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Bisogna rieducare l’uomo ad essere felice

di Francesco Lamendola - 11/04/2016

Fonte: Il Corriere delle regioni


 


 

L’uomo è fatto per la gioia, per la felicità, pur passando attraverso la sofferenza, anzi, proprio passando attraverso di essa; e non c’è assolutamente niente di sbagliato in questo, perché il richiamo verso la felicità è un istinto naturale, permanente, costitutivo della persona umana, e quindi negarlo sarebbe follia ed equivarrebbe a condannare l’uomo ad una diurna, spossante, inutile lotta contro se stesso.

Detto questo, resta da vedere in che cosa consista e dove vada cercata questa misteriosa felicità che tutti agognano, ma così pochi riescono a trovare; e quei pochi, guarda caso, sono appunto coloro i quali hanno fatto la grande scoperta che essa si trova agli antipodi di dove i più pensano di cercarla, la inseguono, la assediano: nelle prove affrontate e superate con animo lieto, con cuore puro, con retta intenzione.

I più mettono ogni cura nell’evitare le difficoltà, le prove, le sofferenze, convinti che la felicità si trovi nella direzione opposta: e sbagliano. Coloro i quali hanno fatto l’esperienza di accogliere le prove con la giusta disposizione di spirito, al contrario, si sono accorti che lì, e proprio lì, si trova l’oggetto del desiderio universale, questa elusiva felicità di cui tutti parlano, che tutti vorrebbero afferrare per un lembo e tenere gelosamente presso di sé, così come l’avaro non vorrebbe mai più doversi staccare dai propri tesori.

Detto così, sembrerebbe quasi un paradosso: suona molto simile al dire che la ricchezza si trova presso colui che è ricco, o la saggezza, presso colui che è saggio; ma se gli uomini avessero già, in se stessi, la capacità di trasformare la sofferenza in gioia, allora – così, almeno, può sembrare – non vi sarebbe più nemmeno il bisogno di cercare la felicità, perché l’avremmo già in tasca. Sarebbe come dire che, per non aver fame, basta mangiare: questo è evidente; ma come può sfamarsi, colui che non ha neanche un pezzo di pane da mettere in bocca? Come si può dare una pacca sulla spalla a colui che soffre, e licenziarlo dicendogli semplicemente: «Va’, caro amico, va’ in pace e stai contento»?

Eppure, il paradosso si scioglie e diventa una verità accessibile a chiunque, non appena si aggiunga che l’uomo, da solo, non è capace di trasformare la sofferenza in serenità e in gioia, il dolore in pace dell’anima e consolazione; ma che egli lo può fare con l’aiuto di Dio, e offrendo a Dio la propria sofferenza, con umiltà e semplicità, deponendo l’orgoglio e il falso pudore, secondo le divine parole del Maestro: «Io sono la vera vite, e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota, perché porti ancora più frutto. […] Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può dar frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi sede non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi resta unito a me produce molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato» (Giov. 15, 1-7).

Da tutto ciò deriva una ovvia conseguenza: noi abbiamo dimenticato che cosa sia la felicità, perché ci siamo allontanati da Dio, e ci siamo dati a cercarla, sempre più affannosamente, là dove essa non si trova, perché lontano da Lui non vi è  alcun bene per l’uomo, ma solo illusioni di bene, che presto o tardi lo stancano, lo nauseano o lo tradiscono; per cui è necessario rieducare l’uomo alla felicità. Anche questo sembrerebbe un paradosso, dal momento che viviamo nell’età dell’edonismo per eccellenza: si direbbe che mai, come al giorno d’oggi, gli uomini singolarmente presi, e anche la società nel suo insieme, abbiano posto il fine dell’esistenza nella ricerca del piacere e della felicità (apparente), e mai si siano altrettanto impegnati nel conseguimento di un tale fine; eppure mai come oggi ne sono stati lontani, e di ciò si sono sempre più scoraggiati, fino a precipitare nelle torbide paludi dell’amarezza e della disperazione.

Rieducare l’uomo alla felicità: ecco il nostro prossimo compito! Mostrare dove essa si trova, come la si può raggiungere; e ciò, dopo aver mostrato dove essa non si trova, e per quali vie non la si potrà mai raggiungere, per quanto invitanti e promettenti esse possano apparire in un primo momento e per quanto sforzi si facciano per inseguirla e afferrarla.

Ci piace riportare, a questo proposito, una pagina dello psicologo spagnolo Narciso Irala, padre gesuita (nato il 7 febbraio 1896 e morto il 13 aprile 1988), già missionario in Asia e autore di un aureo libretto – libretto per modo di dire: sono 300 pagine di testo – che si può considerare un vero gioiello, per chiarezza e lucidità di esposizione, ovvero un classico dimenticato, o non sufficientemente conosciuto, che meriterebbe di essere riletto da quanti sono interessati al presente argomento (da: N. Irala, Il controllo del cervello e delle emozioni; titolo originale: Control cerebral y emozional, Bilbao, Editorial El Mensajero del Corazon de Jesus. Apartado 73; traduzione dalla 58a edizione spagnola corretta e ampliata  di Carlo Cumano; ultima edizione italiana riveduta e corretta dalla Prof. Lidia Cavaliere, Roma, Edizioni Paoline, 1967, pp. 23-25; 31-32):

 

La facciata del palazzo dove dimora la pseudo-felicità, o felicità apparente, ostenta piaceri, ricchezze, diversivi e via dicendo. Non è lì la felicità. Dall’interno del palazzo echeggiano senza posa queste voci: Vuoto, Inquietudine, Nausea. La ricchezza non basta a soddisfare; non bastò a soddisfare gli ottanta milionari che in un anno morirono suicidi negli Stati Uniti. Non è possibile confondere il piacere con la felicità; molti sono coloro che, per volerlo fare, si danno al vizio e vi trovano soltanto abiezione, disgusto, rimorso, more immatura e, forse, eterna dannazione. I piaceri smodati non appagano nessuno; una quantità di giovani sente il vuoto d’una vita priva d’ideali, che occorrerebbe riempire con la soddisfazione del dovere compiuto, del sacrificio volontario ad una nobile causa. Essi preferiscono mascherare quel vuoto sotto uno spesso strato di diversivi, imbottito di volgare ilarità e di sfrenata agitazione. Non è quella la via che conduce alla felicità.

La felicità vera può esser raffigurata come “una nobile Dama, tranquilla e riservata, che risiede nel castello dell’anima e conosce i suoi tesori e li accresce e li gusta. Sovente ella si lascia vedere al di fuori, attraverso le finestre del volto e mostra il sorriso, sfolgorante abbigliamento della creatura ragionevole, del quale non si possono ornare né gli animali né i fiori più belli”.

La felicità gioca a rimpiattino. Si nasconde quando la cerchiamo per egoismo e ci si mostra quando, dimentichi di noi stessi, ci rivolgiamo a quanto c’è di più nobile: il dovere, la virtù, il bene del prossimo, Dio. Gli avvenimenti la sfiorano appena. Poiché se da essi gli stolti traggono disperazione e tristezza, i saggi, invece, ne traggono rassegnazione, pace, allegria. Infatti è nella base o essenza di ogni essere e di ogni avvenimento che l’anima felice scopre ciò che dà loro unità e valore: il fine nobilissimo di aiutarci a glorificare il Creatore, infinitamente buono e bello e di unirci a Lui con perfetta felicità.

In questa s distinguiamo dalla felicitò chiassosa, falsa e volgare, la felicità intima, calma e profonda, basata sulla nobiltà; ne proponiamo tre meccanismi psichici, o fattori animici, che sono il pensare, il volere e il sentire; ne esponiamo quindi il complemento fisiologico nella espressione esteriore del sorriso; e dopo che l’avremo brevemente spiegata, ne trarremo una formula schematica.

La felicità è nobile. Non v’è felicità vera nel vizio, nell’abiezione, nei piaceri illeciti; la soddisfazione che questi procurano dura quanto un lampo, mentre che ad essi segue durerà ancora a lungo.

Le intime ansie di vera grandezza, come la vera morale, ne vengono inibite o contrastate.

Né la felicità si può basare sulle ricchezze, sui piaceri, sul potere. Questi possono solo favorire temporaneamente tendenze meno nobili, ma non possono offrire alla coscienza una realtà che la soddisfi. Chi aspirava a 100, una volta ottenuto, anela a 10.000 e poi a 100.000. La soddisfazione che a mano a mano ne ha ricevuto è stata superficiale e passeggera ed ha lasciato vuoto lo strato più profondo dell’anima. Molti milionari, sentendo questo vuoto, od oppressi dalle preoccupazioni, rimpiangono gli anni ella loro faticosa gioventù. Spesso c’è più pace e gioia tra i poveri, non in miseria, che tra i ricchi e i potenti.

La felicità è tranquilla e raccolta. La felicità vera non si trova nell’agitazione e nel disordine; si trova nel più intimo dell’essere ragionevole e consiste in una soddisfazione profonda, basata su di una pace che nulla può turbare. […]

Non sono gi avvenimenti che procurano la felicità; un medesimo evento, infatti, è occasione per gli uni di rassegnazione, di pace, di gioia, e per gli altri di tristezza, di disperazione.

 va cercando la felicità nel vizio, nella vanità, nel disordine, ossia dove non è, dovrà cominciare col rimettersi sulla via del dovere e della virtù; le letture di educazione morale ed ascetica lo guideranno nella giusta direzione. In questo libro ci proponiamo di venire in aiuto a quegli uomini di buona volontà che, pur camminando sulla retta via, non sono felici quanto dovrebbero, perché non comprendono, o non sanno opportunamente usare, i meccanismi psichici atti a procurar loro unità e pienezza di vita nel momento presente.

Alcuni mancano di chiarezza e di precisione nelle percezioni sensorie; non si rendono esatto conto di ciò che vedono e di ciò che fanno, non permettono ch’entrino in loro la pace, la gioia, il godimento estetico. Altri si dimostrano incapaci d’ottenere il riposo, la profondità di pensiero, il piacere e l’efficienza che procura un ben ordinato lavoro mentale, per eccessiva stanchezza o per distrazione mentale. Altri ancora sono dominati da un senso d’irresolutezza e d’incostanza, non si sanno valere della forza immensa della volontà. Molti, infine, si rendono schiavi di antipatie, di ripugnanze, di attrazioni, di inclinazioni che li distolgono dal loro dovere; patiscono di malinconie, di timori, di sofferenze esagerate; il meccanismo emotivo in essi non funziona. Sarà dunque opportuno che facciamo la conoscenza di queste quattro facoltà, o meccanismi psichici, per metterci in grado di controllare e di accrescere la nostra felicità. […]

La stanchezza, la debolezza, il malessere, non sono dovuti all’immaginazione del paziente.  Costituiscono una malattia vera e penosa, che, in genere, non ha cause organiche, ma psichiche. Difficilmente viene compresa da coloro che non ne soffrono. Perciò chi ne va soggetto non speri nella comprensione altrui: si risparmierà profonde delusioni.

 

Certo, sono concetti molti semplici: almeno in apparenza. Ma la verità  è più semplice di quel che non si creda; e la ragione naturale, quasi sempre alleata del buon senso (inteso nel significato migliore dell’espressione), ci indicherebbe, se noi non fossimo completamene sviati, la giusta direzione da tenere nel cammino della vita. In effetti, la ragione si è rivolta contro di noi, per il cattivo uso che ne abbiamo fatto, a partire da quando abbiamo deciso di doverla separare nettamente dalla fede, e, infine, di doverla contrapporre alla fede, quasi che sia cosa impossibile conciliare le due dimensioni, quella razionale e quella religiosa, e quasi che solo la prima sia suscettibile di darci le risposte che cerchiamo, grazie al suo carattere di oggettività e dimostrabilità. Quanta cattiva filosofia, quanto esistenzialismo d’accatto, quante compiaciute sofisticherie, quanto nichilismo strisciante, quanto relativismo interessato e furbesco, mirante a scusare tutti i nostri vizi, le nostre cattive tendenze, hanno sepolto la nostra sana ragione naturale, ed estromesso la fede dal palazzo della nostra anima! E in cambio di che cosa, poi? Ci siamo forse avvicinati d’un passo ad una maggiore comprensione delle cose, del mondo, degli altri, o anche solamente di noi stessi? O non è forse vero il contrario: che ce ne siamo allontanati in progressione esponenziale, quanto più ci siamo affidati ai cattivi consigli di questa ragione malata, asfittica, presuntuosa, disconoscendo il ruolo della volontà e della  sensibilità e gettando via da noi, come cosa inutile e perfino molesta, quella facoltà razionale che oltrepassa la ragione stessa, ma senza negarla, e che si concilia con essa, fin dove le loro strade procedono parallele, rafforzando, anzi, i giudizi della ragione naturale, ampliando la nostra prospettiva e potenziando la nostra facoltà visiva?

Dobbiamo, perciò, ripartire da zero; dobbiamo rieducarci alla felicità, come dei bambini che non sanno nulla: peggio, come dei bambini viziati che hanno scambiato la soddisfazione dei loro capricci e delle loro fugaci fantasie per ciò che di più alto esiste al mondo e per ciò che di più nobile e prezioso si può ottenere dalla vita. Ci vuole, innanzitutto, un bagno di umiltà e un ritorno al buon senso istintivo dei nostri nonni, che vivevano sereni anche nel poco, né si affliggevano, come noi, per la smania di avere sempre di più. Dobbiamo spezzare le catene del diabolico consumismo…