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Il Nondualismo di Adi Shankaracharya e le “Sei strofe sulla salvezza”

di Paolo D’Arpini - 28/02/2016

Fonte: Arianna editrice

Adi Shankaracharya (788 – 820 d.C.) è quel grande sapiente, saggio e
santo che ristabilì in India la dottrina Advaita (Non Duale) che per
un periodo era stata negletta a causa della propagazione del buddismo,
del jainismo e di altri culti. Adi significa “originario” Shankara è
uno degli epiteti di Shiva ed Acharya sta per “maestro”. I suoi
commentari originali sulle Upanishad, sulla Bhagavad Gita e sui
Brahmasutra riportarono in luce le profonde implicazioni spirituali
dell’Advaita che stava stagnando anche in seguito ad una pratica
religiosa ortodossa e superficiale (in auge a quel tempo), sostenuta
dalla casta sacerdotale brahmina. Egli, nella sua pur breve esistenza,
reintegrò il vero significato del Vedanta rendendolo inoltre
comprensibile alle masse e confutando le formali dottrine buddiste
(mahayana, etc.) che pian piano uscirono dalla consuetudine religiosa
dell’intera India. Egli fondò inoltre quei “maths” (istituti
spirituali) posti alle cinque direzioni, di cui i capi spirituali
portano il suo nome. Al nord a Badrinath, nel sud a Kanchi, nell’est a
Puri, nell’ovest a Dwarka ed al centro a Sringeri. In ognuno di questi
monasteri c’è un maestro che deriva la sua autorità da uno dei
principali discepoli di Adi Shankaracharya.

Shankara, dicevamo, è uno degli appellativi di Shiva. Shiva dal punto
di vista tradizionale viene considerato l’aspetto della Trinità
preposto alla distruzione. Ma tale distruzione comprende anche l’ego,
o l’ignoranza, ovvero quell’identità separata che impedisce all’uomo
di riconoscersi Uno con l’Assoluto. Perciò Shankara sta a significare
“favorevole, propizio” . Egli è l’Assoluto stesso, l’amore indicibile
che sorge dal principio “Io” privo da ogni identificazione, la pura
consapevolezza di Sé (in sanscrito Atman). Shiva viene anche definito:
“Satyam-Shivam-Sundaram” cioè Vero, Auspicioso e Incantevole.

Shankaracharya viene considerato uno dei massimi esponenti  del
Nondualismo, (in Sanscrito: Advaita) che è l'espressione più sottile e
"scientifica" del pensiero spirituale umano. Agli effetti pratici non
può essere definita una filosofia, in quanto si pone "prima" ed
"aldilà" del pensiero, quindi non potrà mai divenire un argomento di
studio o di dibattito. Il Non-dualismo è stato intelligentemente
rappresentato da uno dei suoi più recenti fautori,  Sri Poonja di
Lucknow (detto Papaji), con queste parole: "Immagina l'Uno non seguito
dal due e poi abbandona il concetto stesso di Uno".  Non è possibile
alcuna speculazione mentale su quanto viene significato con questa
netta e assoluta indicazione della realtà.

La concezione Non-duale si affaccia sulla scena del pensiero umano già
cinquemila anni fa, nelle ultime porzioni dei Veda (Vedanta) dette
Upanishad, in cui si afferma: "Dall'Uno sorge l'Uno, se dall'Uno togli
l'Uno solo l'Uno rimane". Nel VI° secolo a.C. la civilizzazione
Indiana è preda di depressioni empiriche e matematiche,  in quel
periodo vennero accantonate  le sottigliezze vedantiche e sostituite
da formalismi rituali, teismi e sofismi di vario genere, per questo
motivo la venuta del Buddha segnò un rifiorire dell’autentico spirito
nel tentativo di superare il materialismo spirituale.

      Avvenne così che la dottrina Buddista della "sunyata" (vacuità o
vuoto), in cui si nega la sostanza ed il valore alle forme e alle
manifestazioni del mondo, riportasse l'attenzione al percipiente. La
descrizione dell'esistenza empirica come origine e fonte della
sofferenza restituì stamina ed impeto alla realizzazione del puro
spirito, ma già nel V° secolo d.C. le  diatribe interne ai vari
sistemi Buddisti andavano deteriorando la pulizia dell'insegnamento
originario del Buddha.

     Ed è proprio in quel contesto storico che apparve sulla scena il
grande saggio Adi Shankaracharya, che fin da giovanissimo iniziò a
riportare la società induista verso la comprensione dell'Uno senza un
Due. Lo fece indicando la pratica spirituale quotidiana della rinunzia
alle forme pensiero dualistiche: "Neti…Neti" (non questo... non
questo). Il grande movimento che ne nacque è ancora vivo e vegeto ed
ha quindi prodotto innumerevoli saggi che si riferiscono a questa
linea.

     Non si può affermare che il Nondualismo possa venir perfezionato,
ma per quanto concerne il modo descrittivo possiamo dire che questa
affermazione è appropriata nel caso di Ramana Maharshi, il saggio di
Arunachala, la solitaria montagna sacra del Tamil Nadu, ove egli visse
in ritiro permanente nella prima metà del secolo scorso. Ramana è
universalmente riconosciuto come il divulgatore dell’Advaita
Nondualista oltre i confini dell'India. Egli, nella strofa X del suo
‘Quaranta Versi sull'Esistenza’ così afferma: "Non vi è conoscenza
separata dall'ignoranza, non vi è ignoranza separata dalla conoscenza.
Di chi sono questa conoscenza e quest'ignoranza? Vera Conoscenza è
quella che conosce la coscienza che conosce, che è il principio base".

     Secondo l'esperienza di Ramana, non vi è alcuna separazione, e
tutto perciò viene ricondotto al Sé. Questa sublime espressione della
Coscienza che conosce se stessa è stata susseguentemente spiegata, in
modo raffinato e culturalmente accettabile per la nostra mente
speculativa, dal saggio Indiano Nisargadatta Maharaj, il quale nella
sua estrema semplicità descrittiva si limitò ad affermare: "Io sono
Quello". Nella diretta realizzazione del Sé non esistono descrizioni
che possano adeguatamente trasmettere questa ineffabile esperienza, ed
è per questo che il diniego o rifiuto di ogni assunzione e
proposizione spirituale fu la caratteristica di un ultimo campione
della linea, e cioè U.G. Krishnamurti - il santo che negava ogni
santità che fosse altra dallo stato puro della consapevolezza -
esclamando: "le mie parole sono come il raglio di un asino... esiste
solo la vita che meravigliosamente compie il lavoro". Con ciò
segnalando il punto finale di "non ritorno" al dualismo empirico.

Molte le storie che potrei ancora raccontare sull'esperienza Advaita
ma voglio tornare all'insegnamento di  Shankaracharya, e passo alla
traduzione del canto che, secondo me, più rappresenta l’insegnamento
del grande Maestro, esso si chiama Nirvanasatkam, ovvero:



Sei strofe sulla salvezza



Io non sono né la mente cosciente né quella inconscia,

non l’intelletto né l’ego,

né le orecchie o la lingua, né i sensi dell’olfatto, vista o tatto,

e nemmeno l’etere, l’aria, il fuoco, l’acqua o la terra.

Io sono Coscienza e Beatitudine. Io sono Shiva! Io sono Shiva.



Io non sono il prana o le cinque arie vitali,

né i sette componenti del corpo, né le cinque guaine o corpi.

Non la parola, né le mani od i piedi, non l’ano né l’organo sessuale.

Io sono Coscienza e Beatitudine. Io sono Shiva! Io sono Shiva!



Neppure sono avversione od attaccamento, avarizia o illusione.

Non arroganza né il sentimento di gelosia, nulla di tutto ciò.

Né rettitudine, ricchezza o piacere sono miei.

Io sono Coscienza e Beatitudine. Io sono Shiva! Io sono Shiva!



Io non sono la virtù né il vizio, né godimento o dolore.

Non sono la preghiera né il luogo sacro, non sono le scritture né i sacrifici.

Io non sono il cibo, né chi lo mangia, né l’atto di mangiarlo.

Io sono Coscienza e Beatitudine. Io sono Shiva! Io sono Shiva.



Non la morte, né il dubbio, né il senso di classe,

nemmeno il padre, la madre o questa nascita mi appartengono.

Io non sono fratello o amico, neppure maestro o discepolo, veramente.

Io sono Coscienza e Beatitudine. Io sono Shiva! Io sono Shiva.



Io sono senza pensiero, senza forma, io sono onnipervadente,

sono ovunque, eppure sono oltre in tutti i sensi.

Io non sono né il distacco né la salvezza, nulla che possa misurarsi.

Io sono Coscienza e Beatitudine. Io sono Shiva! Io sono Shiva!

……..

Om Namah Shivaya. Possa Shiva illuminare la mente di chi legge!