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La buona novella della modernità è un gioioso inno escrementizio?

di Francesco Lamendola - 20/04/2016

La buona novella della modernità è un gioioso inno escrementizio?

Fonte: Il Corriere delle regioni

In che cosa crede, la modernità? Pronta risposta dei suoi accesi fautori: essa crede nell’Uomo, nella sua Intelligenza, nella sua Libertà, nel suo Dominio sul mondo, e, naturalmente, nei suoi Diritti, perenni e universali, norma suprema etica, giuridica, filosofica. Benissimo: ma in quale Uomo crede, la modernità? Altrettanto pronta risposta: nell’Uomo come totalità, come spirito e come corpo. Anzi, se proprio vogliamo dirla tutta, specialmente come corpo: perché lo spirito nessuno sa bene cosa sia, e poi somiglia troppo al concetto di “anima”, di origine platonica e cristiana e, quindi, sovranamente aborrito dalla cultura moderna, che è materialista per definizione; mentre il corpo, ecco, è tutta un’altra cosa: qui può liberamente agire il Logos strumentale e calcolante, può ringiovanirlo, curarlo, togliergli le rughe, dargli delle protesi, fargli cambiare sesso, clonarlo, fecondarlo artificialmente, selezionarne in anticipo i cromosomi, insomma programmarlo a piacimento. E su quel terreno, sì, che la modernità si sente a casa propria.

Ora, il corpo è il corpo: non ci sono parti nobili e meno nobili; il corpo è tutto ugualmente da ammirare, contemplare, magnificare, adorare: dalla più piccola cellula fino all’organismo completo (a parte il feto, che non è considerato altrettanto nobile, né prezioso, e che si può tranquillamente eliminare, se ciò rientra nei disegni dell’uomo medesimo). Il logico corollario di tutto questo è che ogni cosa corporea, ogni ghiandola, ogni secrezione, ogni prodotto di rifiuto, anche il vomito e gli escrementi, tutto in esso deve essere accettato, glorificato, considerato come una nobile appendice dell’insieme: opinare diversamente, significherebbe, appunto, ricadere nel manifesto peccato di spiritualismo, ossia di tradimento contro il corpo. E sappiano bene quanti traumi, quante nevrosi, quanti complessi, quante depressioni e alcolismi e tentati suicidi, si sono verificati e si verificano tuttora, a causa dell’atteggiamento fobico, malsano, castrante, dei genitori nei confronti degli escrementi e dell’attrazione che essi esercitano sul bambino! No, così non va bene: il bambini deve crescere libero, senza complessi, senza misteri, senza cose nascoste: se vuole rotolarsi negli escrementi, deve poterlo fare; non si deve trasmettergli l’idea, aberrante e cattolica, che in lui c’è qualcosa di non buono, qualcosa di sbagliato, qualcosa di sporco.

E dunque, evviva gli escrementi e la loro marcia trionfale nel corso della storia! Che cosa sarebbero le vicende dell’umanità, senza la gioia vitale data dalla defecazione, e, quel che più conta, senza un rapporto libero, armonioso, non complessato nei confronti dei suoi prodotti? Forse che Alessandro Magno avrebbe conquistato l’Impero persiano, se, da piccino, la nutrice gli avesse insegnato l’orrore per la cacca? E Pitagora, avrebbe mai formulato il suo geniale teorema, se il suo pedagogo, con intollerabile moralismo e raffinatissima ipocrisia, gli avesse severamente negato le gioie impagabili che derivano dal rovistare indisturbati nella propria merda? Via: è evidente che qualunque reale progresso dell’umanità presuppone un rapporto libero e gioioso con il corpo, con tutto il corpo, e non solo con le parti ammesse dai bacchettoni e dai perbenisti; e che, se si vuole essere giusti verso le minoranze perseguitate, vendicare i diritti lungamente conculcati e chiamare a raccolta tutti gli autentici libertari, insofferenti di gioghi e di catene, sia materiali che morali, non vi è cosa migliore da fare, più bella e più gioconda, più benemerita verso le generazioni future, che intonare tutti insieme un esultante, incontenibile inno agli escrementi, sintesi e bacino collettore di tutte le meraviglie della modernità, dal darwinismo alla psicanalisi e dal surrealismo alla cibernetica; e poi marciare, a squadre compatte, dietro i vessilli escrementizi che garriscono al vento, simboli trionfanti della liberazione da ogni cupa inibizione del passato. Del resto, il bravo James Joyce non ci accompagna oltre la porta del bagno in cui Leopold Bloom si reca per defecare, nell’Ulysses, descrivendoci anche gli odori che ineffabilmente si sprigionano?

Queste riflessioni ci sorgevano spontanee alla mente, leggendo un classico – nel suo genere – del pensiero moderno: La vita contro la morte di Norman O. Brown, il quale - ci informa la didascalia dell’editore – è considerato, insieme a Eros e Civiltà di Marcuse, una tappa fondamentale (!) della nostra cultura; una meditazione sul significato psicanalitico della storia, in cui Brown utilizza l’ultimo Freud e le sue teorie sul rapporto tra istinto di vita e istinto di morte, tra Eros e Thanatos;  e che vede la storia come il riflesso della tensione conflittuale tra principio di realtà e principio di piacere, una tensione insieme drammatica e dialettica, dietro la quale, pur in presenza delle evidenti vittorie dell’istinto di morte, si può cogliere – niente di meno! – “un radicale disegno di liberazione”. Bellissima, quest’ultima frase; sarebbe da mettere in cornice: un radicale disegno di liberazione! Perfetto surrogato del linguaggio teologico nel clima post-sessantottino, ancora pregno di umori libertari, rivoluzionari, femministi, psicanalisti, neomarxisti, surrealisti, esistenzialisti, strutturalisti, decostruttivisti, omosessualisti, e Dio sa con quanti altri -isti si potrebbe andare avanti, per pagine e pagine, senza arrivare mai a esaurire il nobile repertorio progressista.

Diciamo la verità: quando abbiamo scritto l’articolo Nella degradazione fecale degli Yahoos, Swift frusta a sangue l’orgoglio della modernità (pubblicato su Il Corriere delle Regioni in data 14/10/2015), non avremmo certo immaginato tutte le possibili conseguenze, non avendo ancora meditato a sufficienza su questo ineffabile argomento, né avevamo colto sino in fondo la portata globale, storica, anzi, cosmica, del ragionamento di Norman O. Brown: e cioè che, se alcuni scrittori, come Jonathan Swift, e alcuni filosofi, come George Berkeley, hanno lanciato un grido di allarme, e forse di disgusto, davanti alla fecale (e ferale) presunzione della modernità, non l’hanno certo fatto, come noi pensavamo ingenuamente, per denunciare la deriva d’una Ragione presuntuosa e narcisista, bensì, come sostengono tutti i Brown della modernità, in quanto vittime essi stessi, per primi, di quella inibizione, di quella barbara repressione anale che caratterizza la tirannia del Super-io e la sciagurata educazione autoritaria e puritana, rea di voler insegnare ai bambini che la cacca è cacca e che, dopo averla fatta, bisogna prenderne un poco le distanze, pulirsi ed eliminarla, se possibile anche sotto forma di odori (aerando i locali interessati), prima di rientrare in seno al consorzio civile. Oh, no: Swift e Berkeley sono, entrambi, il paradigma vivente della repressione sessuale, della catastrofica inibizione fecale e, quindi, il loro carattere “anale”, cioè il carattere anale delle loro opere e del loro pensiero, altro non è, e altro non testimonia, se non la loro infelice condizione di poveri zimbelli di una perfida congiura educativa contro la cosa forse più bella che esista al mondo: quel colorato, odoroso, consistente e, ammettiamolo!, sbarazzino prodotto della defecazione, peraltro innocente come un bimbo appena nato, che attesta, nella sua smagliante, primitiva semplicità, quanto sia vicino l’uomo alla natura, se solo si dimentica, per un attimo, dell’ingrato dovere sociale di rialzarsi le mutande e di ripulire, per quanto possibile, il glorioso orifizio che ha consentito il passaggio a tanto messaggero.

Ineffabile Norman O. Brown! E sì che il gran padre Freud era lì, che ci indicava chiaramente la strada; pazzi e ciechi noi, che non avevamo voluto vederla; che ci siamo accontentati di fermarci ai primi passi, credendo d’aver capito, quando, invece, non avevamo capito nulla! Loro sì, i Freud e i Brown, hanno ben capito come stanno le cose, come va il mondo: la merda è quella santa e bella cosa che restituisce all’uomo la sua corporeità, la sua terrestrità; che lo immerge felicemente nell’armonia del creato, che lo rende ai suoi sani istinti naturali, e lo libera da tabù, complessi e falsi principi educativi, i quali vorrebbero imporgli carta igienica, sciacquone, bidet e chissà quali altre orribili torture, per privarlo dei piaceri più innocenti, come quello di sguazzare felicemente in mezzo agli escrementi, novello Adamo ricondotto all’Eden mai dimenticato!

Ecco, dunque, come Norman O. Brown si esprime, a proposito della “filosofia” degli Yahoos e della filosofia (quest’ultima, senza le virgolette) di George Berkeley, nel suo classico sopra citato La vita contro la morte (titolo originale: Life against Death, Middleton, Connecticut, Wesleyan University, 1959; traduzione di Silvia Giacomoni, Milano, Bompiani, 1986, pp. 330-331):

 

In ultima analisi, il particolare fascino esercitato sull’uomo dagli escrementi è il particolare fascino esercitato su di lui dalla morte. Freud comprese che la regressione della libido dalla fase genitale a quella sadico-anale rappresenta ciò che egli chiama “disimpasto” degli istinti, uno squilibrio nel rapporto tra istinto di vita e istinto di morte, tale che l’istinto di morte ha il sopravvento. E poiché tutte le sublimazioni umane rappresentano un morire del corpo, tutte le sublimazioni, di qualunque tipo siano, devino passare attraverso il complesso anale; con la dialettica della negazione e il complesso del rimosso, la negazione dell’analità infantile costituisce un carattere anale a tutta la vita della cultura. Sono quindi legittime le stravaganti pretese della psicoanalisi di trovar l’analità  dietro a tutta l’arte, la scienza e così via; man non hanno alcun significato se non sono formulate alla luce dell’istinto di morte. Gli escrementi sono la vita morta del corpo, e fino a che l’umanità preferirà  la vita morta al vivere, essa dovrà trattare come escrementi non solo il proprio corpo, ma anche il circostante mondo degli oggetti, riducendo tutto a materiale inerte e a quantità inorganiche.  La nostra tanto vantata “oggettività” nei confronti del nostro corpo, degli altri e dell’universo, la nostra”razionalità”  calcolatrice, da un punto di vista psicoanalitico  è un’ambivalente mescolanza di amore e di odio, un atteggiamento adatto soltanto di fronte agli escrementi e appropriato soltanto a un animale che ha perso il proprio corpo e la propria vita.

Quanti profondamente l’uomo Yhaoo abbia avvelenato la sua intera concezione della natura ce lo mostra il fatto che il concetto scientifico e filosofico di “materia”è, dal punto di vista psicoanalitico, radicalmente contaminato  dalla fantasia escrementale. O. W. Wisdom  ha tirato fuori dal cassetto, dove l’avevano sepolta i filosofi,  l’opera di Berkeley: Siris: una serie di riflessioni filosofiche e di indagini sulle virtù  della catramina [“Siris: A Chain of Philosophical Reflexions and Inquiries Concerning the Virtues  of Tar-Water”]; come medicinale la catramina è, secondo Berkeley,  “un potente e innocuo decostruente” e dal punto di vista metafisico è simile a quella “luce che non può essere corrotta da alcun tipo di sporcizia che rappresenta una penetrazione divina in questo mondo inferiore.  Wisdom ha dimostrato il carattere escrementale della “materia” nella immaginazione filosofica berkeleiana; ma sfortunatamente, poiché dà ai filosofi una scusa per ignorare la sua dimostrazione, egli svaluta la propria scoperta affermando di non avere alcuna intenzione di impugnare la validità  la filosofia di Berkeley e limitando la funzione della psicoanalisi all’indagine sulle origini di tale filosofia.

La nostra interpretazione della psicanalisi non può accettare tale separazione tra le origini di un’opera e la sua validità; Wisdom  commette lo stesso errore dei critici psicoanalitici di Swift.  Ciò ch’egli ha di fronte non è il carattere anale del solo Berkeley, ma il carattere anale della tradizione filosofica occidentale, o piuttosto il carattere anale dell’uomo…

 

Ben detto, Norman O. Brown: perché fermarsi, come un qualunque, timido Wisdom, a rilevare il carattere anale della filosofia immaterialista di Berkeley, il quale osa suggerire l’uso dell’acqua di catrame per decongestionare l’intestino, in omaggio al suo evidente odio contro tutto ciò che è materiale, quando si può benissimo tirare una conclusione di carattere assai più generale, anzi, decisamente universale, e cioè che tutta l’arte, la scienza e ciò che l’uomo ha fatto, scritto, pensato e creato dagli albori della storia, riflette il suo incorreggibile sadismo anale, il suo folle disprezzo per il corpo e la materia? Del resto, non fa una grinza: per la psico-polizia freudiana, gli uomini detestano ciò che, in fondo, amano, e vilipendono ciò che, inconfessabilmente, desiderano: dunque, come negare che dietro tanta avversione per la materia, il corpo, le feci, da Platone in poi, vi sia un prepotente istinto d’insozzarsi e rotolarsi in mezzo alla cacca? Ah, se solo potesse sfogarsi! Se solo le mamme smettessero d’insegnare ai loro pargoli che ci si deve pulire, dopo aver fatto i bisogni grossi! Non è forse chiaro che il mondo ne trarrebbe sollievo, e che lettere, scienze e arti farebbero un gigantesco balzo in avanti, finalmente rappacificate con gl’istinti fecali dell’umanità? Ecco, dunque, cos’hanno tralasciato d’insegnare i valorosi pedagogisti libertari del ‘900: la riconciliazione colla merda, la sua piena accettazione, la sua ostensione a simbolo supremo della civiltà moderna…