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Il danno non si risolve con le stesse modalità che lo hanno prodotto

di Lucia Venturi - 14/09/2006

Il nodo centrale della sostenibilità è rappresentato dalla contraddizione tra il limite dell’ecosfera e la crescita economica senza limiti
Continua il dibattito sui temi della sostenibilità con l’intervista di oggi a Carla Ravaioli (nella foto), ambientalista e saggista di fama nazionale. Può esistere un nuovo progetto di governo della globalizzazione che non tenga conto della sostenibilità?
«No, non è possibile, la risposta è secca - esordisce Carla Ravaioli - E’ incredibile l’assenza dell’ambiente nei temi trattati dai politici o dagli economisti che sono loro consiglieri. Infatti o l’ambiente non esiste o al massimo il problema per la politica mondiale è trattato come una variabile marginale che di tanto in tanto interferisce con le altre variabili dei sistemi. Ma l’atteggiamento diffuso è che i problemi ambientali si risolvono di fatto da sé. Mi sembra poi che ultimamente il problema dell’ambiente sia tenuto in considerazione solo per l’aspetto che riguarda la scomparsa del petrolio e delle fonti fossili in genere, come preoccupazione che venga a mancare la base per mantenere poi un sistema industriale così com’è.
E questo approccio riguarda spesso anche il tema delle energie alternative, al cui ricorso si guarda come alla felice possibilità di seguitare ad alimentare e mantenere indefinitamente immutato l’attuale regime economico. Persino Bush ne parla, ma come alternativa alle fonti fossili per continuare a puntare sulla solidità e l’espansione delle nostre economie e garantire un futuro ancora basato sulla crescita».

Ma il surriscaldemento del pianeta non è secondo lei un problema grave?
«Sì, ma questo è anche l’errore fondamentale che fanno alcuni ambientalisti, cioè quello di identificare l’effetto serra come crisi ecologica tout court. Mentre la crisi ecologica è causata da una miriade di altri fattori diffusi nella nostra vita quotidiana. La gran parte dei materiali sintetici in commercio e in uso, come vernici, coloranti, colle, additivi, pesticidi, fitofarmaci, numerosi tipi di plastica, metalli pesanti ecc., sono tutte sostanze che poco o tanto ci avvelenano.
Da una indagine sui residui di sostanze persistenti condotta sul sangue di diversi parlamentari europei che vi si sono sottoposti volontariamente è emerso per esempio che ciascuno presenta mediamente tracce di 47 contaminanti.
Una cosa che non viene mai considerata è poi il fatto che una automobile per essere prodotta inquina quanto i dieci anni della sua vita. L’intero ciclo produttivo attuale è antitetico ai processi naturali. Dobbiamo renderci conto che viviamo in un mondo che non è infinito.
Molti ambientalisti fanno purtroppo l’errore di non considerare i limiti della biosfera, che non può né sopportare gli elementi che stanno alla base della crescita, ovvero la distruzione delle fonti primarie, né i rifiuti che questa crescita produce».

Ma a quale parte degli ambientalisti si riferisce?
«Ma sono tanti gli ambientalisti, anche sinceri, che però fanno questo errore e non tengono conto del fatto che il problema ambiente è estremamente complesso e che comporta scelte della politica economica tout court».

Ma forse è un approccio di una parte degli ambientalisti che, pur riconoscendo la complessità della crisi ambientale, rivolgono particolare attenzione ai problemi del surriscaldamento del pianeta, perché mettere mano alla soluzione di questi vuol dire anche affrontare in maniera complessiva i problemi della sostenibilità, non solo ambientale ma anche sociale ed etica. Per il petrolio si fanno anche delle guerre. Non crede?
«Le guerre del petrolio ci sono già e la carenza dell’acqua potrà portare anche a future guerre. Su questo ci lavora molto Petrella, per esempio, e delle guerre dell’acqua ne ha parlato anche Vandana Shiva».

Di fatto ci sono già, se si pensa alla guerra israelo-palestinese non si può tenere fuori tra le motivazioni anche quella del controllo dei pozzi idrici.
«Sì è vero. Il problema della carenza idrica in Medioriente è sicuramente un problema che ingenera conflitto. Ma per tornare al tema delle energie rinnovabili, io credo che gli ambientalisti che si occupano di questo argomento tendono a ridurre il problema solo a quello. E’ evidente che le energie rinnovabili servono se si vuole ridurre l’uso del petrolio, ma non ci si può limitare solo a questo, bisogna riconoscere che il problema ambiente è più complesso, e tenere presenti tutte le implicazioni. Ma a monte del modello energetico, come di tutte le altre cause dell’inquinamento e degli innumerevoli conflitti armati, ci sta il nodo centrale rappresentato dalla contraddizione tra il limite dell’ecosfera e la crescita continua, il modello economico e sociale capitalistico che si regge sull’accumulazione, cioè sulla crescita produttiva esponenziale, che significa da un lato consumo e degrado di risorse segnate da limiti precisi e non oltrepassabili, e dall’altro bisogno di quantità crescenti di energia».

Che si può fare per invertire la tendenza?
«Avere il coraggio di guardare il problema in tutta la sua complessità, porsi delle domande e cercare di dare delle risposte.
Fitoussi ad esempio è il primo grande economista dell’establishment, quindi non un economista ambientale, che afferma senza mezzi termini che l’attuale sistema produttivo produce crisi ambientali, anche se poi sfugge un po’ alla contraddizione tra i due sistemi e si affida per la loro soluzione alla crescita del sapere. Nel senso che il processo tecnologico potrebbe essere in grado di contenere questi danni. E quindi l’approccio è ancora quello che il danno si possa risolvere con le stesse modalità che nei fatti l’ha prodotto».

Ma lei non crede che l’innovazione tecnologica possa aiutare a risolvere i problemi della sostenibilità?
«Sì, può aiutare ma deve essere usata nella direzione giusta. Torno all’esempio delle energie rinnovabili, sono senz’altro utili, ma è sbagliato utilizzarle senza frenare la crescita produttiva illimitata che andrebbero ad alimentare».

Quindi lei è favorevole alla decrescita?
«Il termine decrescita non mi piace molto. È senza dubbio una frase molto sintetica e d’effetto, una sacrosanta provocazione. Ma credo sia meglio parlare di inversione e di cambiamento della logica produttiva, perché non è possibile pensare ad una crescita illimitata. Il consumismo ad esempio dovrebbe essere combattuto e messe a tacere quelle terribili pubblicità che spingono ai consumi facendoci credere di dare una mano all’economia, come quella che andava in onda qualche tempo fa con il tipo con il sacchetto che non faceva altro che partecipare al meccanismo dei consumi».