiude in se stesso, resta prigioniero delle sue stesse elucubrazioni, perde il senso della realtà e delle cose, delle persone vere e dei veri sentimenti; viceversa si avvicina al bene quando si tuffa nella realtà e nel confronto con gli altri, nella vita e tra la gente della strada: là sta la salvezza, là sta la verità.

Raskol’nikov si redime due volte nel libro, una è temporanea, l’altra definitiva, entrambe le volte quando molla le sue difese e piange tra le braccia di una donna: prima sua madre, poi la sua amata Sonja, che rappresenta la croce e la realtà, le vie della redenzione. Quando la sorella Dunja apprende le convinzioni del fratello sulla meschinità della giustizia e sulla grandezza degli assassini, le scappa detto che era una follia quel tentativo di “vivere senza gli altri”. Dostoevskij ribalta qui in anticipo il verdetto di Sartre: gli altri non sono l’inferno, ma sono il paradiso, cioè la salvezza. Quando si è chiusi in se stessi e si sta per perdere la realtà, è sempre un amico che ci fa rinsavire e ci restituisce alla vita, che “ci salva”. Lascia basiti che un autore solo e sfortunato, che ebbe un’esistenza travagliata ed infelice, sia riuscito a partorire un così grandioso messaggio di bellezza, giustizia e verità in un libro che pubblicò a puntate per saldare i suoi debiti. È forse la conferma in vita della sua opera, del suo messaggio gravoso ma pieno di speranza: la grandezza sta nel saper portare una croce, la felicità sta nel saper riscoprire la realtà, nell’ascoltare gli altri.

Così scrive Dostoevskij sempre nella succitata lettera al fratello: «Fratello, non mi sono disperato e non mi sono perso d’animo. La vita è ovunque la vita, dentro di noi e non al di fuori. Accanto a me ci saranno sempre uomini, essere un uomo tra gli uomini e rimanerlo per sempre, in qualsiasi sventura non disperare, non abbattersi, ecco cos’è la vita, ecco il suo vero compito. Quest’idea è entrata nella mia carne e nel mio sangue (…). La vita è un dono, la vita è felicità, e ogni istante può essere un secolo di felicità (…). Adesso, cambiando vita, rinasco in una nuova forma (…) conservo il mio spirito ed il mio cuore puri. Rinascerò migliore». Cos’altro scrivere dopo questo?