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L'accumulo del Vittoriale e l'incomprensione dannunziana della nudità* - I parte

di Marzio Siracusa - 06/03/2016

Fonte: Antologia Vieusseux

  

Ma il corpo del Vittoriale qual è? Il visitatore vi si aggira convin-to che il luogo s’identifichi col gusto di un’epoca, e che alla sua let-tura bastino erudizione letteraria, storia dell’arte e cronache poli-tico mondane della biografia dannunziana. Ritornare però al Vitto-riale senza l’eco di stagioni politiche, aiuta a scoprire nel Monumen-to una sorta di stagnazione della summa umana simile al nostro oggi, un approdo confuso che per maggiore comprensione vuole essere li-berato da gerarchie e tassonomie estetiche a cui ci tenta l’enorme accumulo di copie e originali, di cimeli, calchi, trovati, improntati a stili e epoche dalle latitudini più variegate, ma tutti accomunati dalla funzione di reliquia. La guerra vittoriosa e tradita e la scon-fitta dell’impresa fiumana forniscono il grande racconto per imba-stire il trionfo dell’italianità, da Roma, al Medioevo, alla Rinascen-za, e affidano alla stessa italianità il compito di catalogare la sum-ma estrema del fare, che depurato dal nazionalismo esasperato si apre alla possibilità inaspettata, né storica, né politica, di un di-scorso antropologico, tuttavia senza metodo e da indagare. Una lie-vitazione spropositata di cose che all’apice tecnologico del Mas, del biplano e della Puglia, tende a scostarsi dalla storia di popoli e na-zioni, per accedere all’intuizione scomposta del fare umano (1). Da una parte ciò disorienta il visitatore col dubbio di un magazzino di merci, dall’altra, esaurito l’impulso marinettiano della guerra risana-trice, la stagnazione dominante trasforma il Monumento in occasio-ne unica alla ricerca di una misura epifanica dell’accumulo fuori dal suo contesto storico. Il profluvio di calchi, cimeli, architetture un po’ fasciste, coloniali e déco, le copie, la statuaria, e le alcove le-vantine traboccanti di cuscini e ninnoli, e la gratificazione estetica delle collezioni librarie (2), tutto va dimenticato per esperire il cor-po vero del luogo oggi e la natura del perduto lì raccolto. Perché a un testo palesemente incompiuto si può assegnare lo spazio per altro radicamento che ne accresca il significato, e il Vittoriale, la più occulta delle opere dannunziane, esige questo radicamento altro, anche per la fragilità della sua intuizione originaria (3). Nonostante la Donazione il Monu-mento non ha una vera fondazione e inizio dannunziani per il tanto della casa di Heinrich Thode a Cargnacco che anticipò il concepi-mento della fabbrica e confluì negli arredi degli interni (4). Ma se la scintilla primigenia della cittadella trapiantata sul Garda non è solo dannunziana, neppure la sua edificazione è soddisfatta da una finalità formale, da un progetto fissato dal Comandante perché an-che dopo la sua morte l’opera di abbellimento e arricchimento ha continuato indefessa (5). Di fatto d’Annunzio ignorava le potenziali-tà della sua utopica polis, un’opera in divenire mirata a una colloca-zione e significato esorbitanti le finalità annunciate nella Donazione (6), un’opera di cui occorre prima di tutto stabilire identità e pro-tagonisti accantonandone il puro coinvolgimento estetico.


* Le citazioni delle opere di G. d’Annunzio sono tratte da, Versi d’amore e di gloria, a cura di E.Bianchetti, 2 volumi, Verona, Mondadori, 1964; Prose di ricerca, a cura di E.Bianchetti, 3 voll. Verona, Mondadori, 1966; Prose di romanzi, a cura di E.Bianchetti, 2 voll. Verona. Mondadori, 1968; 

1 – Irriducibilità del reliquiario al simbolico  
    Dietro il mitologo Furio Jesi, nostra guida immaginaria, si esce dall’ex centrale elettrica romana Montemartini nel frastuono della sua miracolosa riaccensione dopo la morte del museo e il ripristino del mito (7). Nella ritrovata centrale romana gli dei resuscitano a vita vera vincendo millenni di esausto connubio tra allegoria e ener-gia e aprendo un interregno nell’allegoria in cui viviamo. Perché le parole e le cose non possono valicare alcun altrove allegorico se non è fornito loro un più di energia, di cui il simbolico non ha bisogno non mirando a edificare in uno spazio razionale le coordinate del discor-so certo (8). La riaccensione della Montemartini da parte del mito impone simile alternativa anche al Vittoriale: o c’è allegoria energe-tica o c’è il mito. Ma la casa campagnola del Thode, « vecchia casa colonica » è definita nella Donazione (9), come primo nucleo del Vittoriale non fu mai una centrale elettrica, tale da trasmettere allegoria energetica in eredità al Monumento dannunziano, perché nella Fiume del Garda reliquie e trovati non morissero nel loro primo innesto o perché il ribaltamento della destinazione potesse schiu-derla al mito come la Montemartini. Chi giunge per acqua al Vitto-riale, tra lago e cipressi come all’isola di Böcklin, ode la raucedine d’un motore stento e la metallica tosse s’inerpica nella Cittadella, nelle piazzette, nei viali, non meno roca delle invenzioni dei motti del Comandante e della toponomastica libresca delle architetture. Che il Vittoriale aspiri all’esattezza di un sistema e all’energia di un motore lo attesta lo squilibrio tra scenografia e arredi (10), che reclama la necessità di una sintassi capace di controllare e spiegare l’accumulo in linee coerenti. Perché il Monumento, pur snodandosi nelle dissonanze d’un itinerario tra il politico e il fanciullesco dove inizio e fine si confondono, per riscattarsi da magazzino e accumulo di cose morte vorrebbe essere un corpo solo, tale da assemblare e unificare statue, calchi, cimeli, copie di mistiche reliquie accanto alle reliquie meccaniche, il tutto trasfuso in allegoria per riavviare il motore con nuova energia politica e storica che invece latita e brontola appena in attesa di un ordine che le dia vita. Eppure oltre l’utopica rivincita di una nuova Fiume sul Garda esiste un’altra lettu-ra visto che il motore tossicchiante qualcosa ci indica se per stessa ammissione del Comandante il luogo obbedisce alle esigenze del reli-quiario:
    Non qui rinsanguinano le reliquie della nostra guerra? E non qui parlano o cantano le
    pietre superstiti delle città gloriose?  (…) Ogni rottame rude è qui incastrato come
    una gemma rara “  (11)
   Per quanto già nella Donazione sia dato il paragone con la reli-quia, analoghi richiami sull’importanza di questa percezione mistica e sensuale della realtà sono costanti in tutta l’opera (12). Ma proprio nella Donazione sta l’implicita necessità di distinguere i due piani di lettura dell’accumulo del Monumento, quello soggettivo del suo inqui-lino e collezionista che nel simbolico interminabile accresce e spiega impropriamente il reliquiario, e quello rigorosamente antisimbolico del visitatore che vorrebbe una ricostruzione unitaria. L’alternativa tra allegoria e mito della Montemartini assume allora il profilo di altri due contendenti il significato del Vittoriale, il reliquiario e il simbolico (13). La Cittadella infatti, quale ab urbe condita e riven-dicazione  della vittoria tradita nell’accumulo di arredi magnificanti la grandezza della patria, nasce come organo da portare a compi-mento, non solo per lo straripare di cose proseguito dopo la morte del Comandante, ma perché ciascuna tessera nel rincorrere inutil-mente il mosaico si scontra senza ordine con le altre tessere. Nell’incessante cercarsi i singoli pezzi, dagli arredi interni all’architettura fino alla stessa urbanistica, si spogliano dei rispet-tivi valori e gerarchie, per cui tutto vi dimora come frammento, im-possibilitato a soddisfare il riscatto originario in un corpo unico. È un accumulo condannato allo scontro tra le due grandi famiglie che ne reclamano l’appartenenza, quella delle reliquie allegoriche e quel-la dei simboli. Da sempre l’accumulo del Vittoriale viene accreditato al simbolico secondo la sensibilità della decadence e della sua visione del simbolo rivolto all’ignoto che ne facilita la lettura polivalente, sorvolando sulla singolare incoerenza dell’insieme. Ma è l’assenza di energia che realizzi l’utopia della Fiume sul Garda a imporre il rico-noscimento dei tanti manufatti contro l’apparenza del simbolico. Le reliquie religiose, artistiche e belliche, sia originali che riprodotte, sarebbero leggibili come simboli solo se rientrassero davvero a pieno titolo nella categoria di frammenti impediti a una religatio, impedi-mento questo che invece caratterizza il simbolo. Al contrario, e tradotta nelle coordinate della tradizione cattolica anche se paga-neggiante che permea il Vittoriale (14), la reliquia e il suo culto posseggono la certezza fisica del corpo di appartenenza, il perduto conosciuto, sacrificato ma non recuperato, e hanno una funzione formale finita quale suo frammento residuale volto alla religatio con la totalità reale di quel corpo. La reliquia perciò non può confonder-si col simbolo, ossia col frammento del corpo perduto ma ignoto, o creduto tale per fingerlo vivente e giustificarne l’infinita ricerca in una totalità immaginaria. Il frammento fisico dell’ignoto non può mi-rare alla forma compiuta, la reliquia sì. La reliquia è finalizzata a interpretare il risarcimento della mutilazione storicamente accerta-ta e deve essere per sua natura antisimbolica, il tassello per avvia-re una ricostruzione fisica e reale dell’originario corpo sacrificato, senza il quale il reliquiario sprofonderebbe in un insieme caotico di simboli, che da sempre paralizzano la lettura del Monumento. Allora la sua comprensione e unificazione vuole che sia sottratto ai valori plurimi e ondivaghi di arredi e gesti, inadeguati a indicare un tra-gitto liberatore dal labirinto di rimandi letterari e citazioni erudite e biografiche che anziché spiegare ne precludono l’accesso con una foresta di significati contraddittori. L’Europa testimonia altre dimo-re esemplari fin de siècle, rifugi estetici e utopiche trincee contro l’epoca della merce trionfante e dell’opera d’arte destinata alla mortificazione seriale nell’accostamento indistinto tra originali e co-pie, differenza a cui il simbolico è disinteressato (15). Anche for-zare il possesso dannunziano fino alla cattura carnale delle cose che grazie all’inclusione nel simbolico nega la distinzione tra originali e copie (16), sarebbe limitativo per la comprensione del Monumento che deve prendere le distanze dalle motivazioni del suo creatore. Se è indubbio che oltre al possesso d’Annunzio aspirava all’identificazione delle cose col proprio corpo, e qua risiede il livel-lamento nel simbolico di originali e copie, così nella scrittura e così al Vittoriale, è altrettanto vero che il vivere inimitabile in una di-mensione simbolica esasperata cela nel poeta la volontà di rigenera-re con l’accumulo non solo l’impresa fiumana ma pure la propria se-nilità. Ma appena fuori dalla tessitura contemplativa e psichica del simbolico, è nel riemergere disordinato e simultaneo di originali e copie che si manifesta la vera identità del luogo, il reliquiario del perduto personale e collettivo di manufatti tra loro slegati e senza gerarchia (17), divieto quindi a costituirsi in un corpo unico. Oltre a non essere un magazzino ciò attesta che il Vittoriale non è nemme-no un museo, e non solo perché nel Comandante non urgeva alcun in-tento museale, ma perché ne manca l’armonico ordinamento in epo-che e stili, scuole e autori (18). La fertilità ancora inespressa del Monumento risiede nella sua funzione di reliquiario che stimola a ri-cercarne una convergenza allegorica e antisimbolica, perché man-cando l’autonomia energetica del corpo organico le reliquie non sca-dano a allusioni di un perduto ignoto che inciterebbe ulteriore accu-mulo. Benché il Comandante sognasse la compiutezza del mosaico, le tessere per indovinare uno sbocco potenzialmente organico del tanto raccolto possono solo guidarci a ipotizzare la misura di una sintassi minima, come religatio parcellizzata per il reperimento di un’identità non più scomponibile.

2 – La funzione della nudità nella ricerca della sintassi e del codice allegorico         
   L’inconciliabilità tra allegoria del reliquiario e il simbolico però è solo potenziale, essa va aiutata e formulata con una dinamica cono-scitiva estranea alle ragioni storiche e personali del Monumento, una dinamica che ne ripristini il significato per reintegrarlo nel cor-po unico di una Cittadella non più utopica. Poiché l’eterogeneità dei contenuti vieta di reperirvi un ordine sistemico che ne assicuri l’apertura al mutamento (19), è giusto chiedersi se esiste un princi-pio organico a cui il Vittoriale possa essere ricondotto, oltre il sogno della polis appagante l’impresa fiumana e la Carta del Carnaro (20). E occorre pure chiedersi se sia esperibile un itinerario diverso dalla sua casualità, tanto le citazioni, i cimeli, i calchi, le riproduzioni e le macchine obbediscono a ansie scomposte, che lo stesso poeta non poteva unificare perché irriso dall’infinità di reperti come gesti mu-tili della sconfitta personale e politica, quindi di per sé simbolici, disarticolati e irriducibili a qualsiasi religatio. Le reliquie inutilmente tentate dal simbolico possono celare un ordinamento e una sintassi interna che ne ricomponga il corpo in altra casa madre? Per risalire alla sintassi occulta del Vittoriale, al suo ordine nascosto possono aiutarci i tratti d’un processo minimo vitale, i principi opposti di ri-vestimento e spoliazione che ritmano il Monumento come allusione del detto assoluto e della sua assoluta negazione, l’arricchimento e l’impoverimento. Il Vittoriale sembra contratto tra diastole e sistole che rispecchiano l’estasi del suo signore abbacinato tra ordine e di-sordine. Pur restando qualsiasi ricostruzione all’apparenza sterile ri-spetto alla ripresa della centrale romana Montemartini riaccesa dal mito, nel Monumento dannunziano ci guida lo spodestamento senza richiamo ad altro che non sia la catena delle atomiche casualità fi-siche delle reliquie votate all’attesa per la reintegrazione nel corpo organico. Nella loro riduzione a una funzione minima tutte le cose del reliquiario diventano trovati per potenziali funzioni combinatorie, le reliquie si fanno meccanismi e i meccanismi reliquie, primo indizio questo di una religiosità costantemente invocata ma incapace di as-surgere a una propria liturgia e destinata a spengersi negli spazi misticheggianti del simbolico (21). La riduzione dell’accumulo di reli-quie alla funzione minimale è la condizione per il loro riproporsi in una superiore ricomposizione organizzata, tale da incorporare e ar-monizzare gli echi mistici ed estetici con l’esattezza dei trovati. Ciò indica nella Cittadella dannunziana un inaspettato e per molti versi unico spazio di confronto tra protagonisti e copioni solitamente inaccostabili, ossia i tre grandi attori del Vittoriale, Francesco, Mi-chelangelo e le macchine. Il confronto sta nel ruolo che la nudità minimale svolge nei tre protagonisti, quale possibile declinazione e sintassi occulta del Monumento per meglio comprenderlo, non più come mera rivalsa dell’impresa fiumana e della sua Carta, ma già come rigenerazione vera della polis e del suo accumulo che è meta-fora della nostra polis e del nostro accumulo. Dopo l’apoteosi della civiltà italica, dopo aver antropizzato l’Acqua Savia e l’Acqua Pazza per tentarvi la paratassi tra reliquie naturali, mitologiche, religiose e meccaniche, queste con chiare citazioni futuriste, al visitatore incredulo resta solo orientamento il denominatore comune della par-te minima, della nudità da cui risalire perché la totalità della reli-quie ricomponga il tutto in un organo, nell’allegoria energetica di un motore sancendone la definitiva salvezza dal magazzino e dal mu-seo. La religatio sintattica dopo le tante combinazioni di arredi e stili, deve anche scansare la lettura del luogo come testimonianza ultima della dannunziana arte del sogno (22), perché le motivazioni dell’accumulo sono reali e vincolate al clima politico e ideologico del primo dopoguerra, con quanto di irrisolto ne è giunto fino a noi. Il perduto dannunziano si pone sempre come perduto del gesto reliquia ed è un perduto distinto rispetto alla decadence simbolista europea, un perduto ricco di valenze storiche e politiche. La realtà, percepi-ta di per sé come un immenso reliquiario, è combattuta tra rivolta e rassegnazione dove i due termini si inseguono e potenziano travestiti in vis erotica e bellica. Rivolta e rassegnazione dominano i ritmi vi-tali minimi del reliquiario per rimarginare la sconfitta del gesto sto-rico e personale, e insieme si riscontrano nell’incomprensione dan-nunziana per i tre protagonisti messi in scena, Francesco, Michelan-gelo e le macchine. Se il simbolico, fonte di questa incomprensione, spinge a significati contraddittori e non idonei al recupero di un di-scorso organico perché sfrutta l’allusione estetica piuttosto che il quadro conoscitivo dell’allegoria, la reliquia, ben armonizzata con la forma allegorica in virtù della presenza del codice condiviso e la possibilità di ricostituire il corpo perduto, può operare una correzio-ne della lettura estetica che il suo collezionista ha imposto al Mo-numento (23). Perché il problema di fondo che sta alla base del fraintendimento e dell’equivoco conoscitivo del Vittoriale resta l’identificazione erronea che d’Annunzio opera tra reliquia e simbolo, una sovrapposizione che è il refrain dell’opera. Così in Contemplazio-ne della morte si legge:

  Un′allegoria è nascosta in ogni figura del mondo; e giova, secondo la sentenza di    
  san Gregorio, “ lo intendimento delle allegorie ridurre ad esercizio di moralitade.”     
                                                                                             (24)
   Dove la percezione dell’allegoria nel « nascosto (…) del mondo » non si differenzia dal riconoscimento del simbolico. Allora non oc-corre ripercorrere la maestria dei numerosi artefici (25), per capi-re che i singoli oggetti, una volta espropriati dell’aura estetica sog-gettiva, accedono a una comprensione totalizzante e organica solo se l’accumulo viene inquadrato in una dimensione allegorica compiuta. Ma la crescita del reliquiario in affollamento non finito di copie e originali mostra al contrario una dinamica che anziché esaurire gli arredi nella forma ultima dell’allegoria li allontana da quella forma e li denuda per altro accumulo e altra allegoria, un denudarsi che è la cifra stessa del luogo, un’allegoria che invece del codice condiviso ne possiede uno in divenire e tutto da esplicitare. Come si evidenzia però l’assillo dannunziano che fa della nudità infinita la norma del reliquiario? La risposta immediata è data dall’identità prima della reliquia, ovvero dalla sua assoluta nudità. A proposito del Prigione michelangiolesco, nel Libro segreto del 1935, confessione spasmodi-ca dell’ultima stagione dannunziana, troviamo un passo fondamenta-le:
 Nell’esemplar corpo umano è la natività dell’infinito e innumerabile ritmo. Non s’ingannano que’ conoscitori che pensano come io abbia studiato la mia prosodia nella nudità mimetica e icastica di Erigone di Aretusa di Berenice.  (26)
   Anche nelle Faville del maglio ritorna il concetto che la nudità non ha un limite perché è nascosta, questa volta riferita al volto nella descrizione del Gesù deposto:
   Palesare la nudità del corpo, che di solito vediamo coperto dalle vesti, è ben più   
   facile che palesare quella del volto continuamente nudo. (27)
    Attraverso le tre donne alcioniche dell’Oleandro, l’incessante processo di rivelazione e occultamento trova il suo fulcro nel corpo umano e si sostanzia nella nudità mimetica che per stessa ammissio-ne del poeta è la cifra prosodica di tutta l’opera, e quindi della sua creazione estrema, il Vittoriale. Ma la nudità mimetica non conqui-sta di per sé la citata forma ultima dell’allegoria compiuta. La nudi-tà che nasconde, in quanto continuo darsi di rivelazione e occulta-mento, di impoverimento e arricchimento, è sottoposta ad uno sve-lamento senza soluzione verso un ad quem che la costringe a essere denudata sempre più fino a determinare e riconoscersi nell’accumulo. La nudità mimetica è il motore dell’infinito denudarsi del reliquiario del Vittoriale, e manifesta l’ideologia dannunziana ma anche le difficoltà del poeta ad accoglierne l’interpretazione come codice allegorico capace di un inquadramento conoscitivo. La dinami-ca che scioglie l’apparente contraddizione tra nudità e reliquia, tra l’aspirazione alla spoliazione e al rivestimento nel corpo perduto, sta nella loro attrazione e repulsione, quando la nudità depotenzia la reliquia nel riconoscerla priva del perduto, ma depotenziandola la arreda e ne denuda sempre più l’insieme perché nel perduto sia reintegrata. La nudità è la potenza segreta che opera ed esaspera l’accumulo di arredi come reliquie, e che opera la citata allegoria in divenire. Ogni cosa distribuita nel Monumento, sia effige, calco, pittura, soprammobile, ninnolo, va a sostituire e denudare l’arredo che la precede, accompagnando una crescita che vorrebbe semplifi-care e che invece eccita all’accumulo. Gioca in questo principio la dote più alta del linguaggio dannunziano, ovvero la costante immis-sione nella parola di una forza di gravità materica che mai soddi-sfatta impone altro denudarsi. Perciò ogni arredo è un velo di Maia, teso a incrementare la rivelazione e l’occultamento infiniti come se il sapere, la bellezza e l’intelligenza privi di riconoscimento si esau-rissero condannati all’accumulo incessante. Per inseguirla e riconqui-starla integra ogni reliquia è denudata dai significati morti e lusin-gata allo sposalizio con altri arredi e significati nella ricerca del corpo organico sempre più vero e nudo. Ma se le reliquie sono denu-date per il loro salvataggio dall’accumulo, la nudità rivela di essere insieme ritmo e sintassi occulta del Vittoriale, il cui racconto alle-gorico è tutto da conquistare alla luce di questa sintassi, che vince-rebbe per il visitatore la simultaneità paratattica e il pericolo per-manente del riemergere del simbolico. Nella nudità il reliquiario del Vittoriale riassume il proprio carattere e in essa ci offre l’ipotesi dell’unità organica e di un orientamento conoscitivo che anticipa le ragioni stesse dell’accumulo del nostro tempo e della sua paradossa-le stagnazione nel mutevole.

3 – Contraddizione tra sintassi della nudità e le tre nudità dominanti

     Smarrirsi nella sistole e diastole, nell’impoverimento e arricchi-mento che tormenta l’accumulo non servirebbe al tentativo di riav-viare il motore e unificarne il corpo. Si tratta invece di affrontare la più angosciosa ma modernissima aporia del luogo che poi riassume l’ideologia del poeta: la volontà ossessiva di arredare la nudità per farla sempre più nuda. Se la nudità spiega l’avanzamento certo dell’accumulo, è fondamentale comprendere l’incoerenza e addirittu-ra il contrasto tra questo principio e il significato della nudità nei tre principali protagonisti presenti nella Cittadella del Garda. Il fatto che la sintassi della nudità divenga causa dell’accumulo anzi-ché dargli forma, si spiega con l’insistenza dannunziana a coinvolge-re nel simbolico e armonizzare tre interpretazioni inconciliabili e er-ronee, ossia che la nudità di Francesco risieda nella povertà, che in Michelangelo si riassuma nella sensualità, e che la nudità della mac-china ne manifesti la dimensione erotica. L’estetismo dannunziano non contemplava l’esigenza che una nudità davvero onnicomprensiva deve essere sia antropologica che salvifica, sintesi di una rigenera-zione capace di riscattare il reliquiario ben oltre la sconfitta fiu-mana e la vittoria tradita. Ma, scartate vecchie emotività e guidati da aporie critiche sull’interpretazione delle tre nudità, il loro con-fronto lusinga a rimuovere gli ostacoli che vietano l’ipotesi di un corpo organico tutto da disegnare e capace di omeostasi rispetto agli input storici, in breve di un corpo che traduca la Cittadella da utopia della polis in vera e nuova polis. Poiché l’accumulo estetico trabocca in ogni passaggio della vita inimitabile, il suo acme nel Vit-toriale apre spiragli per il superamento grazie alla criticità del rap-porto tra opera e gesto (28). Come in un qui pro quo  irrisolvibile, il gesto del poeta di fronte al malinteso e all’incoerenza delle tre nu-dità protagoniste genera un ulteriore gesto estetico che accresce il reliquiario. È l’incomprensione dannunziana della nudità a impedire il risanamento, e diremmo la pacificazione delle reliquie col gesto dell’accumulo, il quale si declassa nel simbolico del gesto erotico e politico da una parte, e nel reliquiario dall’altra. La sensualità dell’estetismo mista alla valenza religiosa del « mistico senza dio » (29), è chiamata a custodire la reliquia con un gesto che non le dà soluzione, perché la sensualità non può custodire ma solo tormenta-re la reliquia, denudandola per reliquiarla ulteriormente. Ma nell’ottica dannunziana la sensualità recupera il simbolico e anziché mediarle esaspera le differenze conoscitive delle tre nudità tra loro storicamente estranee e condizionate da perduranti aporie critiche. La sensualità è impotente di fronte allo scontro tra reliquia poten-zialmente allegorica e gesto naturalmente simbolico, e non può ri-mediare alla mancata sintesi tra nudità francescana, michelangiole-sca e della macchina. Per comprendere come l’assenza di sintesi im-pedisca al Monumento di realizzare un corpo unico, occorre sfrutta-re la sua occasione irripetibile, il confronto tra le tre nudità viste nelle loro aporie interpretative.

4 – Aporie della nudità francescana
 La personale assimilazione al dolore di Francesco è una costante di tutta l’opera e chiarisce il primo malinteso dannunziano sulla nu-dità. (30). Il Santo è anche una conferma ereditata dal preceden-te proprietario della casa di Cargnacco destinata a trasformarsi nel Vittoriale, lo storico dell’arte tedesco Heinrich Thode. Questi aveva motivato l’origine dell’arte italiana dal XIII al XVI secolo con la diffusione del culto di Francesco, vero innesco di un sentire popola-re nuovo in ogni aspetto della vita sociale ed artistica. Il Francesco del Thode è tanto identificato col francescanesimo che dalla vulga-ta orale cala nell’umanesimo, secondo la lettura storicistica dell’arte rinascimentale perseguita dallo studioso (31). Benché d’Annunzio co-noscesse certamente le opere del Thode fin dalle prime edizioni presenti nella biblioteca confiscata (32), il suo impianto critico e fi-lologico non corregge la cornice sensualistica e sacrificale in cui è costretto Francesco pure al Vittoriale. Ciò è imputabile all’insistenza con cui d’Annunzio identifica il proprio dolore erotiz-zante col sacrificio del Santo nella cui ombra si avvolge in innume-revoli richiami:
  La sensualità mi accomuna alle cose che guardo, mi fa simile alle cose che tocco ed   
  esamino, mi dà la veggenza di Francesco cieco che vedeva le musiche. (33).
   Per meglio sostanziare il rapporto con Francesco attraverso la sensualità del dolore ne è cercata l’affinità con l’erotismo del mar-tirio di S.Sebastiano, la cui statua lignea domina proprio la Stanza del Lebbroso, e che è un po’ la chiave di lettura del francescanesi-mo dannunziano (34). La flagellazione della carne nel privilegiare l’estasi del piacere confonde il registro mistico con quello erotico, grazie all’idea di povertà come ascesi sostenuta dalla sensualità. D’Annunzio vede nell’impoverimento l’artefice della nudità, secondo il principio del denudarla sempre più attraverso l’accumulo sensuale di reliquie. Qua cova il malinteso tra idea dannunziana della nudità mediata dalla povertà e fondamenti della nudità francescana, gra-zie anche ad alcune aporie interpretative. I tratti più evidenti del malinteso sono la fuga dalla sensualità in Francesco, e il privilegio dei sensi inseguito dal poeta. Mentre il collezionista del reliquiario lotta nei suoi ultimi anni perché il proprio corpo non si riduca a sua volta a reliquia, e quindi lo riveste dei gesti minimali dell’accumulo fino alla rassegnazione dell’impotenza politica e erotica, in France-sco le modalità della morte, nudo sulla nuda terra, obbediscono in-vece a ben altre urgenze (35). Il significato della nudità voluta dal santo nella morte è la prima aporia interpretativa. Nell’essere posto nudo sulla nuda terra sembra aprirsi una cesura e non il compimento della strategia della povertà la quale non è sufficiente per conqui-stare la nudità, contrariamente alla convinzione del poeta:
  Ecco che la povertà m’appare come la nudità della forza, come la più semplice e no-bile   
  statua della vita (36).
L’inciso tratto dal Venturiero senza ventura è importante perché sintetizza come l’incomprensione dannunziana della nudità derivi dal suo assimilarsi alla povertà, addirittura come qualità della forza che invece per sua natura è sempre energetica e ricca. Al contrario la stessa esperienza religiosa del Santo appare significativa per la mi-sura della povertà perseguita e invocata, perché l’itinerario di Francesco è scandito tra due nudità, quella iniziale della spoliazione pubblica di fronte al padre Pietro di Bernardone, e quella conclusiva della nudità nella morte. Se la povertà è la regola per una soprav-vivenza minima, l’arma radicale di Francesco contro la ricchezza e l’arricchimento invece sembra essere la nudità più ancora della po-vertà. Esiste perciò un filo sottile e una latente distinzione tra nu-dità e povertà, che va oltre le secolari polemiche dell’Ordine sull’interpretazione dell’uso dei beni (37). La nudità è l’approdo na-turale di una povertà assoluta, ma la nudità del Santo nella morte è anche garanzia che il corpo non diventerà reliquia in attesa di sal-vezza e resurrezione, che nell’attesa non verrà a patti con la po-vertà perché già nell’atto stesso della morte è reintegrato come corpo nuovo. La nudità di Francesco è ingresso nel corpo nuovo e come assoluto superamento di qual si voglia condizione di reliquia o gesto è antiallegorica e quindi antienergetica, dal momento che il corpo nuovo si dà già nella morte, e non esiste uno spazio altro dove sancirne la conquista. Nella nudità della morte Francesco attua la propria resurrezione. In quanto antiallegorica, e antisimbolica per-ché il corpo nuovo non rimanda a nulla, la nudità francescana segna la negazione della ricchezza e quindi di qualsiasi arricchimento o ac-cumulo, al contrario della povertà che non può liberarsi da un segui-to minimale di gesti comunque misurabili in un seguito politico e mercantile. In questa prospettiva l’approfondimento delle diversità tra povertà e nudità potrebbe ramificare comprensioni ulteriori di Francesco. Sta poi la seconda aporia sulla modalità della morte del Santo, ed è rispetto all’eucaristia come ci tramanda ancora Tom-maso da Celano, a conferma del graduale distacco della nudità dalla povertà. Francesco ha sempre dato particolare importanza al mi-stero eucaristico, la cui salda fede eredita dalla madre francese, combattendone il decadimento, ma anche alzando un argine per quella che è corretto definire esigenza di un controllo dell’eucaristia perché il sacramento non decadesse nella sua interpretazione stori-ca e simbolica (38). Nella Lettera ai Chierici assai prima della mor-te, il Santo raccomanda che l’altare, il calice, gli arredi, tutto ciò che attiene alla celebrazione eucaristica sia riposto in luogo prezio-so, ma non come segno di ricchezza per nobilitare il sacramento, bensì perché solo il prezioso innalza e difende la verità dell’incarnazione nel pane e nel sangue. Il prezioso è una garanzia contro la caduta dell’eucaristia nel simbolico una volta che il mistero fosse traslato dalla transustanziazione alla consustanziazione, ed è quindi garanzia contro il pericolo di salvare l’ « indegno » (39). Il prezioso degli altari manifesta una precisa finalità contro la ric-chezza. Ma in punto di morte Francesco compie un passo ulteriore nella celebrazione eucaristica, negando alla nudità del corpo di farsi reliquia in attesa di salvezza simboleggiata dall’energia del vino, at-tesa di cui invece la povertà è preludio minimo. Nella sua ultima co-munione il Santo chiese che l’elevazione eucaristica fosse del solo pane in assenza del vino, un’elevazione depotenziata del componente eucaristico destinato a farsi sangue e energia nella transustanzia-zione del pane nel corpo. Nell’assenza del vino viene meno ogni altra gestualità del corpo perché è già corpo nuovo, risorto e salvo (40). È impossibile allora non scorgere un atto realmente rivoluzionario nel mutamento liturgico imposto all’elevazione dall’assenza del vino, co-me avviene nella Cena in Emmaus secondo S.Luca 24,30, quando Gesù è già Cristo nel corpo nuovo risorto, e come si riscontra nella Cena in Tiberiade di S.Giovanni 21,13, dove parimenti manca il vino. Atto questo che approssima il sacrificio vivente, di cui la povertà è comunque imitazione, al percorso finalizzato alla nudità nella morte, e che il Santo ripropone anche nella liturgia eucaristica per accede-re alla nudità assoluta del corpo nuovo che è salvezza. Una terza aporia infine proietta la nudità di Francesco oltre la pur indiscutibi-le tradizione agiografica del suo amore per la povertà, ed è l’invenzione dell’allegoria di madonna Povertà, non rintracciabile negli scritti del Santo, ma evocata dall’ignoto autore del Sacrum com-mercium. Per quanto detto la nudità francescana non può che rifiu-tare questa figura retorica, mentre il Sacrum commercium insiste sul racconto allegorico, anche se significativo è l’incontro tra Fran-cesco e madonna Povertà, quando per un attimo la Povertà è de-scritta nel distacco dalla propria nudità (41). L’allegoria della po-vertà riveste la povertà di energia e ricchezza, inaugurando un os-simoro che è ossimoro del nostro tempo, ma non certo di Francesco. Se invece esaminiamo i richiami sulla nudità francescana cosparsi nelle opere e nel Vittoriale, essa appare indistinto attributo della povertà, una somma di gesti e reliquie fino all’accumulo da adorare sensualmente (42), che incorpora l’invenzione allegorica di madonna Povertà nella stessa nudità. A conferma dell’incomprensione dannun-ziana è poi significativo che nel Piacere la nudità sia espressione non solo della povertà ma anche della ricchezza:
  E i girasoli in cima ai lunghi steli sulfurei senza foglie portavano i larghi dischi non  
  coronati di petali né carichi di semi, ma somiglianti nella lor nudità ad emblemi
  liturgici, a pallidi ostensorii d'oro. (43)
  Ma quel color di vecchiezza, quell’aria di povertà, quella nudità delle pareti aggiunge
  vano non so che strano sapore allo squisito diletto dell’udizione. (44)
 Il fraintendimento allegorico di Francesco operato da d’Annunzio non può aiutare l’unità organica del Monumento perché entra in conflitto con le altre due nudità, la michelangiolesca e delle macchine. Se in Francesco la divergenza tra nudità e povertà è ipotesi fertile e bi-sognosa di approfondimento delle tre citate aporie interpretative, è manifesta l’inconciliabilità con la nudità francescana presente al Vittoriale, risolta nell’estetica del gesto finalizzato al salvataggio delle reliquie erotiche e politiche col citato paradosso di una pover-tà energetica e quindi ricca, quale appunto è la povertà del france-scanesimo dannunziano. Esempio ne sia anche l’assimilazione del sa-crificio del volontario fiumano con le stigmate del santo:
La stessa ferita s’è aperta in lui, come nel posseduto dall’amore di Cristo misteriosa-mente s’apriva la stigmate (45)
I poveri di Fiume non sono i prediletti di santo Francesco? Come il Seràfico, essi hanno dato alla povertà l’aspetto raggiante della magnificenza. (46)
La potente intuizione della nudità mimetica motivata dalla sensualità non aiuta d’Annunzio a comprendere la nudità di Francesco nella morte, che è superamento della povertà e deve intendersi come ve-ra e propria mutazione del corpo in corpo nuovo dove è messa in gioco la stessa fisicità della natura umana, in linea con l’umilissimo annuncio ( “ della nuova Genesi dichiarata nel “ assente nella reda-zione definitiva ) del Cantico delle Creature. La nudità di Francesco nel valicare la povertà rigetta qualsiasi accumulo, ma è socialmente più problematica di tante imitazioni della povertà.  

5 – Aporie della nudità michelangiolesca   
   Escluso il Torso del Belvedere dei Musei Vaticani, la cui copia è nella Loggia del Parente, ai fini della presente indagine la numerosa statuaria ornamentale disseminata negli interni e esterni del Monu-mento è irrilevante per chiarire il malinteso dannunziano sulla nudità michelangiolesca che si affianca in modo meno appariscente ma so-stanziale a quello sulla nudità francescana, in convergenza solo te-matica con gli studi del Thode (47). Rispetto al Buonarroti il fulcro dell’incomprensione è riscontrabile nelle aporie tra gesto e sua rap-presentazione che complicano e insieme accrescono la drammaticità creativa michelangiolesca. Proprio le copie della Stanza dell’Alcova, o dell’Aurora, nel Palazzo di Schifamondo (48) dimostrano che il principio della nudità sempre più denudata come legge dell’accumulo, è ben altra cosa dalle ragioni della nudità in Michelangelo, celate nella maestria esecutiva ma derivate dalla criticità del gesto, al punto da prestarsi all’equivoco dannunziana sulla sensualità della po-vertà come primaria ispirazione dell’opera michelangiolesca, in ac-cordo con la citata affermazione del Venturiero senza ventura (49). Ciò sih evidenzia nel confronto della statuaria profana preva-lente al Vittoriale, esclusa la Madonna Medici. In queste opere, due Prigioni e i due Schiavi del Louvre, Buonarroti risolve i molteplici frammenti della gestualità mutila ereditati dalla statuaria greca e romana, con la geniale sintesi alla ricerca del gesto storico nuovo dell’uomo moderno, ricerca che però non scansa il problema dell’insufficiente rappresentazione di un più chiaro gesto politico ca-pace di sottrarre il rappresentato dal rifugio nelle vaghe polivalenze della dimensione neoplatonica. Per questo, per salvarlo dalla somma di frammenti, Michelangelo insegue il gesto nella verità dell’anima e per consolidarne l’unità formale costringe la nudità a denudarsi sempre più in una classicità cristianamente ma anche disperatamen-te rivisitata. E non sarà un caso se calchi e copie michelangiolesche e francescane fra miriadi di arredi, costituiscono i baricentri degli spazi del Vittoriale con le loro opposte nudità, invano mediate dalla lettura sensualistica e simbolica del poeta. Il discriminante è ancora offerto dal denudarsi infinito a cui Francesco e Michelangiolo si sottraggono in diversa prospettiva, il primo ottenendo nella morte il corpo nuovo, il secondo spingendo la nudità nell’infinita nudità dell’anima per esigenza etica, religiosa e politica, fino alla sfocarne l’identità fisica nell’apparente non finito. D’Annunzio invece inter-preta erroneamente le due nudità come vincolo  della forma alla povertà, con accento più sensuale in Michelangelo, ma operando una singolare commistione fra questi e Francesco (50). Invece nella fa-mosa Rima CLXIII il Buonarroti segnala la povertà quale attributo etico del Vero:
  Povero e nudo e sol se ne va ‘l Vero, / Che fra la gente umile ha gran valore: (51)
  Non è la forza della forma ma l’esigenza del Vero, col suo risvolto etico, politico e religioso, a significare in Michelangiolo l’incontro tra povertà e nudità. L’incomprensione dannunziana della nudità miche-langiolesca stimola allora a sceverare difficoltà e aporie nel rappor-to tra nudo e gesto del Buonarroti, difficoltà che il poeta accentua fino all’emblematico rivestimento delle pudenda dello Schiavo mo-rente proposto in dimensione originale anche nella Stanza di Leda, con un bendaggio che stimola nel taglio simbolico l’ulteriore nudità, secondo l’illuminante passo del Piacere:
 La nudità di Elena non poteva, in verità, avere una più ricca ammantatura. (52)
    D’Annunzio ascrivendo la sensuale nudità al perseguimento della povertà, non si avvede che è la difficoltà del gesto michelangiole-sco, soprattutto della statuaria profana, a determinare l’assillo della nudità fino ad aprirla all’interiorità. Se la scultura michelan-giolesca è pervasa dalla torsione a serpentina, nella pluralità di ba-ricentri anatomici che echeggiano la ricomposizione dei frammenti della statuaria antica, insieme alla consuetudine di procedere par-tendo dal torso ( 53), la pluralità dei baricentri è la risposta alla debolezza del gesto in rapporto al racconto, costringendo a elabo-rare più punti prospettici, che segnano la rivoluzionaria modernità di Michelangelo, ma anche la causa del citato equivoco dannunziano tra nudità e povertà nell’incomprensione che la crisi del gesto in Buo-narroti è invece tra nudità e fede religiosa e politica, ossia, per quanto detto, tra verità e fede. È utile allora scandagliare l’accennata aporia che dimostra come l’inseguimento michelangiolesco della nudità non abbia alcun rapporto col denudarsi infinito che rea-lizza l’accumulo del Vittoriale. Il punto critico del gesto in Miche-langelo sta nel baratro storico e ideologico imposto dall’impossibilità di una chiara denuncia politica repubblicana e antimedicea che an-dasse oltre l’allusione. È la scontentezza per il gesto che l’artista non vuole diventi posa a determinare quello che Vasari condizionando secoli di critica chiama non finito, causato dall’insoddisfazione dell’artista con l’abbandono dell’opera (54). Allora il malinteso dan-nunziano sulla nudità michelangiolesca come equivoco sull’oggettiva crisi del gesto, richiede che siano avanzate alcune ipotesi sulla que-stione del non finito, che concerne la prevalenza dei calchi raccolti nella Cittadella del Garda e, come detto, recepito da d’Annunzio quale sintesi della povertà espressiva. Nei bassorilievi giovanili del 1492 assenti al Vittoriale, la tumultuosa Battaglia dei Centauri e la più statica Madonna della Scala, pur interrotta dal braccio del bambino che anticipa la contorsione del Dì, la visione frontale riesce a controllare il gesto (55). Però già il Tondo Pitti e il Tondo Taddei, di circa dieci anni successivi, rivelano lo sforzo di coniugare il bas-sorilievo con più punti prospettici, preludio dei problemi che sfoce-ranno nel cosiddetto non finito. Ma è soprattutto nella giovanile Battaglia dei Centauri, benché opera imperfetta per ammissione dello stesso Michelangelo (56), che l’irruzione del gesto col suo uni-co punto prospettico fortemente allusivo offre una soluzione natu-rale accentuata dal bassorilievo con le figure che si liberano e proiettano fuori dalla materia. Invece nelle opere a tutto tondo della maturità e della vecchiaia, il Prigione Giovane e il Prigione Barbuto, lo Schiavo Morente e lo Schiavo Ribelle, che nella Stanza dell’Alcova sono presenti insieme alla diversa stagione creativa dell’Aurora, e appartengono alle stesse ragioni del S.Matteo e della Pietà Rondanini, Michelangelo patisce l’insufficienza del rapporto tra gesto e sua rappresentazione attraverso più punti prospettici, come se il gesto a trecentosessanta gradi perdesse la sua valenza perché il tutto tondo sveste il rappresentato in modo esplicito, non inclinan-do all’allusione che più facilmente maschera l’atteggiamento nel ge-sto. E nemmeno si tratta più di accorpare baricentri diversi della statuaria antica, perché in tarda età la fede esige che anche il gesto profano operi una rottura coi modelli della classicità, ed è perciò indirizzato al recupero del solo baricentro frontale che per maggiore forza allusiva non rischia più la posa e l’atteggiamento, ri-conoscibili invece proprio nella gravità espressiva messa in gioco dai numerosi punti prospettici del tutto tondo. Con tali presupposti il problema del non finito può essere diversamente qualificato. Sulla scorta del Cellini (57), l’insostenibile aumento dei punti prospettici o vedute, che dai quattro iniziali diventano quaranta, chiarisce le ra-gioni dell’abbandono dell’opera nel momento prospettico più soddisfa-cente anche se solo abbozzata, opera che allora si conferma senz’altro finita chiudendo una questione secolare (58). Le opere della tarda maturità e della vecchiaia sarebbero ascrivibili a un re-cupero dell’amore giovanile per la coerenza gestuale e religiosa im-mediata del bassorilievo, che nei Prigioni, nella Rondanini e negli Schiavi ritornerebbe quasi nella pretesa di scolpire un bassorilievo a tutto tondo, ma che l’avanzamento dell’opera interrompe perché un bassorilievo a tutto tondo richiederebbe lo svolgimento crescente del rappresentato secondo un’impossibile dinamica filmica. In questo contesto allora anche i Prigioni e gli Schiavi del Vittoriale apparter-rebbero alla statuaria a carattere religioso, intriso ovvero di un neoplatonismo cristiano il cui denudarsi inesausto incontro alla verità non deriva dall’impulso espressivo alla povertà estetica, come invece crede d’Annunzio, ma è la lotta di Michelangelo a che il gesto sacro e profano a tutto tondo e impedito a alludere, non si risolva in at-teggiamento encomiastico.
    La necessaria digressione attesta che il citato punto critico dell’opera del Buonarroti si scontra con l’ideologia dannunziana tesa a non riconoscere la nudità infinita operata dall’accumulo. Ma l’interpretazione sensualistica del gesto nei calchi michelangioleschi esaspera l’arredo della nudità del Vittoriale, e spiega perché nella sua lettura simbolica d’Annunzio potesse credersi in intimo  no con la loro immagine, come nella Stanza dell’Alcova dove sotto il calco dell’Aurora fu esposta la sua salma (59). Infatti al risveglio dell’Aurora d’Annunzio dedica alcune delle sue pagine più importanti per il valore della sensualità:
    Chi ha detto che Buonarroti non conobbe se non mammelle di pietra? L’Aurora è una
    mole di sensualità tragica e insaziabile. (60)
  La sensualità denuda il corpo all’infinito come aveva annunciato nel Piacere la nudità mimetica di Elena, ma senza somiglianza alcuna col denudare michelangiolesco che va incontro a una verità non più rap-presentabile per l’insostenibilità compositiva dei troppi punti pro-spettici affidati infine al richiamo dell’interiorità.    
    L’analisi storicistica del Thode, tesa a snodare il rovello tra pa-ganità e cristianità del Buonarroti, ha forse indotto l’equivoco dan-nunziano sulla povertà dell’arte michelangiolesca, anche se in Con-templazione della morte del 1912 il dissidio tra povertà e sensualità era già presente e irrisolto:
So che la povertà e l’amore della povertà non hanno alcuna efficacia nella conquista che io son per intraprendere. Ma il Cristo ha veramente detto tutte le sue parole? (61)
    Sotto l’egida del simbolico sussiste in d’Annunzio la convinzione di una contiguità tra la nudità dell’idea neoplatonica e la fisicità mini-male della povertà cristiana, quando invece è dimostrabile il contra-rio, ossia che il processo neoplatonico dell’Uno denudato e infranto nel molteplice fisico e naturale, deve ritenersi una della colonne portanti che fonda ogni aspetto della modernità, speculativo, scien-tifico e tecnologico, compresi quindi il nostro arricchimento e accu-mulo. L’inclusione della nudità michelangiolesca nella mistica della povertà ripropone il paradosso dell’arricchimento nascosto nella po-vertà allegorica e energetica in cui inciampa l’agiografia del Sacrum Commercium francescano. Se per Francesco l’incomprensione dan-nunziana della nudità è totale, in Michelangelo sono travisate le motivazioni che minano ancora l’unità concettuale e organica del Monumento.