L'eredità religiosa del politeismo e del monoteismo ed il destino storico della religione oggi
di Costanzo Preve - 13/03/2016
Fonte: Italicum
Il pensiero di de Benoist sull'oggetto che potremmo definire "filosofia della cultura e della religione" è generalmente presentato come un'apologia del politeismo greco "pagano" e come una critica di tipo nietzschiano alla religione cristiana. In termini essenziali le cose stanno più o meno così. Tuttavia, in questo capitolo, insieme ad una sintetica discussione nel merito di queste tesi, vorrei presentare al lettore un insieme di riflessioni problematiche su questo tema.
La discussione filosofica sui rapporti fra il pensiero greco (spesso erroneamente definito "pagano", laddove il paganesimo propriamente detto non lo contraddistingue affatto, trattandosi di un termine spregiativo con cui i cristiani definivano i loro avversari nella tarda - antichità) e la nuova religione cristiana, è una delle discussioni più "visitate", e quindi più "affollate", dell'intera tradizione occidentale. Parlarne non è come parlare della religione tribale degli Evenki della Siberia. Parlarne significa prendere posizione su quello che è forse il punto più delicato e fragile della "giuntura temporale" della storia dell'occidente. In proposito, i due "paletti" opposti fra cui si sviluppa la discussione su questo tema sono stati piantati nell'ottocento da due dei maggiori filosofi europei contemporanei. Da un lato, c'è Nietzsche che interpreta in termini di "decadenza" il passaggio dal politeismo antico al monoteismo cristiano posteriore, individuando nella filosofia razionalistica di Socrate e di Platone un antecedente logico e storico della religione cristiana stessa, che diventa così da un punto di vista filosofico una sorta di "platonismo per poveri", che fa da supporto "trascendente" alla generalizzata invidia sociale dei "malriusciti". Dall'altro, c'è Hegel, che al contrario di Nietzsche interpreta il passaggio storico dal politeismo greco al monoteismo cristiano in termini non di decadenza, ma al contrario di progresso, connotando il successo del cristianesimo in termini non di "caduta", ma di risposta dialettica alle insufficienze strutturali della libertà antica.
Ho volutamente posto Nietzsche prima di Hegel, anche se tutti ovviamente sanno che il secondo precede il primo di un buon mezzo secolo. Da un punto di vista strettamente teoretico, infatti, la disputa è in un certo senso temporalmente rovesciata rispetto al suo svolgimento storico, che vede le Lezioni sulla filosofia della religione di Hegel venire prima dell'Anticristo di Nietzsche. In ogni caso, per anticipare immediatamente un importante elemento di questa discussione, la posizione di de Benoist in proposito potrebbe essere riassunta in questi termini: de Benoist è indubbiamente su questo tema un allievo pressoché ortodosso di Nietzsche, con la caratteristica specifica dell'innesto sul tessuto filosofico nietzschiano della riflessione antropologica di Dumézil sulla strutturale eredità trifunzionalistica indoeuropea del politeismo agonale. Il quadro teorico è allora caratterizzato da due parametri in un certo senso "tradizionali" nella cultura europea degli ultimi secoli, parametri paradossalmente molto più "illuministici" di quanto forse de Benoist avrebbe desiderato, in cui ad una critica radicale ed impietosa delle pretese normatrici e normalizzatrici del monoteismo cristiano si unisce una valorizzazione esplicita del politeismo greco, ritenuto ad un tempo più tollerante e più legato ad una interpretazione ricca e polimorfa del precedente patrimonio mitico.
De Benoist è stato allora interpretato come un fautore del cosiddetto "ritorno ai greci". Ma allora la domanda da fare è subito questa: è possibile un ritorno ai greci, oppure si tratterebbe di una illusione impossibile, ed in quanto impossibile anche equivoca ed infeconda? Darò allora immediatamente la mia risposta personale.
Per entrare in qualche modo in rapporto, sia pure mediato e superficiale quanto si vuole, con il ricco mondo spirituale dei greci antichi, e prescindendo provvisoriamente dall'elencazione e dalla presa in considerazione di tutte le interpretazioni date dall'erudizione moderna, eccetera, è necessario partire bene. Ed il partire bene sta in ciò, che gli antichi greci sono ormai definitivamente ed irrevocabilmente volati via dalla scena del mondo, e di loro non restano che ombre, ombre nel senso che a suo tempo Platone ha dato a questo termine. Molti poeti hanno espresso questo concetto con versi mirabili per profondità e nostalgia, e fra questi cito subito i greci moderni Costantino Kavafis e Giorgio Seferis. Un "ritorno ai greci" è quindi un'illusione ed una contraddizione in termini. Si ritornerebbe soltanto a delle caricature neoclassicistiche o ancor più a dei "pretesti" in cui incartare in modo ridicolo delle visioni degradate moderne o post-moderne che si tenterebbe così di nobilitare nascondendosi dietro le grandi ombre degli antichi. Tanto vale, allora, rotolarsi nel fango hollywoodiano di aborti attualizzati come il film Troy. Almeno non si avrebbe neppure l'alibi di una semi-cultura mediatrice.
Il contatto con i greci passa quindi esclusivamente attraverso la percezione culturalmente filtrata della incolmabile distanza. De Benoist non può non saperlo, certamente lo sa, e quindi andrei molto piano ad attribuirgli I'intenzione, datagli dal suo commentatore italiano Francesco Germinario, di propone una "destra degli dei" in alternativa ad una "destra dei preti" ed ad una "destra dei miliardari". Pensare che il ritorno di Zeus possa servire a battersi contro la presenza di Ratzinger (destra dei preti) o del cavalier Berlusconi (destra dei miliardari) potrebbe a mio avviso costituire unicamente uno scampolo di ideologia identitaria di appartenenza per qualche gruppuscolo di estrema destra in delirio neoclassicistico di onnipotenza. La questione deve quindi essere risolutamente "rimessa sui piedi". Erano "pagani" i greci? La questione mi sembra oziosa, come molte altre di questo tenore, del tipo per intenderci "credevano i greci nei loro miti e nei loro dei"? Nei greci c'era una compresenza dialettica di forme di percezione del mondo, una compresenza caratterizzata a mio avviso dalla doppia e conflittuale presenza di un politeismo dei miti e di un monoteismo del logos. A sua volta, questa compresenza deve essere presa alla lettera, e ci portano allora fuori strada quelle letture attualizzanti del pensiero greco che lo interpretano scorrettamente come "passaggio" dal mythos al logos, come se si trattasse di passare dalle favole della nonna all'iscrizione alla facoltà di scienze naturali. Questa caricatura modernizzante con cui i tempi moderni manifestano la loro incurabile pretesa progressistica di superiorità non deve e non può essere semplicemente "rovesciata" con una inversione, dal momento che un cubo rovesciato resta sempre un cubo. In Platone, ad esempio, mythos e logos sono sempre intrecciati in modo talmente stretto ed organico che una loro separazione, pur possibile, resta sempre e solo un'astrazione scolastica.
Ed un'astrazione scolastica resta a mio avviso anche la separazione (tipicamente cristiano-moderna) fra politeismo e monoteismo. Esiste infatti una doppia religione greca (olimpica e ctonia) che non si basa su libri sacri da interpretare tipo Upanishad, Bibbia o Corano, e che di conseguenza non ha bisogno di un clero gerarchicamente organizzato e dotato di Inquisizioni munite o meno di strumenti di tortura. Nello stesso tempo non può essere un caso che quasi tutti i filosofi antichi concettualizzino la divinità in modo invariabilmente monoteistico, da Platone ad Aristotele allo stoicismo. Fa eccezione Epicuro, erroneamente definito spesso come "materialista" (laddove al "materialismo" della sua ipotesi cosmologica si accompagna un evidente idealismo dell'amicizia e della buona vita), che invece parla di "dei" come evidente modello etico ed antropologico per i mortali, da cui si deduce che il filosofo più "materialista" dell'antichità era anche I'unico che abbia rinunciato ad un monoteismo filosofico (dall'uno platonico al Motore Immobile ed al Pensiero del Pensiero aristotelico). Questo è certo un argomento indiretto per il politeismo di de Benoist. Ma qui vi è un punto di importanza essenziale da segnalare immediatamente.
Il politeismo greco era un politeismo ad un tempo mitico ed agonale. Ora, il panorama sociale ed antropologico che fa da supporto al mito ed alla concezione agonale della vita se ne è andato per sempre, non tornerà mai più, e pensare di restaurarlo significa restaurare solo una risibile caricatura. Più che un modello da "copiare" (e si ricordi che già Platone scoraggiava i progetti mimetici di copiatura), esso è un'ombra inquietante che ci guarda oltre il tempo. Certo, è un' "ombra di eternità", ma resta un'ombra che nutre un impasto di nostalgia e di perdita irrevocabile.
E allora, il cristianesimo è stato un progresso o un regresso? Mi si permetta di considerare una domanda posta in questi termini come assolutamente insensata. Per i "credenti" nel Dio cristiano (prescindendo qui volutamente dai vari modi di crederci e dalle forme religiose organizzate in cui la "credenza" è incorporata - lo scrivente non ci "crede", e se ci credesse riterrebbe la forma meno peggiore quella cristiana ortodossa orientale) la questione non si pone assolutamente. L'avvento storico di Gesù di Nazareth è "creduto" in termini di evento salvifico universale (in greco katholikós), e la filosofia viene messa al servizio dell'interpretazione di questo unico evento salvifico. Più che ancilla theologiae, come si diceva un tempo, essa è un'ancella al servizio di una organizzazione gerarchizzata interamente terrena, esattamente come lo era fino a qualche tempo fa I'organizzazione comunista. Le due serie di "intellettuali organici", quella al servizio di Dio e quella al servizio della Storia, erano unificate dalla comune eterodipendenza nei confronti di burocrazie sovrane in ultima istanza (sovrane nell'emergenza, direbbe correttamente Schmitt), ed in questo non c'è differenza fra il cristiano Hans Kueng ed il marxista Ernst Bloch. Entrambi sono come cani tenuti con un guinzaglio molto lungo, che possono cioè scorazzare e correre fino ad un raggio molto ampio, poniamo di cento metri anziché dei soli cinque cui sono astretti i cagnotti casalinghi da guardia, ma che ad un certo punto si sentono stringere il collare fino a soffocare quando cominciano ad abbaiare in modo fastidioso per il loro padrone. Mettiamo allora da parte il caso dei "credenti", e passiamo invece ad esaminare il caso dei "non-credenti", e cioè uno stato spirituale che vede unificati sia de Benoist che il sottoscritto.
Essere non-credenti significa essere "'atei"? Ecco una domanda apparentemente banale che invece non lo è per nulla. In primo luogo, "credenti" lo siamo tutti, compresi ovviamente i relativisti scettici che credono fermamente almeno in una cosa, il loro relativismo scettico. I positivisti vecchi e nuovi "credono" nella scienza ed in quello specifico "miracolo" che è I'esperimento, ed i loro teologi sono appunto gli epistemologi che anziché dividersi fra sostenitori di Tommaso d'Aquino o di Pascal si dividono in sostenitori di Popper o di Feyerabend. Personalmente sono un "credente" nella possibilità storica (o più esattamente ontologico - sociale) della costituzione di una società alternativa all'attuale capitalismo globalizzato ispirata ad una forma di comunitarismo democratico in cui la volontà umana domini sulla riproduzione economica anziché viceversa come accade oggi, e se qualcuno vorrà chiamare questa comunità umana "comunismo" (nel senso di Marx, ovviamente) non avrò nulla in contrario, anzi. Dunque, "credenti" lo siamo tutti. Nella misura in cui è in grado di trascendere idealmente il contesto immediato in cui vive e di progettare forme alternative di convivenza sociale, ogni uomo è "credente". Alcuni però credono anche nell'esistenza di una sorta di Ingegnere Stellare e di Giudice Cosmico personalizzato che si concentra in un punto dello spazio-tempo (o fuori di esso, lascio la questione non ai teologi, ma ai cosmologi ed agli astrofisici), mentre altri come me non vi credono, e nello stesso tempo non credono che la lotta contro costoro sia una priorità, perché ben altre sono oggi le priorità spirituali, prima di tutto la lotta contro i credenti, o più esattamente gli idolatri, nel monoteismo del mercato.
In secondo luogo, "ateismo" è una determinazione puramente negativa, che connota esclusivamente i non-credenti nella antropomorfizzazione teistica della divinità. Recentemente de Benoist si è pronunciato per I'ovvia tesi non solo della permanenza del sacro nelle società contemporanee (imperfettamente, per fortuna e non per disgrazia) laicizzate, ma anche (almeno così mi è sembrato di capire leggendolo) di una vera e propria eternità consustanziale del sacro nella vita umana. Ora, "credere" nel sacro significa essere religiosi o atei? È evidente che la domanda è del tutto insensata. Personalmente, io non credo in una divinità monoteistica antropomorfica teisticamente concepita (in cui - salvo errore - mi risulta credano i cristiani, gli ebrei ed i musulmani), ma certamente "credo" nel sacro. E credo nel sacro, perché mi risulta che la dicotomia Sacro/Profano sia una sorta di "struttura" delle psiche umana, di cui peraltro - lo ammetto apertamente - non sono uno specialista. Tutte le religioni organizzate, monoteistiche o politeistiche (quale mi risulta sia I'induismo, anche se la sua "copertura" razionale filosofica è invariabilmente monoteista, come del resto avveniva già per la religione olimpica greca), sono forme di organizzazione comunitaria del sacro. In quanto tali mi sembra che non possano essere disgiunte dalla vita dell'uomo, ed in quanto tali sono eterne (eterne peraltro come il sistema solare, che notoriamente non è eterno). A questo punto, dato questo giudizio ontologico di permanenza e di impossibilità di abolizione con forme di coscienza alternativa politiche (il comunismo ateo) o scientifiche (il positivismo come concezione del mondo), si può tentare anche un giudizio assiologico, che formulerò così: è un bene o un male che le forme di coscienza religiosa siano di tipo permanente e dunque non possono essere abolite, come pensavano i comunisti e pensano tuttora i razionalisti?
Qui probabilmente dissento da de Benoist. Da quanto capisco leggendolo, mi sembra che de Benoist auspicherebbe volentieri la fine virtuale delle religioni organizzate, viste come luogo sociale di manipolazione e di eterodirezione individuale e collettiva. Il suo stesso "paganesimo", che molti ritengono essere solo un'astuta ideologia nazistoide di seguaci del Walhalla guerriero, mi sembra essere invece una ben più pacifica e tranquillizzante via al mito e dunque allo spirito della filosofia greca, che essendo intessuta di mito era incompatibile con un razionalismo interamente demitizzato di tipo illuministico e progressistico (ma non mi sembra che ad esempio Germinario abbia capito questo punto pur essenziale). Io invece do un giudizio molto più positivo sulla permanenza non solo del sacro (che è un fatto tautologico e quindi non soggetto a valutazioni), ma anche delle vere e proprie religioni organizzate.
Il lettore non mi fraintenda. Io non ho nulla a che fare con gli sgradevoli "atei devoti", tipo "teo-con" (nel significato francese del termine), che hanno scoperto di poter "arruolare" la religione cristiana per la loro crociata contro l'Islam, in questo perfettamente simmetrici a Bin Laden, da cui si discostano solo nel fatto che anziché volere un califfato con la mezzaluna vogliono un califfato a stelle e strisce. Il punto sta altrove. E sta brevemente in ciò, che non credo ad un "sacro" interamente disorganizzato, perché l'integrale disorganizzazione comunitaria del sacro, ridotto a fruizione privatistica ed atomizzata di fronte ad uno schermo di computer, coincide di fatto con I'estasi consumistica integrale che è oggi il telos della produzione capitalistica e della clientelizzazione spinta dell'intera società. Dal momento che il "bisogno religioso" (in quanto bisogno antropologico di fruizione e di elaborazione del sacro) comunque esiste, e nessun militante comunista o scienziato positivista potrà comunque "abolirlo" con piani quinquennali o lezioni divulgative sul big bang e sull'evoluzione del pollice del panda, la cosa migliore (o meno peggiore, il che è praticamente lo stesso) è che venga incanalato ed organizzato all'interno di strutture le quali, pur accettando il capitalismo, almeno non si identificano con esso.
Qual è allora il futuro della religione organizzata cristiana (e cattolica in particolare) in Europa? Alain de Benoist ha mostrato in tempo di non credere alla riuscita del tentativo di "rievangelizzazione" presenzialistica e massmediatica del papa polacco Giovanni Paolo II (1978-2005), e secondo me ha avuto ragione. L'attuale papa Ratzinger mi sembra più accorto e saggio, ed il suo stesso richiamo benedettino ad un momento di riorganizzazione di tipo maggiormente "monastico" (e quindi consapevolmente minoritario) va di fatto in direzione opposta allo schitarramento kitsch delle falangi presenzialistiche dei papa-boys, nonostante le profferte rituali di continuità con il predecessore. In ogni caso, il futuro è del tutto imprevedibile, e posso soltanto proporre al lettore alcune caute ipotesi del tutto prive di ogni impossibile "scientificità".
A causa della maggioritaria adesione all'americanismo imperiale ed al sionismo territoriale (ma le due cose sono ovviamente una ed una sola) della parte più consistente dell'ebraismo, tramonta purtroppo la componente critica e messianica della cultura ebraica, da Spinoza a Benjamin e Bloch, e si afferma invece la componente di adattamento imperiale. In reazione all'intollerabile ed imperdonabile giudeofobia sterministica di Hitler, ed in sinergia con la coltivazione del senso di colpa dell'occidente, si sta affermando una nuova religione levitica universale interamente laicizzata, il Culto Espiatorio della Shoah, che dovrebbe diventare il nuovo minimo comun denominatore della sacralizzazione capitalistica universale. Per questa ragione la Fallaci è legale, mentre Irving non lo è. Il carattere "religioso" di tutto questo non deve sfuggire. Spero che nessuno possa accusarmi di anti-semitismo perché faccio queste ovvie (anche se sulfuree) osservazioni. Detto una volta per tutte, la giudeofobia mi è estranea e ripugnante come la pedofilia, la crociata contro I'islam ed il satanismo.
L'Islam gioca oggi un ruolo evidente di tipo identitario e di difesa del diritto ad una cultura comunitario -nazionale distinta e in molti casi opposta alla clientelizzazione occidentalistica del mondo. Considero favorevolmente questo ruolo. Questo non significa, beninteso, che sia favorevole in nome di un diritto universalizzato alla "differenza" ad alcune dimensioni tradizionali della religione islamica, prima fra tutte il trattamento differenziato fra donna e uomo nella famiglia e nella società. Al contrario, mi sento interamente "emancipazionista". Devono (e possono) però intervenire i musulmani stessi, uomini e donne, gli "attori" di questo processo emancipazionista, e non possono esserlo certo i bombardatori dei "diritti umani". Ma su questo punto mi sono già soffermato nel sesto capitolo.
In quanto al cristianesimo, se i greci sono irreversibilmente volati via, esso invece rimane. Ma rimane nelle nostre società come fenomeno di minoranza, ed in questo paradossalmente ritrova la condizione in cui si è già trovato nei primi secoli della sua esistenza, in cui era una religione di minoranza fra le altre. Se fossi cristiano, ed anzi se fossi addirittura "papa", ne sarei felice anziché esserne preoccupato. Alla pigra amministrazione di un insieme di comportamenti ritualizzati si sostituisce una sfida provvidenziale, in cui finalmente l'elezione divina potrebbe essere realmente messa alla prova. Ma su questo chi vivrà vedrà.
II divorzio tragico fra politica e metapolitica oggi
Leggendo Alain de Benoist, in particolare nell'originale in lingua francese, in cui l'erudizione non soffoca mai la sostanziale linearità del testo ed il flusso degli argomenti, non se ne ricava mai un'impressione tragica ed inquietante. Al contrario (almeno per quanto mi riguarda) con l'insieme di chiarezza (la clarté di cui la lingua francese va giustamente fiera) e di consapevolezza della complessità dei fenomeni, si ha quella particolare soddisfazione che il lettore ricava da un testo che, anziché allontanarsi o venire incontro minaccioso, lo invita à proseguire la conversazione e la riflessione anche dopo il punto finale. Sarà perché personalmente ho una debolezza per la lingua francese ben scritta, ma devo dire che la lettura di de Benoist mi ha dato ore di piacere. E tuttavia esiste un elemento inquietante, ed addirittura tragico, che ho deciso di indagare in questo capitolo.
Nel 1860 il poeta austriaco Grillparzer scrisse questi versi:
WilI unsere Zeit mich bestreiten
ich lass'es ruhig geschehen
ich komme aus andern Zeiten
und hoffe in andre zu gehen
(Se il mio tempo mi vuole avversare
lo lascio fare tranquillamente
io sono venuto da altri tempi
e in altri spero di andare).
Sono bei versi, ma non credo che de Benoist vi si riconoscerebbe, nonostante il carattere consolante che ciò potrebbe avere. E del resto neppure io vi riuscirei. Si è costretti a vivere nel nostro tempo, nel tempo che ci è dato, e non ha senso evadere in un passato o in un futuro che forse ci sarebbero stati più congeniali. Ora, quando però il nostro tempo non ci riconosce, o almeno non riconosce le nostre intenzioni veridiche ed anche la natura della nostra produzione artistica, intellettuale e sociale, si finisce sempre con il chiederci: siamo noi che stiamo sistematicamente sbagliando da decenni, ed in questo caso il nostro mancato riconoscimento è una giusta punizione per i nostri pervicaci errori, oppure siamo arrivati troppo presto, in un momento in cui quello che diciamo non è ancora maturo storicamente ed è pertanto inevitabile che sia frainteso, minimizzato, diffamato e comunque marginalizzato?
Tutti i pensatori "atipici" (ma il lettore sappia subito che nella mia conclusione non datò un'interpretazione "atipica" di de Benoist, ma al contrario una estremamente "tipica" nel senso di Weber e di Lukacs) non possono che cadere in tentazioni del genere. Si tratta di tentazioni pericolose, in quanto aprono la strada a derive narcisistiche, maniaco-depressive, paranoiche, e comunque consolatorie. Ma come, ho cercato di essere chiaro, e allora per quale ragione il fraintendimento è sempre così sistematico? Non vivo forse in un mondo di idioti, in cui i saggi sono pochi, ed io ne faccio indubbiamente parte! E infine, visto che nulla serve per smuovere una situazione culturale bloccata, al diavolo tutto, quanto ho scritto finora è strame (e lo disse Tommaso d'Aquino alla fine della sua vita, anche se i testi tomistici in genere lo silenziano virtuosamente), vanitas vanitatum et omnia vanitas!
Il solo rimedio contro questa possibile deriva narcisistico - paranoica è il lavoro, o più esattamente l'inesausta curiosità che ci spinge a continuare a lavorare. Si tratta di una ascesi del lavoro che per sua fortuna non ha nulla di ascetico, perché dà piacere a chi la compie. E I'unione di ascetismo e di edonismo sta in ciò, che il filosofo (come ha magistralmente chiarito Platone nel Fedro analizzando il mito dei cavalli alati) deve certamente occuparsi anche di politica, ma non può ridursi unicamente alla politica, perché oltre la politica ed al di sopra di essa c'è I'amore per la conoscenza in quanto tale. Incidentalmente, noto che qui Aristotele, spesso presentato come colui che ha "rotto" con Platone, è invece estremamente fedele nella lettera e nello spirito al suo Maestro.
Anche se molti hanno parlato a proposito di de Benoist di "gramscismo di destra" (ed anche lui si è forse riconosciuto per un certo periodo di tempo in questa inesatta formulazione), io credo invece che egli abbia rappresentato un modello di intellettuale opposto a quello proposto nel concetto gramsciano di "intellettuale organico". L'intellettuale organico è quello che attua una servitù volontaria vissuta come il massimo della liberazione (liberazione dal peccato "borghese" di separatezza e di falsa indipendenza), servitù volontaria che lo mette in rapporto con un committente sociale titolare della capacità di emancipazione universale. Per Gramsci questo committente, come è noto, era il proletariato rivoluzionario comunista, ma si potrebbero tranquillamente trovare altri soggetti di riferimento e la cosa non cambierebbe. Saremmo sempre all'interno del modello di asservimento volontario vissuto come premessa necessaria di una liberazione ritenuta imminente, modello che ha avuto in Paolo di Tarso I'esponente più deciso e conseguente (cfr. Lettera ai Corinzi, 7,20-4). Io ammiro molto le virtù morali ed intellettuali di Gramsci, ma la via dell'intellettuale organico (indipendentemente dai contenuti e dalle forme contingenti e specifiche di questa organicità) è una via sbagliata. Alain de Benoist, anziché peggiorare, ha migliorato il suo livello di riflessione sociale e filosofica quando ha smesso di autorappresentarsi fantasticamente come un intellettuale organico ad una "destra" pervicacemente inesistente, ed ha cominciato a pensarsi e agire come un pensatore libero, un pensatore della krisis che mette ostinatamente sempre i punti interrogativi persino quando sostiene tesi di cui appare ragionevolmente sicuro. Il fatto è che quando si inizia a pensare ed a agire in modo socratico non si è più necessariamente né di destra né di sinistra. Socrate, lungi dall'essere un semplice "nemico della democrazia", come a volte lo rappresenta la tradizione manualistica semplificatrice, si autorappresentava come un "moscone fastidioso sul nobile cavallo della città degli Ateniesi", e quindi paradossalmente (ma non troppo) come un patriota ateniese, e non come un ideologo degli oligarchi.
Voler essere ad ogni costo un "intellettuale organico" è un inutile suicidio dell'intelletto. La parola fondamentale non è neppure "suicidio", ma è "inutile". Non serve a nulla, e soprattutto non serve ai destinatari fantasmatici della cosiddetta produzione "organica". L'ostrica produce la perla per il suo piacere, non certo per servire I'industria dei gioielli. Soltanto l'idiozia dei burocrati ha potuto creare la leggenda di un Marx che si consuma per poter fornire con il Capitale un infallibile strumento per la classe operaia, salariata e proletaria. Marx ha scritto il Capitale perché non avrebbe comunque potuto farne a meno, e proprio per questa provvidenziale gratuità originaria il lavoro gli è venuto bene, ed ha poi in un secondo tempo potuto servire a scopi pratici giganteschi. Sempre nel Fedro Platone paragona la conoscenza filosofica al volo (non al cammino, proprio al volo), che alzandosi da terra riesce a vedere molto meglio le cose. L'ideologia è proprio quella filosofia azzoppata senza ali che non vola, e per questa ragione non può neppure sapere dove si trova.
Detto questo, uno scrittore politico (o metapolitico, ma mi si permetta di confondere volutamente i due termini che so bene essere concettualmente ben distinti) non può comunque fare a meno di pensare come possibile I'esistenza di un destinatario sociale che vada al di là della fisiologica piccola cerchia di amici e conoscenti (che nel caso di de Benoist è certo più grande della mia, ma questo non muta il cuore della questione). Il buon attore recita anche per un pubblico di cinque sole persone, e reciterebbe anche per un solo amico. Ma dal momento che per ogni essere umano è essenziale il riconoscimento nel senso hegeliano del termine, si pone certamente per de Benoist (come si pone per tutti) il problema dell'assenza tragica di destinatario reale per la propria proposta metapolitica. E cerchiamo allora di affrontare "frontalmente" questo inquietante problema.
In estrema sintesi, e formulando il problema in modo volutamente schematico, la proposta metapolitica di de Benoist, che ruota intorno al superamento della divisione (clivage) fra Destra e Sinistra, non è riuscita ad innescare una riforma politica, almeno nello scacchiere geografico e geopolitico europeo. Qui sta a mio avviso l'aspetto tragico del problema. Certo, non sono mancati vaghi riconoscimenti culturalistici, tentativi di "sdoganamento" da parte di (pochi) intellettuali spregiudicati, momenti di dialogo, eccetera. Ma la realtà politica si è dimostrata più robusta dei desideri e delle analisi innovatrici. Il quadro di riferimento e di orientamento politico europeo è rimasto pervicacemente fondato sulla dicotomia Destra/Sinistra, con correzioni marginali e sostanziali fallimenti di tutti coloro che hanno cercato di portare il superamento della dicotomia dal cielo della metapolitica alla terra della politica. De Benoist ha perso moltissimi amici che si era conquistato nel periodo in cui era sembrato il rifondatore culturale di un profilo di una Nuova Destra, e si è conquistato pochissimi amici (fra cui chi scrive, ma non sono molti) fra coloro che in qualche modo si sono formati negli ultimi decenni con valori e con idee di Sinistra. La continua evocazione dell'Immaginario del Tradimento, dell'Impurità, della Cospirazione, dell'Infiltrazione e della Contaminazione, eccetera, può certamente servire da artificio consolatorio, ma non può "mordere" oltre ad un certo punto nella materialità del problema.
Secondo alcuni, la dicotomia Destra/Sinistra non può essere abbandonata, perché anche se ne vengono progressivamente meno le ragioni storiche che I'hanno generata restano pur sempre atteggiamenti e pulsioni antropologiche e comportamentali che la fanno continuamente risorgere dalle proprie ceneri. Esemplare è in proposito I'intervento di Henning Eichberg nel Liber Amicorum di Alain de Benoist. Personalmente non credo a tesi di tipo metastorico ed antropologico sulla perennità della scissione dicotomica basata sull'estensione allo spazio politico dello spazio in cui si agitano le due mani. Non so quanto sia valido lo schema trifunzionalistico indoeuropeo di Dumézil per comprendere la lunga durata delle tradizioni europee (mi sembra di capire che de Benoist vi aderisca nell'essenziale), ma non penso che si possa "dedurre" la polarità dei comportamenti politici attuali né da uno schema dualistico (Destra/Sinistra), né da uno schema monoteistico giudaico-cristiano (l'unicità del volere divino cui ricondurre a forza tutti i comportamenti umani), né infine da uno schema trifunzionalistico comunque declinato o modificato. Monoteismo dell'unicità, dualismo della contraddizione oppositiva ed infine trifunzionalismo sociale e simbolico sono tutti e tre fattori in varia misura interconnessi dell'eredità europea, ivi compresa I'attività politica. In Platone, ad esempio, c'è un monoteismo del logos, un dualismo nell'opposizione fra mondo delle idee e mondo sensibile ed infine un evidente trifunzionalismo nel rapporto fra anime e Potere politico (anima intellettiva, irascibile e concupiscibile, da un lato, filosofi-governanti, guerrieri ed artigiani, dall'altro). Ma su questo mi sono già soffermato nel decimo capitolo.
Cerchiamo allora di porre il problema nel modo più brutale e semplificato possibile: alla luce di una filosofia politica "realistica" come quella di Hegel, in cui il Reale ed il Razionale devono incontrarsi non in un apeiron indeterminato ma in uno spazio - tempo determinato e storico, se per caso una proposta metapolitica particolare (come il superamento del clivage Destra/Sinistra) continua a sembrare "intellettualistica", e quindi hegelianamente non "razionale" alle concrete generazioni storiche fra cui viviamo, allora se ne può ragionevolmente dedurre che questa proposta metapolitica è astratta, e resta una semplice ed ineffettuale protesta contro I'esistenza della realtà.
Nonostante l'interpretazione di Marcuse tenda a definire la realtà hegeliana come semplice adeguamento alla razionalità, e quindi di fatto come non-realtà, credo che I'obiezione hegeliana non sia semplice storicismo, ma debba essere assolutamente presa in considerazione. Una metapolitica che non incontra mai una politica degna di questo nome è, in termini merceologici, una metapolitica per nullatenenti. Come un martire non fa di per sé giusta una causa, il fatto che si continui da decenni a battere alla porta della politica annunciando I'arrivo di una nuova metapolitica senza che la porta si apra, e che questo battere alla porta ci consumi il cuore e l'intelletto, non ci può consentire di affermare di avere ragione. E allora delle due I'una: o abbandoniamo la nostra proposta metapolitica e ci ricollochiamo (in via necessariamente marginale e subalterna) nell'alveo della dicotomia classica, delle sue fobie e delle sue procedure di esclusione e di inclusione, oppure è inevitabile trarne conseguenze tragiche, se riteniamo di aver ragione di cogliere in qualche modo lo Zeitgeist, lo spirito del tempo.
Non so se la mia interpretazione possa essere condivisa da de Benoist (anzi, francamente non lo credo) ma personalmente interpreto il rifiuto del "mondo reale" di prendere seriamente in considerazione l'obsolescenza della dicotomia Destra/Sinistra come un segno della decadenza dell'Europa in questa fase storica. Dio mi aiuti, perché non avrei mai pensato nell'epoca della mia gioventù marxista rivoluzionaria (più esattamente marxista-leninista) di approdare ad una categoria dell'aborrito Spengler. In Spengler ho sempre visto solo un insieme di sensazioni e di emozioni soggettive trasferite e travestite in una pomposa filosofia della storia, in cui I'empirica sconfitta della Germania guglielmina di fronte al tonnellaggio delle flotte inglese e americana veniva trasfigurata in crisi epocale dell'intera civiltà, laddove la coeva vittoria dell'ottobre rosso del 1917 segnava invece per me non certo la decadenza dell'occidente, ma il suo rinvigorimento con la nuova trasfusione di sangue rivoluzionario. Ma evidentemente I'infiacchimento morale e politico dell'Europa era troppo grande perché un semplice Viagra rivoluzionario potesse portare al suo rinvigorimento.
I sostenitori della eternità epocale della dicotomia Destra/Sinistra potranno certo sorridere di fronte a quello che sembrerà loro (li conosco bene, e quindi posso prevedere le loro reazioni con un altissimo grado di esattezza) una forma di "spenglerismo di sinistra". Ma io vorrei ora lasciar perdere le etichette e cercare di stringere, come dicono i filosofi, la "cosa stessa". Non si tratta certo di accogliere de Benoist come il salvatore dalla decadenza, anche perché l'uomo è troppo dotato di senso dell'umorismo per camminare senza sorridere sui tappeti stesi in suo onore con il viso serio di un Mitterrand, che infatti inaugurò con la sua presidenza I'inizio del periodo più forsennatamente capitalistico della storia francese senza che questo fatto indiscutibilmente umoristico lo facesse ridere, o almeno sorridere. Si tratta invece di dimenticare I'esistenza di de Benoist, di chi scrive e di qualunque altro fattore "disturbante", e di concentrarsi soltanto sulla cosa stessa.
E la cosa stessa sta in ciò, che il mantenimento ossessivo della dicotomia politica Destra/Sinistra si accompagna, e non solo si accompagna ma si nutre, con la fine dell'identità europea distinta dalla turbopotenza americana, con I'occupazione militare imperiale americana dell'Europa e con la sua aggregazione subalterna al conseguimento di fini geopolitici estranei all'Europa stessa. Quanto dico, per rimosso che possa essere dalla coscienza di chi pensa ormai solo più attraverso la mediazione del circo mediatico, non è un'opinione stravagante, ma è un fatto, ed un fatto sotto gli occhi di tutti.
Il pensiero di de Benoist, in quanto segnalatore d'incendio (ed il suo pensiero è un segnalatore d'incendio almeno quanto lo è stato a suo tempo quello di Walter Benjamin nell'interpretazione che ne ha dato Michel Loewy), è dunque un pensiero che sotto la forma enciclopedica ed erudita della tradizione illuministica francese (si può infatti essere erede di questa tradizione illuministica anche quando se ne è critico dei contenuti "progressisti") resta un pensiero tragico. Tragico nel senso in cui segnala la tragicità oggettiva di una situazione per ora apparentemente bloccata. Se poi questo "blocco" sia temporaneo oppure "sociale", per usare un termine pomposo (noi non siamo epocali, e neppure le tartarughe lo sono, anche se lo sono sempre un po' più di noi), nessuno lo può sapere. Spengler, Sorokin e Toynbee credevano di saperlo, ma noi possiamo invece mettere tutti quei punti interrogativi che invece essi non mettevano.
Dal libro di Costanzo Preve "Il paradosso de Benoist" Settimo Sigillo 2006