Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il mio ricordo di Umberto Eco

Il mio ricordo di Umberto Eco

di Claudio Antonelli - 21/02/2016

Fonte: Arianna editrice


Non voglio aprire polemiche né urtare suscettibilità. Desidero semplicemente farvi parte di un sospetto fortissimo anzi di una certezza: l’italianissimo Umberto Eco è stato un furbo di sette cotte che ha saputo sfruttare la fregola italiana di essere alla moda e di voler apparire ad ogni costo intelligenti. Ora il fatto di comprare un suo libro e leggicchiarne qualche pagina ha soddisfatto in pieno queste due insopprimibili esigenze italiche.

Un mio fuggevole ma impetuoso incontro all'Istituto italiano di cultura di Montréal col mammasantissima degli intellettuali-progressisti italiani mi confermò questa verità.

 

UMBERTO ECO SCRIVE A FREDDO E NON A CALDO

 

All’Istituto italiano di cultura di Montreal, Eco presentò, anni fa, l’edizione in francese del suo best seller “Il nome della rosa”. Lo fece con verve e con umorismo, in un francese e in un inglese magnificamente parlati, e in un italiano addirittura pirotecnico. Non riuscì a fugare, però, l’impressione – come dire – di un’abilissima ciarlataneria. Tra l’altro si vantò di aver scritto prima la fine, poi l’inizio, poi la parte di mezzo del suo romanzo di successo aiutandosi con calcoli matematici e che so altro...

Venuto il momento delle domande e dei commenti, nessuno del pubblico osava aprir bocca. Il professor Bistolfi, direttore dell’Istituto italiano di cultura, mi aveva in precedenza strappato la promessa che, in caso di mutismo da parte dell’uditorio, sarei intervenuto io con una domanda. Allora, un po’ controvoglia e solo per mantenere fede alla promessa, intervenni. Con tono educato, e cercando di apparire il meno polemico possibile, esordii dicendo che l’enorme successo de “Il nome della rosa” metteva fuori gioco ogni dubbio circa l’alta qualità dell’opera. Aggiunsi però che Eco si era vantato con noi di aver scritto il libro cominciando dalla fine, continuando con l’inizio, e finendo con la parte centrale. Inoltre ci aveva detto che si era aiutato facendo strani calcoli a tavolino sulla struttura e lo sviluppo del romanzo, e che aveva saccheggiato a piene mani documenti e testi dell’epoca. Appariva evidente che aveva scritto quest’opera senza passione, a freddo. Io stesso, alla lettura, avevo ricavato l’impressione di un’abilissima, geniale contraffazione. Aggiunsi che il suo libro poteva essere paragonato a un bel vaso etrusco, opera di un abilissimo artigiano falsificatore. La domanda che gli rivolgevo era la seguente. “Come spiegava, Eco, che gli Italiani, tanto passionali, istintivi e irruenti - così almeno ci vedono gli altri – riescono ad eccellere in opere d’alto funambolismo?” E dicendo ciò pensavo oltre che a Eco, all’evoluzione di un Fellini, passato dalla semplicità e dalla drammaticità de “La strada” a “Otto e mezzo” e ad altri film da illusionista.

 

[Trovo doveroso da parte mia inserire oggi queste righe nel mio scritto su Eco, per cercare di spiegarvi il "retroterra" dei miei pensieri di allora.

In me bruciava in me la maniera degradante in cui i Québécois consideravano e spesso anche trattavano, in quegli anni, "les Italiens", che allora - possiamo dirlo - erano all'ultimo gradino della scala sociale - fatti salvi gli aborigeni. Trovavo quindi sorprendente, e in un certo senso gratificante che l'Italia attraverso Eco e tanti altri, tra cui Fellini, esprimesse un'immagine della nostra lontana patria che era il contrappasso di quell'Italia da dopoguerra, da film neorealistici, rimasta invece bloccata nelle meningi dei Quebecchesi. Bisogna ammettere che coloro che erano venuti dall'Italia in Canada e in Québec, nel mio periodo e in quello precedente al mio, erano in genere gente povera. Provvista però di valori non da poco, come il senso della famiglia, del sacrificio, del risparmio; valori quasi del tutto sconosciuti al quebecchese medio e grazie ai quali  i nostri "Italiens" si affermeranno in maniera egregia sul piano economico.

Allora una domanda non molto infrequente rivoltami era: "Perché tua madre si veste di nero?" Cercando di controllarmi io allora replicavo: "Mia madre vive in Italia e tu non l'hai mai conosciuta. Come fai a sapere come si veste? Lei, ti assicuro, non si veste di nero e probabilmente è piu' elegante della tua." Concludevo poi didascalico: "Il nero nei paesi di antica civiltà è il colore del lutto e di conseguenza anche della vecchiaia. In Italia nessuna donnetta anziana si sognerebbe di tingersi i capelli di color ciclamino come le vecchiette fanno qui..." .

In quell'epoca le mie orecchie ebbero a sorbirsi, un paio di volte, un "complimento" sorprendente (sorprendente anche perché io non mi  consideravo particolarmente "intelligent" rispetto agli altri italiani, ma sorprendente non solo per questo): "Mais tu es intelligent pour être un Italien..." Il che la dice lunga sui pregiudizi di cui facevamo le spese. Di qui una certa mia sorpresa e quasi un disorientamento trovandomi di fronte a un esponente di un'ormai "intelligentissima" Italia.

Cercavo quindi di avere da Umberto Eco, campione della comunicazione, una spiegazione che confermasse la mia analisi di questo cambiamento epocale. Secondo me, l'Italia, grazie alla rapida abbondanza da cui era stata investita, aveva cambiato stile, sogni e linguaggi, entrando a gonfie vele nella fase della sofisticatezza e anche dello snobismo (in cui da allora è rimasta impantanata). La mia teoria: la mente, quando la pancia è ormai piena, smette di sognare prosciutti e salami - onnipresenti ad esempio nei film con Totò - e s'innalza verso i cieli rarefatti]

 

Io avevo delle idee precise in merito, che però non esplicitai. Secondo me, lo straordinario benessere che aveva investito in così breve tempo gli Italiani, passati, grazie al boom economico, dalle ristrettezze al superfluo, aveva finito con il cambiare temi e stili. “Il nome della rosa”, a mio avviso, faceva inoltre leva sul gusto del marinismo e sul culto dell’“intelligenza”, così diffusi tra gli abitanti dello Stivale.

In cuor mio avrei voluto che Eco desse una spiegazione circa il successo di questi giochi di prestigio, di questa letteratura pseudostorica e cabalistica, in una realtà italiana dove dal cibo al gesticolare, dalla famiglia a tutto il resto, ogni cosa sembra essere invece passionale e viscerale.

Devo ammettere che il mio intervento fu provocatorio, come del resto provocatore e dissacratore mi era sempre apparso Eco. Però la mia domanda era sinceramente diretta a ottenere una risposta, e non certo a contestare Eco o a far mostra d'“intelligenza”.

L’illustre, citatissimo, coltissimo Umberto Eco avrebbe potuto trionfare con estrema facilità sull’intervento di questo oscuro emigrato italiano, dando una riposta sincera o facendo ricorso ad un battutina qualsiasi, oppure riconoscendo che in parte potevo anche aver ragione circa il carattere di sperimentalismo e di abile contraffazione del suo libro, ma che la letteratura non è certamente solo passione. Il grande Umberto, invece, perse le staffe. Usiamola pure la parola: s’incazzò e di brutto. Cambiò completamente tono. Scese dall’Olimpo. Perse la vernice “British” che aveva fin lì voluttuosamente ostentato e m’investì in malo modo, e se non mi disse “lei non sa chi sono io” fu perché gli doveva essere ormai chiaro che io sapevo benissimo chi lui fosse.

Con faccia schifata e fuori dai gangheri, il pontefice massimo del “cagliostrismo” letterario italiano si agitò sulla sedia, anzi sul seggio, tornando continuamente sull’espressione “a freddo”, che pronunciava ora con sdegno ora con sarcasmo. Tirò in ballo anche Beethoven, per mostrare al pubblico – ove ve ne fosse stato bisogno – quale fesseria enorme io avessi scodellato. Seguendo la mia logica – sostenne Eco – si sarebbe dovuto rimproverare anche a un Beethoven di aver composto i suoi capolavori musicali “a freddo”, dal momento che questo grandissimo musicista, essendo sordo, non poteva udire la musica che componeva. Citò anche il simbolismo della Divina Commedia, ammirato e apprezzato oggi e non criticato come io facevo col simbolismo de “Il nome della  rosa”.

Disse tutto questo, devo ammetterlo, tra l’ilarità solidale del pubblico che, soggiogato, seguiva il geniale istrione come un orchestrale può seguire il direttore d’orchestra. Al che io replicai, a proposito di Dante, che il simbolismo e i richiami religiosi, in quell’epoca, facevano parte della vita di tutti. Una cosa, dissi, sono i simboli e i riferimenti dotti che fanno parte di un’epoca, ed un’altra un massiccio simbolismo che viene ricreato a tavolino al fine di solleticare la vanità del lettore che ogni volta che riesce a interpretare un riferimento arcano si sente intelligente quasi quanto l’autore. Ma pochi mi ascoltarono. Il pubblico era tutto dalla parte del celeberrimo giocoliere. Da questo punto di vista, io, quella sera, non trionfai proprio per nulla.

Dopo di me, altri del pubblico intervennero con domande e commenti, ma ogni volta Umberto Eco, che appariva rimuginare, turbato, l’enorme affronto che avevo osato fargli, deviò dalle risposte per cercare di fare del sarcasmo contro di me e ridicolizzarmi. Voleva insomma mostrare urbi et orbi quanto assurdo, cretino e temerario fossi stato con quel bruciante giudizio: “a freddo”.

Durante il rinfresco che seguì alla conferenza, nella confusione delle voci colsi per un attimo la voce di Eco, che, concitatamente, denunciava un’ennesima volta quella mia stupida e provocatoria accusa di scrivere “a freddo”.

Ad un certo momento io uscii all’aperto per prendere una boccata d’aria, e anche per meditare da solo sull’accaduto. Ero sorpreso ma anche un po' turbato per l'iradiddio che avevo suscitato. Cosa mi avrebbe detto il dottor Bistolfi?  Dopo qualche minuto mi accinsi a rientrare nell’Istituto. Fu allora che incrociai Sua Santità Umberto Eco, che stava uscendo affiancato dal prof. Bistolfi. Come seppi poi, quest’ultimo, di fronte alla decisione del prestigioso ospite di abbandonare anzitempo il ricevimento preparato dall’Istituto, si recava con lui a cena in un lussuoso ristorante di Montréal. Prima che il grande Umberto potesse riconoscermi, dalla sua carnosa bocca uscirono delle frasi rabbiose e concitate piene di “a freddo”. L’iroso monologo era rivolto dal collerico genio della semiotica al direttore dell’Istituto italiano di cultura di Montreal, suo anfitrione, che cercava di calmarlo, senza però riuscirvi.

Se riferisco questo episodio non è certo per vantarmi – qualcuno potrebbe dire: un po’ come una mosca cocchiera che ha avuto l’onore d’infastidire con una sua microscopica cacatina Sua Eminenza Umberto Eco – ma semplicemente per confermare che il politicamente “progressista”, geniale e funambolico Umberto Eco scrive a freddo e non a caldo. Ecco tutto.