Ciascuno di noi, per legge di natura, più o meno consapevolmente partecipa di varie corone: quella famigliare, quella dell’azienda in cui lavora, quella del circolo dopolavoristico (ma esistono ancora i circoli dopolavoristici?) o del club calcistico per il quale fa il tifo, quella del gruppetto di amici con cui si riunisce regolarmente, quella del partito di cui ha preso la tessera, e così via… fino ad arrivare al cerchio della nazione che incorona il Genio della terra dei padri, la Patria. Gli occultisti parlano di “eggregore”, “catena”, “corpo psichico”. Preferisco la parola “corona”: un soffio vitale collettivo risultante dalla somma delle energie dispiegate in armonia dalle singole e libere personalità. Una corona funziona e risplende quando ha un obiettivo condiviso (secondo varie gradazioni, dalla vittoria alla semplice sopravvivenza), un capo privo di secondi fini, un polo positivo e uno negativo (maschio e femmina, si diceva un tempo, oggi si preferisce caratteri dominanti e caratteri remissivi), un elemento di mediazione (un legante naturale come la chiara dell’uovo nella composizione dei colori); e altro su cui mi taccio.
Alcune corone, con un analogo significato, sono simboleggiate dai lacci biancorossi annodati in questi giorni sui rami ricolmi dei primi germogli, preludio di primavera, nelle innumerevoli feste del folclore mediterraneo. Sono il segnacolo della ierogamia tra le forze femminili e germinative della natura racchiuse nel mistero di Anna Perenna, la cui festa cade alle Idi, il 15 del mese, e quelle maschili fecondanti impersonate da Marte che torna giovane, vivente di luce solare, protettiva, guerriera.
E torniamo così al nume degli Italici, che non è proprio un re ma un capostipite e – perfino gli storici delle religioni su questo punto sono quasi unanimi – è senza dubbio il pater delle genti italiche, in particolare della stirpe di Romolo. Sotto varii nomi, Marte lo si ritrova in ambito umbro, latino, sannita, etrusco, falisco, ernico ecc. Sicché possiamo dire che con l’Italia romana amalgamata da Augusto e, a distanza di quasi duemila anni, nell’Italia romana riforgiata dal Risorgimento garibaldino e sabaudo (sia pure con tutti i suoi chiaroscuri) la corona delle stirpi italiche sia stata ricondotta all’unità, posta sotto la fiammeggiante tutela di Marte e più ancora sotto l’imperio regale di Giove Capitolino.
Da allora a oggi, stando ai dati storici, ha prevalso Discordia ma non sarà sempre così. Certo è che, quando la corona si spezza, i suoi componenti perdono lo slancio derivato dalla comunione d’intenti, dall’idem sentire, all’improvviso cominciano a mostrare il loro volto peggiore: l’egoismo del particolare, la grettezza del profitto, il timore istintivo verso l’autorità, un senso di alterità conflittuale travestita da orgoglio indipendentista, da cupo fatalismo, da illusoria rassegnazione. Chiunque abbia assistito alla fine di un sodalizio, che in definitiva è un insieme biodegradabile come ogni essere sub lunare, sa di cosa sto parlando, perché l’ha sperimentato anzitutto su di sé, ha dovuto lasciarsi alle spalle l’ombra vagolante di un trapasso. Vedere una nazione come l’Italia lacerata dalla disunione è decisamente peggio, dovrebbe indurre i cuori più nobili al senso di responsabilità. E perfino alla diffidenza verso coloro che, mentre nulla fanno per onorare la Concordia nella Saturnia Tellus vergiliana, invocano l’unità di un’Europa immaginaria, la cui corona non è mai fiorita perché solo nell’Italia romana avrà, ha già, le sue radici eterne. Buon Capodanno.