L'undicesimo comandamento*
di Angelo Marino - 14/09/2006
Il densissimo libro di Paolo Cacciari, Pensare la decrescita, Sostenibilità ed equità (Cantieri CARTA, edizioni Intra Moenia, Napoli 2006) è a nostro avviso il testo critico più documentato e aggiornato nella vasta letteratura ecologica contemporanea. Il grande tema dell’ambiente e della sua vivibilità è analizzato in tutte le sue sfaccettature e corredato da un imponente apparato di note e citazioni. L’obbligo della decrescita, da tradurre in pratica sociale estesa e condivisa, nasce dall’evidenza scientifica che il degrado ambientale è strettamente correlato alla storia dell’uomo. La specie umana, a partire dalla rivoluzione industriale della seconda metà del Settecento, si è trasformata “in una sorta di forza geofisica in grado di alterare il clima della terra” (p. 24). La globalizzazione ha accentuato questo processo: la necessità di produrre di più, e quindi di incorporare sempre più materia ed energia, ha infatti determinato un aumento dello spreco di risorse naturali. “È fin troppo banale, scrive G. Nebbia, rilevare che la domanda di risorse naturali - vegetali, animali, rocce, sale e dei loro prodotti di trasformazione - aumenta sotto la pressione di sempre più precisi rapporti di proprietà e di violenza imperialistica” (p. 24).
Dobbiamo considerare definitivamente tramontato il mito delle risorse naturali inesauribili e del pianeta in grado di sopportare tutto (dagli esperimenti atomici nell’atmosfera al prelievo illimitato delle fonti di energia non rinnovabili). Dobbiamo prendere atto che i mutamenti ambientali sono progressivi e permanenti, che non è possibile prelevare risorse infinite da un pianeta limitato e che stiamo vivendo “a spese del futuro” (Vandana Shiva).
Oltre alle distruzioni osservabili (accelerazione del riscaldamento climatico, effetto serra, inquinamento atmosferico, alluvioni, cicloni, uragani, estinzioni in massa di specie viventi) ci sono le cosiddette “catastrofi lente”, come la desertificazione e l’insterilimento dei suoli agricoli, l’erosione delle coste, la salinizzazione delle falde acquifere, il disboscamento delle foreste, l’esaurimento delle risorse idriche.
Il libro di Paolo Cacciari non apre spiragli di luce su questo scenario da apocalisse prossima ventura, al di fuori dei percorsi operativi. L’entità del degrado è tale da esigere la messa a punto di una serie mirata e selettiva di azioni conseguenti: va, innanzitutto, interrotto quel circolo vizioso tra aumenti di produttività e aumento di consumi che ha prodotto “la crescita senza qualifiche, la crescita per la crescita, senza limiti” (Latouche, p. 113), al prezzo della distruzione e della predazione della natura, ma anche al prezzo dello sfruttamemnto e della colonizzazione dei paesi del Sud del mondo.
Abbiamo il dovere di consumare di meno, non solo per un problema di giusta ripartizione delle disponibilità tra gli esseri umani attualmente viventi, ma anche per “un problema di equità intergenerazionale” (p. 103), “per lasciare qualche speranza di futuro alle generazioni future” (p. 16). Noi crediamo che nel Grande Codice della Vita, che trascende il breve arco temporale della nostra esistenza, la spoliazione delle risorse del pianeta al ritmo attuale dovrebbe configurarsi come il più grande crimine contro l’umanità del futuro.
La tesi centrale del libro è che la sinistra deve ritrovare la cultura della resistenza, sia a livello nazionale che a livello internazionale. A livello nazionale, riproponendo l’idea gramsciana di una società di “individui autodeterminati e di un diffuso autogoverno sociale” (p. 93). Una condivisione attiva non può che dare vita ad un governo “consapevole e democratico della società”, che metta a servizio dell’apparato protettivo le misure e le risorse (legislative, tecniche e organizzative) che fino adesso è stato messo a servizio dell’apparato produttivo, persino gli stessi poteri “forti” che hanno consentito ad una minoranza di avvantaggiarsi sul resto della società. A livello internazionale, creando le premesse di una nuova governance mondiale, che salvi l’umanità dalla catastrofe ecologica, sganciando l’economia “dalla spirale espansiva, incrementale, dissipativa” e dando vita “ad un’economia responsabile, autosostenibile e cooperante” (p. 39). C’è “un colossale problema di decisione politica sull’allocazione delle risorse, sulla distribuzione della ricchezza, sulla disciplina dei redditi, sull’organizzazione del mercato del lavoro e, non da ultimo, sull’utilizzazione delle risorse naturali. Ciò che viene chiesto a forte voce è un nuovo grande patto sociale ed ambientale a scala mondiale” (p. 71).
Anche le lotte operaie devono incorporare obiettivi e strategie diverse rispetto al passato: “Le lotte sulle condizioni di produzione (le lotte in difesa dell’ambiente naturale e sociale) sono diverse dalle lotte tradizionali per il salario, l’orario e le condizioni di lavoro, perché le condizioni di produzione sono in larga misura comuni, sono cioè di tutti” (p. 51). L’operaio che vive dentro la fabbrica “non riesce ad abbracciare la dimensione complessiva, fondante e generale del problema, nemmeno quella delle sole lavorazioni nocive. La contestazione o riesce ad investire l’intero 'ciclo di vita' del prodotto, il bilancio di flusso di energia e di materia che viene generato nel processo produttivo e di consumo, oppure non avrà mai la forza di mettere in discussione l’effettiva utilità […] dell’intero sforzo cooperativo lavorativo […]. Il conflitto ambientale, quindi, non nasce spontaneamente dai lavoratori solo perché hanno la (cattiva) sorte di essere collocati all’interno di un ciclo produttivo, ma, altresì, può svilupparsi consapevolmente in un percorso squisitamente politico di affrancamento, di auto-apprendimento, di empowerment…mirato al desiderio di condurre il proprio lavoro con modalità più razionali, più coerenti, più eque, più sostenibili, oltre che meno dannose per se stesso” (p. 52). Lo stesso obiettivo dev’essere perseguito a livello planetario: “Credo che vi sia bisogno che le masse povere del sud, le nuove masse salariate sottopagate del Terzo Mondo e le classi popolari del primo e del secondo mondo trovino il modo di riconoscersi, incontrarsi e concepirsi come ‘una nuova classe generale planetaria’ nell’universo mondo” (p. 52).
Reintrodurre il sociale e il politico nei rapporti di scambio significa riassoggettare l’economia alla politica (Polanyi). Le forze cieche e distruttive vanno combattute con una “lotta di resistenza” di tutte le forze sociali, che si sentano animate da “una estesa, molecolare ’causazione ideale’ che sottragga consenso, provochi disubbidienza e produca un sentire comune alternativo” (p. 102). La trama dei rapporti che gli uomini riescono a stabilire tra loro e con le istituzioni (la saldatura gramsciana tra società politica e società civile) è la sola via d’accesso alla socializzazione dell’economia. Per realizzare ”l’universalmente umano” (quell’idea di ”uomo planetario” sulla quale aveva lavorato padre Ernesto Balducci), “vi è bisogno del protagonismo di tutti, di una figura sociale completa, che riesca a ricomprendere tutte le dimensioni plurali dell’esistenza: individuo biologico e sociale, uomo e donna, razionale e passionale, portatore dei propri interessi immediati e di quelli dei propri figli, abitante e cittadino, produttore e consumatore…Tradotto in ecologia politica, servirebbe un processo di azione e di lotta in cui la ‘coscienza di classe’ riuscisse a declinarsi nella ‘coscienza di specie’, nella ‘coscienza di genere’, nella ‘coscienza di luogo’… e forse anche in una coscienza del vivente non umano, cosmico, universale” (p. 103).
Le ragioni forti dell’ecologia esigono risposte altrettanto forti e unitarie da parte della scienza e delle attività cognitive in generale. La natura, peraltro, da qualsiasi prospettiva viene guardata, non dà che risposte omogenee: sebbene le rigidità disciplinari della scienza moderna tendano a far vedere i problemi come separati, sono proprio i progressi della ricerca a mostrarci che in realtà non esistono confini rigidamente definiti tra le varie discipline. Anche dalla prospettiva ecologica è confermata la circolarità o implicazione reciproca tra fatti umani e fatti naturali: i guasti all’ambiente dimostrano che il mondo è un ecosistema chiuso, che conserva una sua memoria genetica indistruttibile e che non dispone di spazi neutri o zone franche in cui “esternalizzare gli effetti negativi indesiderati” delle nostre malefatte.
In questa prospettiva, non soltanto viene a cadere la divisione disciplinare dei saperi, ma anche il campo delle cosiddette scienze umane si allarga fino a coincidere in parte con quello della climatologia, della geografia, della geologia, della biologia e delle scienze della Terra in generale. Ed è sempre in questa prospettiva onninclusiva che la filosofia deve, prima tra le scienze umane, rimettersi interamente in gioco: contribuendo, più di ogni altra, a offrire una visione unitaria e “vera” del mondo e ri-assumendo, in tutte le sue tendenze, scuole e varianti, il ruolo “forte” di “capitale cognitivo” da investire per realizzare “nulla di meno di un rovesciamento copernicano nell’approccio al rapporto cultura/natura” (p. 94). Nulla di più estraneo al registro riflessivo che oscurarsi trincerandosi in una visione “debole” e asettica della realtà, disancorata dalle problematiche attuali. “La teoria della fine delle ideologie, scrive Cacciari, è funzionale all’idea che la politica sia essenzialmente un affare di mera gestione e che una buona politica (dunque il buon politico) si misura nella gestione ‘efficace’ delle risorse disponibili e dei mezzi esistenti” (p. 93).
La megamacchina tecnoeconomica - l’apparato produttivo che è servito alle grandi lobby economico-finanziarie per indurre nelle masse l’assuefazione e il consenso - non va, secondo noi, rottamata, ma riadattata - quantomeno nelle sue componenti riutilizzabili - per l’instaurazione di una società ecocompatibile, fondata su “un’austerità equilibratrice e gioiosa” (Ivan Illich). “Nulla va gettato!” (p. 94), avverte pragmaticamente l’autore: quell’apparato di conoscenze tecniche che ha fatto da supporto al capitalismo nella sua fase espansiva va ora riconvertito alla bioeconomia, “applicato alla creazione di beni e servizi non usati per produrre merci, ma per l’autoproduzione, la cura, la convivialità, lo scambio alla pari” (p. 77). È antistorico pensare che un’altra economia “con un’altra razionalità, più ragionevole e meno razionale” (Latouche, p.104) possa fare tabula rasa di queste conoscenze e ripartire da zero. Sempre Latouche: “Non c’è nulla di peggio che una società laburista senza lavoro, non c’è niente di peggio che una società di crescita senza crescita” (p. 106).
Una “società del bene comune”, aggiungiamo noi, può anche giovarsi di quella che i darwinisti chiamano ”ingegneria inversa”. Non è rottamando la megamacchina e liquidando il patrimonio di conoscenze tecno-scientifiche accumulate negli ultimi tre secoli che si schiudono i nuovi orizzonti della bioeconomia. È l’utilizzo razionale di questi mezzi coniugato al “consapevole inutilizzo” (p. 94) delle risorse naturali il giusto viatico per la “riconversione ecologica dell’apparato produttivo” (p. 103). Azzardiamo un’ipotesi estrema: un carrarmato Leopold non va rottamato perché ha seminato morte e distruzioni o per reazione antitecnologica; senza entrare nel merito dei suoi consumi energetici e della possibilità, piuttosto problematica, del suo riutilizzo a scopi pacifici, è fuori dubbio che chi riuscisse in quest’intento dimostrerebbe di avere le stesse competenze (ma molta più fantasia) di chi lo aveva progettato a fini distruttivi. E via dicendo.
L’obiettivo dichiarato di Paolo Cacciari è quello di immettere nella politica una coscienza ecologica, ma quest’intento va via via allargandosi in una visione tragica, a tratti desolante (per l’entità oggettiva del degrado e per l’inadeguatezza dei mezzi messi in atto per contrastarlo), ma nient’affatto rassegnata, dello stato attuale. La lucidità e il rigore delle analisi si fondono in un solido impianto argomentativo e in un crescendo d’intensità partecipativa, resa soprattutto in alcune pagine dal vibrante stile spezzato e nel j’accuse finale, dove all’elenco delle responsabilità storiche (capitalismo, neoliberismo, neocolonialismo, consumismo) si somma l’elenco delle opportunità mancate, soprattutto delle responsabilità politiche, puntigliosamente passate in rassegna, dei vari esponenti della passata coalizione di centro destra.
Riassumendo, ci sembrano questi i pregi del libro: anzitutto la tensione etica che lo percorre in ogni sua pagina (un “dover essere” che obbliga tutti); la qualità della scrittura, pregnante, incisiva, prevalentemente paratattica (frasi brevi); il rigetto in nuce di quell’ecologismo boudoir, da intrattenimento salottiero, che oggi sembra fare tendenza (e che lascia il tempo che trova); il rifiuto dell”approccio apocalittico” alla crisi ambientale (“Non ricordo che i profeti di sventura siano mai riusciti ad avere molti consensi”, p. 99); l’ottimismo di cuore e ragione alleati (una volta tanto) nell’indicare per ogni problema una possibile via d’uscita (spesso in forma dimessamente didascalica: coltiva l’orto, fa’ il pane e lo yogurt in casa, abbassa la temperatura della lavatrice ecc.), in alternativa alle inutili geremiadi dei profeti di sciagura che contemplano, rassegnati e inerti, “lo spettacolo delle rovine fumanti”; la chiamata in correità di quelli che, per responsabilità diretta (i pianificatori del degrado) o per supina acquiescenza (praticamente tutti noi), contribuiscono alla distruzione dell’ambiente; e, infine, la lucida (e impietosa) denuncia della politica delle sinistre (il populismo come strategia del consenso), praticata stando sia all’opposizione che al governo.
Ogni pagina del libro è ispirata ad un profondo rispetto per la Vita. Ed è su questo sfondo che si definisce quel costante richiamo alla concretezza che lo attraversa come un filo rosso dall’inizio alla fine: dalle parole d’esordio della Presentazione di Pierluigi Sullo (“La nostra speranza è che questo libro di Paolo Cacciari aiuti ad evitare conversazioni chiuse”) all’elenco delle dieci regole di buon governo su cui è chiamata ad impegnarsi l’attuale maggioranza di centro sinistra. Ci si auspica, in entrambi i casi, che si passi (finalmente) dalle parole ai fatti, dalle dichiarazione di principio e dalle denunce ai comportamenti virtuosi.
Ed è per restare sul terreno della concretezza (e della moralità) che noi ci permettiamo di aggiungere (con un po’ di enfasi provocatoria) un “undicesimo comandamento” alle Dieci Tavole della Legge o una quinta verità alle quattro verità di Buddha (nel nostro caso, alle dieci buone azioni suggerite all’attuale governo). Il suggerimento, rivolto a ciascuno di noi prima che alle istituzioni, è di dare inizio al cambiamento riabilitando il nostro corpo alla manualità. È un sommesso suggerimento che però nasce da una profonda convinzione, quella secondo cui il ripristino dell’uso naturale dei nostri organi e delle nostre funzioni vitali (le braccia per lavorare, le gambe per camminare, la testa per pensare) sia il solo modo di dare contenuto visibile alle nostre idee sulla decrescita, il primo passo concreto verso il cambiamento, ma anche il modo più immediato e diretto per indicare, spianare e illuminare la strada a chi ci governa: per essere al tempo stesso legislatori e soggetti, produttori e osservatori di regole.
L’ecologia del corpo e della mente non può che precedere l’ecologia dei sistemi naturali. Non ci nascondiamo che “rinaturalizzare” i nostri stati mentali, i nostri istinti, le nostre abitudini, le nostre inveterate credenze e, coerentemente, i nostri programmi di vita, comporti, in primo luogo, un grande lavoro di decantazione del nostro immaginario (la “decolonizzazione”, secondo l’espressione di Latouche) e, in secondo luogo, un altrettanto lungo esercizio di riadattamento al nostro habitat naturale di quelle attitudini psico-fisiche di cui abbiamo, in larga misura, perduto uso e memoria nel corso del tempo. Quando Heidegger parla di oblio dell’essere fa solo un bilancio parziale delle nostre dimenticanze. Dimentica un’altra dimenticanza: quella della nostra appartenenza al mondo naturale, che discendiamo cioè dallo stesso “fascio arborescente” dal quale è discesa ogni altra forma di vita.
Ed è per ristabilire i legami con la nostra naturalità che dobbiamo liberarci dalla trappola produttivista e consumistica. “La reciprocità, il dono, la permuta, lo scambio, il baratto…(p. 112) sono possibili solo se riusciamo, con passi graduali (ma bisogna pur cominciare), a sottrarci al ricatto della megamacchina tecnoeconomica. Delle due, l’una. O noi ci sostituiamo ad essa o essa si sostituisce a noi, continuando a fare quello che sta facendo: producendo, in nostra vece, merci e servizi che trascendono i nostri reali bisogni e devastando la terra e le relazioni interpersonali.
Seguendo alla lettera la traccia “esiodea” (l’Esiodo de Le opere e i giorni) indicata da Cacciari laddove dice di curare l’orto, di fare lo yogurt in casa ecc., dobbiamo, per cominciare, affrancarci dagli automatismi della nostra vita ordinaria, a partire dall’uso smodato e paranoico degli strumenti che la tecnologia ci ha messo a disposizione: dalla televisione all’ascensore all’automobile al computer al cellulare, a tutto ciò che ci aliena da noi stessi.
Il lavoro, scriveva Marx all’inizio del Capitale, “è il padre [della vera ricchezza] e la terra ne è la madre”. Noi crediamo (più sulla linea di Engels che di Marx) che il lavoro manuale, agricolo e artigianale, sia altamente educativo, non solo perché è finalizzato all’autoproduzione dei mezzi necessari alla nostra sussistenza, ma per una serie di buone ragioni che possiamo così riassumere: perchè costituisce la vera fonte (non monetizzabile) della nostra ricchezza, rendendo possibile il “ricambio organico” tra la natura e l’uomo; perché aiuta a distinguere i bisogni reali dai bisogni indotti; perché rinsalda i vincoli sociali e affettivi con il nostro prossimo; perché è un lavoro libero e creativo, svincolato dai legami che lo subordinano agli interessi corporativi; perché previene e cura (ergoterapia), molto meglio dei farmaci, una vasta gamma di malattie (da quelle dovute alla sedentarietà, quali l’obesità e le disfunzioni cardiovascolari, alle cosiddette “malattie sociali” e psicosomatiche, quali l’alcolismo, l’anoressia, la depressione, il senso di vuoto, di inutilità, e quant’altro), rendendo così meno oneroso per lo Stato il servizio sanitario (e meno “affollati” gli ospedali e gli istituti di ricovero per gli anziani); perché contrasta quel processo degenerativo che ha modificato in senso sia funzionale che estetico il nostro corpo (p. 31); e, infine, perché un lavoro finalizzato all’autoproduzione, alla reciprocità e al mutuo scambio rompe la spirale perversa tra produzione e consumo (“la gabbietta girevole dello scoiattolo…, dove più corri, più rimani fermo”) e rende più umani e vivibili i contesti sociali.
Se il cambiamento parte da noi, il compito della politica si riduce a rimuovere gli ostacoli a questa inversione di rotta: rendendo possibile, per esempio, il riciclo dei rifiuti organici (i cosiddetti “rifiuti umidi”) con l’effettiva creazione di centri per il loro compostaggio e con un uso più razionale del territorio; i poteri locali potrebbero attivarsi in questo senso con procedure di lottizzazione e assegnazione a volontari o a persone anziane o disoccupate, a titolo di “comodato d’uso”, delle vaste aree incolte delle nostre periferie urbane e destinarle a culture agricole e ortofrutticole.
Lo stesso discorso vale per il lavoro artigianale. Molto spesso si rimane anattivi, non perché non si ha voglia di fare, ma perché non si sa cosa fare.
Noi crediamo che la spaccatura tra l’umanità e la natura costituisca l’evento più tragico nella storia dell’uomo. Le disuguaglianze sociali, i privilegi di casta, le gerarchie di dominanza, l’iniqua ripartizione della ricchezza, i profitti da lavoro salariato, di cui è sempre stata vittima la parte più debole e indifesa della società, sono meno gravi dell’esproprio della condizione naturale, che l’ha investita nella sua totalità. Lo “spirito selvaggio” del capitalismo ha imperversato per almeno tre secoli nella cultura occidentale agendo sul mondo fisico prima ancora che sul mondo biologico, snaturando e violentando lo spazio abitato prima ancora che i soggetti che lo abitano, “riconcettualizzando” la natura come macchina, anziché come organismo vivente e trasformandola da bene comune a “libera” preda. Una minoranza ha così potuto, “osservando l’antica legge del più forte” (p. 36) e con la mediazione dell’autorità pubblica, privatizzarla, recintarla e utilizzarla come “capitale naturale”.
Ma i danni più gravi alla biosfera e alle specie viventi sono quelli progressivi e irreversibili: sono quelle piccole e costanti variazioni svantaggiose che, accumulandosi nel tempo, alterano gli equilibri primitivi e la stessa morfologia funzionale degli organismi viventi, compromettendo la possibilità della loro sopravvivenza in condizioni naturali. È quello che sta avvenendo.
L’esproprio della condizione naturale è stato completo nell’era delle biotecnologie. Il 1866 - anno in cui Mendel scoprì che il patrimonio genetico è racchiuso nel nucleo di ogni cellula, svelando i meccanismi della trasmissione della vita e dell’ereditarietà dei caratteri - è da considerare una data cruciale nella storia dell’umanità. Grazie a questa scoperta, che ha reso virtualmente possibile la manipolazione della vita, il prometeismo scientifico - con le tecniche di ricombinazione dei geni (ingegneria genetica, OGM), del trapianto degli organi e, ultimamente, dell’uso degli embrioni per la produzione di cellule staminali - ha compiuto nel corso del Novecento il più grande balzo in avanti, violando “il mistero fondamentale della vita” (p. 34) e aprendo scenari inquietanti sul nostro futuro. Concordiamo con Cacciari quando dice che “potremmo oggi scrivere un trattato sulla parte che svolge il lavoro sulla snaturalizzazione dell’uomo!” (p. 31).
Alla luce di tutto questo, la scienza economica dovrebbe rimeditare profondamente il suo ruolo: esigere che all’imperativo economico del rendimento sia sostituito l’imperativo ecologico del risparmio, promuovere in sinergia con le altre scienze umane la cultura della sobrietà e della solidarietà, convenire sulla necessità “di un preciso riferimento etico e di un codice di comportamento morale” (p. 32) e accettare il paradosso che il più grande segno di modernità è il ritorno all’antico, alla naturalità della condizione umana.
Noi crediamo che per fare questo bisogna intervenire, in primo luogo, sui meccanismi elementari della produzione e del consumo. Accorciare il raggio tra chi produce e chi consuma, sottraendo al mercato quanti più spazi è possibile, è, secondo noi, è il primo passo verso il reale cambiamento. Oltre a ripristinare l’antica alleanza tra l’uomo e la natura, questo renderebbe possibile: la rilocalizzazione geografica dell’economia, contro le attuali spinte centrifughe e globalizzanti (l’economia morale locale contro l’economia di mercato globale); l’umanizzazione del lavoro, contro la sua mercificazione; l’attività cooperante, contro l’attività predatoria; l’autoproduzione con impiego di energia muscolare, benefica e salutare, invece della produzione a spese dell’ambiente e del futuro; il riflusso della materia e dell’energia nell’ecosistema, invece della loro dispersione-distruzione sotto forma di rifiuti; il rispetto della biodiversità, contro la logica neo-liberista della monocultura; il mutuo scambio, invece del libero mercato (o “scambio forzato”); la solidarietà e la convivialità, invece della competitività.
L’invito che Paolo Cacciari rivolge alla sinistra di ritrovare la cultura della resistenza contro la crescita fine a se stessa è da rivolgere, in prima istanza, a ciascuno di noi. Ed è l’invito a riappropriarci di quelle elementari regole di vita naturale e di quel “soccorso intraspecifico” connaturato al nostro essere “animali sociali”, che hanno reso possibile, fino adesso, la sopravvivenza della nostra specie.
*(Postfazione al libro di Paolo Cacciari, Pensare la decrescita)