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Caute ipotesi sul futuro della democrazia, dell'indipendenza nazionale, della religione, della filosofia

di Costanzo Preve - 11/05/2016

Caute ipotesi sul futuro della democrazia, dell'indipendenza nazionale, della religione, della filosofia

Fonte: Italicum

L'imprevedibilità della storia. Dalla storia meccanicistica ed ingegneristica del progresso alla storia aperta ed aporetica della libertà

Nei capitoli precedenti ho fatto ripetutamente rilevare che il principio di prevedibilità, o se si vuole di calcolabilità (Berechenbarkeit) é stato individuato da Max Weber come un principio, ad un tempo epistemologico e metafisico (ma I'epistemologia in ultima istanza non è che una metafisica della scienza), specifico della tradizione occidentale e poi in qualche modo "universalizzato" dalla produzione capitalistica estesa al mondo intero prima dal colonialismo e poi dall'imperialismo.

A prima vista questa tesi di Max Weber può sembrare esagerata. Il principio di prevedibilità sembra infatti far parte di una costante razionale dei comportamenti umani, al punto che il concetto greco di saggezza (sophrosyne, che in latino diventa prudentia) si distingue dal concetto di sapienza (sophia), proprio perché il sapiente sa molte cose, ma solo il saggio è in grado ai prevedere correttamente le conseguenze di comportamenti umani affrettati e poco meditati. La sapienza si ottiene dai libri e dalle conversazioni con i sapienti più anziani, ma la saggezza si può ottenere soltanto con I'esperienza di vita. Gli antichi testi erotici indiani e gli antichi testi cinesi di arte della guerra si basano entrambi sulla prevedibilità dei comportamenti umani.

E tuttavia la tesi di Max Weber resta nell'essenziale corretta. L'arte della prevedibilità nel mondo antico ed orientale si basava sullo studio sistematico delle costanti comportamentali della natura umana, come del resto avviene nei romanzi polizieschi di Agatha Christie. L'arte della prevedibilità del decorso delle malattie sta alla base della costituzione della scienza medica, ed i retori antichi erano maestri nel prevedere i comportamenti delle giurie popolari. La prevedibilità di cui parla invece Max Weber ha invece due aspetti specifici: come calcolabilità essa regge i comportamenti dell'imprenditore capitalistico; come prevedibilità in senso propriamente concettuale determina un certo modo occidentale di concepire il corso dell'intera storia mondiale, e si configura come una metafisica del progresso, più propriamente una metafisica della prevedibilità del progresso stesso.

 

Si tratta di un punto cruciale. Nella tradizione filosofica occidentale della critica al marxismo come "anomalia metafisica" da eliminare, il marxismo è generalmente connotato (secondo la formula insuperabile di Karl Loewith) come una secolarizzazione dell'escatologia giudaico-cristiana nel moderno linguaggio dell'economia politica. La formula è affascinante, perché suggerisce che il marxismo, religione atea che intende abolire la vecchia divinità trascendente per sostituirgli la nuova divinizzazione della storia universale, scambia I'aldilà religioso con I'aldiquà terreno, prendendo atto del fatto che la nuova teoria darwiniana dell'evoluzione e le nuove scoperte astrofisiche "scacciano" Dio dal cielo. Credo però che Loewith abbia torto nella sostanza, perché sopravvaluta I'importanza del ruolo del messianesimo e della escatologia nella costituzione storica del tessuto teorico del marxismo. Sembra infatti che pensatori isolatissimi come Walter Benjamin ed Ernst Bloch abbiano caratterizzato il marxismo novecentesco, anziché esser marginalizzati, ignorati e perseguitati dai burocrati. Chi ha infatti conosciuto il comunismo storico realmente esistito (e non quello platonico eterno mai calato nella realtà), composto da una sinergia esplosiva fra direzioni ciniche e nichilistiche e basi subalterne e fideistiche, sa bene che Loewith si confronta con un idealtipo costruito su basi esclusivamente teoriche. Nella pratica il marxismo è sempre e solo stato una variante di sinistra del positivismo ottocentesco, e per questa ragione le sue radici metafisiche non stanno tanto nell'idea di riscatto finale apocalittico del mondo, quanto nell'estremizzazione dell' idea illuministica e positivistica (e quindi "borghese" al cento per cento) di prevedibilità del progresso. Il progresso è prevedibile, ed anzi è prevedibile con una certa sicurezza, e la transizione necessaria ed inevitabile dal capitalismo al socialismo si inserisce proprio in questa idea-forza della prevedibilità del progresso.

La subalternità del marxismo storicamente sistematizzato da Engels e da Kautsky al pensiero borghese progressista classico è a mio avviso uno dei sintomi della sua non "universalità", o se si vuole usare un'espressione più cauta, dei difetti strutturali della sua vocazione universalistica soggettivamente sincera. Nel primo capitolo di questo saggio ho già rilevato come I'universalizzazione salvifica del concetto di Classe (più esattamente della triade di classe operaia, salariata e proletaria) non è che un episodio della crisi dell'universalismo occidentalistico, e non c'è allora bisogno di ritornarci sopra. Voglio invece tornare all'aspetto principale della questione, che è quello della necessità dell'abbandono del concetto di prevedibilità della storia. Se infatti l'epoca dell'egemonia del concetto di prevedibilità della storia diventerà una parentesi, sia pure nobile éd importante, della storia mondiale, avremo messo le basi per un vero pensiero del futuro. La prevedibilità borghese (la nozione di progresso in generale) e la prevedibilità proletaria (la nozione di progresso applicata al passaggio necessario dal capitalismo egoista al comunismo solidale) sono infatti semplici varianti di un solo ed, unico concetto.

 

Detto questo, per non lasciare equivoci, non sostengo e non condivido le concezioni che alla nozione lineare di progresso storico hanno sostituito una nozione ciclica di storia come teatro di ritorni (Julius Evola, Réné Guénon, eccetera). La rappresentazione spaziale di storia come lineare e la (solo apparentemente) opposta rappresentazione spaziale di storia come circolo sono in entrambi i casi rappresentazioni spaziali, e la spazializzazione del tempo a mio avviso è sempre fonte di illusioni e di miraggi. Si tratta tuttora di fare uno sforzo di immaginazione e di liberarsi dall'incantesimo della rappresentazione spaziale della temporalità, in direzione di un' altra configurazione concettuale.

La storia è il luogo della libertà umana, una libertà ovviamente che si esplica all'interno dei condizionamenti della natura e dell'eredità biologica e genetica dell'uomo. L'uomo è un animale libero perché è un animale "generico", e genericità significa possibilità e capacità di progettare costellazioni sociali e politiche diverse, dal fascismo di Mussolini al comunismo di Stalin, dalla monarchia faraonica egizia alla democrazia dell' Atene di Pericle, eccetera. L'ideologia americanista contemporanea non è una idea filosoficamente universalistica (e quindi "genericistica", di libertà), ma un'idea proprietaria. Gli USA si considerano infatti proprietari della libertà e della democrazia. Nel pensiero greco la libertà poteva essere concepita sia come libertà civile e politica, e quindi come libertà comunitaria (eleutheria), sia come capacità in atto di autodeterminazione umana (autopraghìa). In questo secondo significato, per usare le parole di Aristotele, "I'uomo è il principio ed il padre dei suoi arti, come dei suoi figli". Non si poteva dire meglio. Ho segnalato nel primo capitolo come il concetto politico di libertà sia una complessa sintesi di libertà civile, libertà signorile e libertà personale. Se innestiamo in questo concetto politico il concetto filosofico di libera autodeterminazione (autopraghìa), appare chiaro che I'autodeterminazione comprende anche l'eterodeterminazione prodotta dalle malattie e dalle catastrofi naturali tipo terremoti e tsunami, (che sono però anche esse pienamente, "sociali" nel loro modo di essere affrontate), sia che si tratti di una eterodeterminazione economica (presunte leggi del mercato), sia infine che si tratti di una eterodeterminazione storica (presunte leggi della storia che portano I'umanità verso il comunismo). Storicismo comunista ed economicismo neoliberale sembrano apparentemente opposti, ma sono in realtà una cosa sola. Per questa ragione la riconversione dallo storicismo comunista all'economicismo neoliberale è così facile, ed abbiamo davanti a noi migliaia di esempi che ci ghignano addosso dagli schermi televisivi o ci strologano con insopportabile prosopopea dalle tribune lottizzate del corrotto mondo dei cosiddetti "colti".

Sopportarli è duro, ma non ho dubbi in proposito. Il loro ghigno ed il loro strologare dureranno ancora a lungo, ma non indefinitivamente. È un vero peccato non esserci più quando la storia si prenderà la rivincita contro questi mutanti del pensiero e della morale.

 

Caute ipotesi sul futuro della democrazia nell'attuale contesto storico

 

Non viviamo assolutamente in democrazia. Nelle società occidentali la democrazia oggi non c'è da nessuna parte. Possiamo definire (ma è poi così importante abbandonarsi ad una maniacale pulsione definitoria?) le società in cui viviamo società liberali a moderata correzione egualitaria, oppure plutocrazie legittimate di tanto in tanto da referendum travestiti da competizioni elettorali truccate e manipolate, oppure società oligarchiche in cui il suffragio universale non è per nulla sovrano, perché la sovranità, cioè il potere, è completamente nelle mani di cricche finanziarie in parte competitive ed in parte associate. Comunque, la "democrazia" non c'è, e chi la agita agita un mito, oppure un legittimo progetto politico di attivizzazione, partecipazione e mobilitazione delle masse. Paradossalmente, se volessimo veramente definire oggi la democrazia, dovremmo definirla in termini di populismo comunitario, esattamente la definizione che è respinta con grandi e gridolini di virtuoso orrore conformistico da tutte la classe politica, universitaria e più in generale del ceto intellettuale politicamente corretto (o corrotto, che suona meglio).

 

Questa mia tesi così recisa potrà sembrare al lettore eccessiva ed estremistica. Il solo modo per mostrargli che così non è sta nel disegnare una breve ricostruzione del significato del termine nella tradizione occidentale moderna, che inevitabilmente ci riconduce anche agli antichi greci.

Etimologicamente, "democrazia" non significa semplicemente potere del popolo, che in greco si direbbe laokratia, ma potere politico (cioè decisionale) del popolo organizzato in circoscrizioni elettorali (demi). Questa distinzione non è affatto di lana caprina, perché per indicare la semplice democrazia decisionale diretta di tutti coloro che vanno in assemblea senza precedenti mediazioni si dovrebbe usare solo la parola "laocrazia". Le forme di democrazia assembleare in cui decidono i presenti, e gli assenti non vengono computati e presi in considerazione, sono laocratiche e non democratiche. La democrazia ateniese, da Clistene a Pericle, è frutto di un approccio razionalistico (e quindi filosofico e non religioso) alla lotta di classe antica, che era in effetti una forma selvaggia di distruzione integrale della comunità, con i poveri che sgozzavano i ricchi e viceversa. Gli ateniesi intesero con la loro "democrazia" garantire comunque il potere dei poveri, ma lo regolarono mescolando le varie classi sociali in circoscrizioni elettorali eterogenee, in cui venivano artificialmente uniti i ricchi abitanti della costa (paraliaci), i benestanti abitanti della pianura (pediaci) e infine i più poveri abitanti della montagna (acriti). Si intende, ovviamente, abitanti della costa, della pianura e della montagna dell'Attica, che nel suo insieme costituiva la polis di Atene.

Il potere dei più poveri era reso possibile dal fatto che a quei tempi, per usare il termine di Karl Polanyi, l'economia era "incorporata" (embedded) nella politica, e quindi la decisione politica spostava immediatamente gigantesche ricorse economiche. Per fare un esempio un po' paradossale, sarebbe come se oggi il popolo inteso come corpo elettorale venisse chiamato a decidere non solo sull'irrilevante e pagliaccesca sostituzione di ceti politici professionali largamente omogenei al di là della maschera carnevalesca identitaria messa in atto per galvanizzare elettori e militanti rincoglioniti (abbasso B ! viva Bo e via farneticando), ma anche e soprattutto sulla diretta destinazione di gigantesche risorse economiche, la cui sovranità è oggi demandata a piccole cricche di banchieri, paperoni, azionisti ed altri banditi in guanti gialli.

 

Che la democrazia fosse il potere politico della maggioranza, che era anche la maggioranza dei più poveri, era talmente chiaro agli antichi che addirittura Aristotele definì in questo modo la democrazia come forma di governo. Per questa ragione gli antichi romani, rappresentanti dell'unità geopolitica delle classi schiavistiche antiche, odiavano ferocemente la democrazia e la abbattevano subito dovunque arrivavano. Del resto che la democrazia fosse non una forma di governo o di stato, ma una forma di potere politico di parte era perfettamente chiaro al liberale Benedetto Croce, che scrisse papale papale che bisognava avere ben chiaro che la "democrazia" non è un regime politico, ma un modo di essere dei rapporti di classe sbilanciato in direzione della "prevalenza del demos". In un recente studio illuminante sul concetto di democrazia (più esattamente, sulla democrazia come ideologia), Luciano Canfora chiarisce che la democrazia non è e non può essere una forma di costituzione, ma che essa è presente nelle più diverse forme politico-costituzionali, dove e quando si fa sentire con efficacia I'azione della parte popolare. Questa "democrazia", ovviamente, non è incompatibile con gli interessi specifici di gruppi privilegiati di "rappresentanti" degli interessi popolari (dal gruppo di Pericle nell'antica Atene al gruppo di Stalin nell'URSS burocratica, eccetera), gruppi privilegiati che esistono semplicemente perché il demos, nella sua antropologica e tribale subalternità, non è assolutamente in grado di amministrarsi del tutto da solo (e non vi è qui nessuna differenza di principio fra la classe artigianale ateniese antica e la classe operaia sovietica moderna). Nello stesso tempo i teorici delle élites, che sostengono che il potere del popolo non ci può essere ma al massimo ci può essere soltanto la circolazione e la sostituzione delle élites stesse, non colgono I'essenza del problema, perché è certamente vero che a governare sono sempre e solo delle élites, ma è anche vero che a volte queste élites sono al servizio del demos vociante, invidioso e livellatore dei poveracci ed a volte sono invece al servizio della classe schizzinosa, altezzosa e con la puzza al naso dei miliardari profumati. Servire il contadino Giuseppe o l'operaio Giovanni non è come servire Cordero di Montezemolo o l'avvocato monarca con I'orologio sul polsino.

Vi sono dunque costituzioni liberali, costituzioni socialiste e soprattutto costituzioni "miste" liberali e socialiste. Costituzioni democratiche invece non ce ne possono essere per definizione, in quanto la democrazia non è mai una forma, ma solo un contenuto, e vive solo quando c'è una partecipazione attiva non certo al rito elettorale, ma alla decisione sulla configurazione dei rapporti di classe in favore dei più poveri, o di come altrimenti li vogliamo chiamare. Bisogna infatti ristabilire rigorosamente il significato dei termini politici, dopo che decenni di egemonia della scuola politologica di Norberto Bobbio ha confuso le carte riducendo la democrazia ad un sistema di forme istituzionali laddove, si tratta invece di una manifestazione organizzata del potere reale dei poveri.

 

Il ristabilimento di questi significati elementari del termine, "democrazia", che la demagogia elettoralistica dei politicanti, la retorica sistemica del corrottissimo circo mediatico ed infine l'ipocrisia paludata della corporazione accademica dei politologi politicamente corretti, ieri francofoni ed oggi anglofoni, eccetera, hanno ricoperto di una indegna e ridicola cortina fumogena, per cui l' "oligarchia plebiscitaria" (Bush, Berlusconi, eccetera) è diventata "democrazia", non significa automaticamente che i poveri, o se vogliamo i più poveri, siano poi capaci di autogovernarsi da soli senza la mediazione di gruppi di specialisti politici organizzati (partito informale di Pericle, partito giacobino di Robespierre, partito comunista di Stalin, eccetera). La storia ha fino ad oggi (ma domani chissà - come ho detto, la storia è sostanzialmente imprevedibile) ampiamente dimostrato la pittoresca e totale incapacità dei poveri di autogovernarsi al di là dei primi giorni di festoso saccheggio e di crudele resa dei conti con gli sfruttatori. Lenin riteneva che anche la cuoca potesse dirigere lo stato, una volta distrutte le differenze di classe, da cui provenivano le complicazioni specialistiche della distribuzione diseguale e la necessità di gestione di complicati apparati repressivi per tenere i poveracci, gli schiavi, i plebei e gli operai al loro posto. Finita la divisione in classi, la società sarebbe divenuta omogenea come una normale famiglia, i cui genitori (che Lenin evidentemente immaginava come padre operaio metallurgico e madre cuoca) sono perfettamente in grado di distribuire correttamente ai suoceri anziani ed ai figli giovani le risorse disponibili, conservandone anche una parte per i possibili futuri tempi difficili. Oggi è di moda sghignazzare su questa utopia di Lenin, ma io non mi unisco alla tribù dei rinnegati sghignazzatori. Ritengo semplicemente questa utopia prematura. I cosiddetti "poveri" possono a mio avviso esclusivamente essere "rappresentati" da apparati "democratici", indipendentemente dalle forme di governo e di stato (Kim Il Sung, Mugabe, Castro, la benemerita giunta militare del Myammar, eccetera), anche se ovviamente questo bisogno di rappresentanza comporta necessariamente la formazione di strati differenziati che dispongono di un monopolio di fatto del sapere e del potere (più esattamente, del potere in quanto lo hanno precedentemente acquisito in termini di sapere). Se i trotzkisti, i noti membri della setta utopistica del marxismo fondamentalista che ha la sua ragion d'essere nella critica della cosiddetta "burocrazia", potessero un giorno prendere il potere politico (possibilità da non escludere, come quella per cui un giorno i coccodrilli potessero impiantare una tipografia), diventerebbero immediatamente una burocrazia separata privilegiata, e questo non certo per la malvagia infiltrazione di astutissimi stalinisti sopravvissuti, ma per I'elementare fatto sistemico che non può esistere potere dei poveri senza rappresentanza specialistica di privilegiati che comincerebbero inevitabilmente a servirsi per primi delle risorse disponibili.

Quanto ho detto finora, credo, non è né di "destra" né di "sinistra", a meno che si voglia battezzare con queste categorie spaziali un insieme realistico di diagnosi e di prognosi sociali. Il succo del discorso sta comunque in ciò, che la democrazia può esistere, non è una forma di stato o di governo e quindi non è una "costituzione", esiste anche e soprattutto in presenza di ceti politici dirigenti di rappresentanza inevitabilmente corrompibili, ed è il potere dei molti, che oggi sono anche i più poveri. Se in prospettiva mondiale i molti fossero anche benestanti, potremmo avere anche una democrazia mondiale di benestanti. Oggi come oggi le cose non stanno certamente così.

 

Chiarito questo, è evidente che gli USA, il potere imperiale che garantisce in ultima istanza gli interessi delle plutocrazie mondiali e delle oligarchie finanziarie, non possono esportare la democrazia. Come ha a suo tempo scritto Dante Alighieri, non possono farlo "per la contraddizion che non lo consente". La democrazia oggi può vivere soltanto come resistenza all'impero, ed infatti a mio avviso essa realmente vive solo in questa dimensione. Non nego che una maggioranza "democratica" dei cittadini di un comune possa agire "democraticamente" contro l'installazione di una discarica di rifiuti che può mettere in pericolo la loro salute, anche se bisogna ammettere che questa comunità democratica ricadrebbe immediatamente nella serialità passiva non appena la discarica in questione venisse spostata in modo da impestare ed uccidere i paesani della valle vicina. È chiaro che la collocazione corretta di una discarica non può che essere fatta in modo "tecnico" sulla base di competenze specialistiche che per loro natura non si stabiliscono con una messa ai voti, ma con considerazioni di ordine chimico, biologico, geologico, eccetera.

Quanto ho rilevato nelle righe precedenti è vecchio come il mondo, o almeno è vecchio come il mondo o almeno come l'antica Atene. L'ateniese Socrate difese già (e lo pagò con la vita) la democrazia dei competenti contro la maggioranza casuale e demagogica degli incompetenti. Benché la storiografia filosofica marxista abbia avuto la tendenza a presentare Socrate come un "reazionario" (magari anche di destra e criptofascista), un osservatore razionale dovrebbe invece inserire pienamente Socrate nella storia "interna", della democrazia ateniese. Socrate infatti, un po' come i moderni critici della plutocrazia capitalista e della burocrazia comunista (che è formata in genere parvenus straccioni, e quindi  necessariamente più avida magnamagna), se la prendeva soprattutto con il cosiddetto pleonektein, cioè con il cercare un profitto economico privato sotto l'apparenza di una virtuosa carriera politica pubblica. Egli stesso girava nell'agorà senza una lira, più esattamente senza una dracma.

Il fatto che la potenza più plutocratica ed oligarchica della terra si presenti come l'esportatrice armata della democrazia potrebbe dar luogo ad una grande letteratura umoristica. Il fatto che questo non sia ancora avvenuto segnala evidentemente una crisi dell'umorismo mondiale.

 

Caute ipotesi sul futuro della questione dell'indipendenza nazionale nell' attuale contesto storico

 

La retorica unificata del circo mediatico globalizzato tende oggi a mandare il seguente messaggio bipartisan: le nazioni non esistono più, evviva, evviva, erano state inventate di sana pianta nell'ottocento sulla base di tradizioni inesistenti, buu-buu, oggi viviamo tutti in una società multirazziale e multiculturale, evviva, evviva, parleremo tutti inglese, oh yes, il conto in banca non ha odore né colore, eccetera. Ovviamente, ci sono delle eccezioni, nel senso che tutti dovranno a poco a poco scomparire nel melting-pot merceologico ed anglofono, al di fuori dell'Unica Nazione Indispensabile (UNI), che dovrà sostituire I'ONU, e che sono ovviamente gli USA. Mentre il nazionalismo francese è condannato come patetica impotenza di ranocchie sorpassate e quello russo è addirittura esecrato come fantasma del sovietismo scomparso, il diritto al "nazionalismo" è dato ai più stretti alleati degli USA, in primo luogo i britannici ed i sionisti. Solo Blair e Sharon devono aver diritto alla bandiera, tutti gli altri si affratellino in girotondi multiculturali.

 

Sono stato (peraltro volutamente) un po' provocatorio, ma il lettore onesto e spregiudicato sa benissimo che le cose stanno proprio così. Bisogna allora riazzerare il tutto, e dotarci di una nuova concezione della questione nazionale. Partiamo dal fatto che il cosiddetto "nazionalismo" è quasi sempre una patologia della legittima questione nazionale, ma anche questa affermazione è in parte inesatta. Il nazionalismo cubano è un nazionalismo di difesa che non contempla occupazioni ed insediamenti di coloni in paesi stranieri, e dunque non è la stessa cosa del nazionalismo sionista, che invece li contempla esplicitamente. Abbiamo alle spalle almeno due fasi della storia del nazionalismo contemporaneo, quella della costituzione ottocentesca delle nazioni e del patriottismo democratico e quella dell'espansione imperialistica primonovecentesca. Le due fasi sono dialetticamente collegate, nel senso che la prima si rovescia nella seconda che pure ne è il suo opposto, ma devono essere distinte. Il generale Garibaldi in Sicilia ed il generale Badoglio in Etiopia sventolano la stessa bandiera tricolore, ma neppure l'osservatore più settario ed identitario potrebbe sostenere che questa bandiera adempie alle stesse funzioni simboliche e comunitarie. Gli esempi potrebbero essere moltiplicati, ma non è necessario perché mi sembra che il concetto sia chiarissimo.

Oggi la questione nazionale è nello stesso tempo un pericolo reale ed una risorsa inestimabile. Come pericolo reale essa ha il nome di "divisione", come risorsa inestimabile essa ha il nome di "indipendenza". Non si può negare che oggi l'impero ideocratico americano eredita dai due grandi precedenti storici dell' impero romano e dell'impero britannico il divide et impera, e proprio su questo contenzioso storico di conflitti secolari tra nazioni (polacchi e russi, turchi ed armeni, indiani e pakistani, cinesi e giapponesi, eccetera) esso può articolare meglio il suo dominio. Se si leggono le "storie nazionalizzate" dei manuali di  stato di molti paesi c'è veramente da trasecolare. Tutti parlano ossessivamente del "negazionismo" a proposito del numero di internati ebrei morti nei campi della seconda guerra mondiale, ed i cosiddetti "negazionisti", sono additati al pubblico ludibrio come moderni lebbrosi, e nessuno sa che il "negazionismo storico", pericoloso non è quello che si nasconde in catacombali librerie parigine, ma quello ostentato da potentissimi stati. Il negazionismo statunitense a proposito della costituzione storica della loro nazione è impressionante, ma consiglio in proposito le traduzioni dei libri di storia cinesi e giapponesi e soprattutto di quelli turchi ed armeni. Si tratta di storie parallele che sembra raccontino fatti che non hanno nulla in comune. Dal momento che mi sono occupato in modo abbastanza approfondito della rappresentazione triangolare del passato storico dei popoli turco, greco ed armeno ne avrei delle belle da raccontare, ma non è questo il luogo. Tuttavia, il "negazionismo italiano" è forse uno dei più interessanti, data la tradizione gesuita, ipocrita e controriformistica del nostro paese di santi, poeti, navigatori e soprattutto smemorati. Tutte le atrocità le hanno fatte i malvagi tedeschi nazisti mangiacavoli e mangiapatate, mentre noi siamo sempre andati all'estero con il solo intento di pubblicizzare la pastasciutta e di far ascoltare le nostre mandolinate agli indigeni rapiti e sopratutto alle indigene adoranti. Su questo punto la tradizione fascista e quella antifascista sono sempre state assolutamente bipartisan. Basta aver assistito alle recenti fictions televisive (l'ultima, incredibile, è stata quella sui fatti di Cefalonia) per capire che sessant'anni di sceneggiata teatrale simulata fra rossi vincitori e neri sconfitti non hanno minimamente scalfito lo strato geologico-psicologico sottostante, e cioè il comune rifiuto di conoscere la verità. Speriamo (ma neppure tanto) nella prossima generazione.

Sono consapevole di questo possibile "uso divisorio" del contenzioso storico delle memorie divise delle nazioni in favore dell'impero divisore americano. Nello stesso tempo, tuttavia, ritengo che I'aspetto principale della questione nazionale oggi sia un altro, ed esattamente I'aspetto positivo della resistenza e dell'indipendenza. Spieghiamoci meglio.

 

Con la fine (provvisoria? momentanea? definitiva? - lascio la cosa nelle mani del futuro imprevedibile) dell'illusione della classe unificata mondiale operaia, salariata e proletaria come fattore politico rivoluzionario (e non solo come insieme sociologico di sfruttati) restano oggi i popoli e le nazioni. Dichiarati frettolosamente per morti, i popoli come fattore politico e le nazioni come fattore culturale sono oggi il principale fattore di resistenza all'impero americano. Oggi è il popolo iracheno che si batte, non la classe operaia irachena. Oggi è il popolo venezuelano che si batte, non la classe operaia venezuelana. Lo stesso partito comunista cinese, avendo smesso di essere comunista, ha dovuto accorgersi di essere cinese, per non sprofondare del tutto nel nichilismo dei giovinastri ossessionati dalla corsa trafelata all' arricchimento individuale.

Da inguaribile universalista filosofico e da non pentito cosmopolita umanista ammetto che tutto questo non mi soddisfa interamente. Nello stesso tempo ho assistito con i miei occhi alla trasformazione del vecchio pseudo-universalismo operaio e proletario nel nuovo pseudo-universalismo americanista e ultracapitalista nella maggior parte dei miei coetanei. Ho visto e vedo tutti i giorni per televisione le loro facce corrotte dal potere o rincoglionite dalla confusione filosofica ed esistenziale. Li sento berciare contro il nazionalismo, contro il populismo, contro il comunitarismo, eccetera, ed allora mi dico: se questi disgraziati odiano tanto questi "ismi" vuol dire che le cose stanno diversamente. Ed infatti è così. L'indipendenza nazionale e la resistenza sono e saranno certamente fattori positivi nei prossimi anni.

 

Caute ipotesi sul futuro della religione e delle forme di pratica religiosa nell'attuale contesto storico

 

"Non credo in Dio per la stessa ragione per cui non credo in Mamma oca": così ha recentemente affermato con provocatoria brevità lo scrittore Salman Rushdie. Nello stesso contesto di questa "esternazione" Rushdie ha però anche fatto notare che oggi negli USA protestanti ed ebrei, musulmani e buddisti, uomini e donne, eccetera, potrebbero aspirare ad alte cariche pubbliche, all'infuori degli atei dichiarati, che invece avrebbero maggiori difficoltà. Se Rushdie ha ragione (ed io,francamente non ho gli elementi di esperienza personale per saperlo), allora è possibile fare ragionevoli ipotesi sulla natura necessariamente, religiosa di  ogni "impero", che è impero appunto perché deve legittimarsi con il solo principio universalistico possibile, perché l'universalismo filosofico è accessibile a non più del 5 percento della popolazione mondiale (il lettore mi scuserà per questa valutazione incredibilmente ottimistica), mentre I'universalismo religioso, pur che sia volutamente vago (del tipo: "credo in qualcosa, qualcosa deve esserci, ma non so esattamente cosa"), può raggiungere facilmente il 95 per cento degli esseri umani in circolazione.

Non è facile accertare l'esatta natura del sentimento religioso in quest'epoca di secolarizzazione molto avanzata. La maggior parte dei commentatori parla di "religione-fai-da-te", per indicare un processo di individualizzazione flessibile del sentimento religioso. Ammesso che I'ipotesi della religione-fai-da-te sia esatta, non c'è dubbio che un osservatore dei pellegrini durante i funerali del papa polacco nell'aprile 2005 avrebbe indubbiamente visto moltissimi fai-da-te di tipo presenzialistico, ma anche gruppi tribali polacchi con bandiera, gruppi parrocchiali organizzati, gruppi di volontariato, eccetera. Ciò deve mettere in guardia da conclusioni troppo affrettate. In proposito, i pronostici affrettati sulla religione, o meglio sulla fine della religione spazzata via dal socialismo (variante politica) o dalla scienza (variante positivistica), si sono sempre dimostrati sbagliati. Divulgazione scientifica e nevrosi consumistica sono forse fattori antireligiosi, ma non sono certamente fattori risolutivi. In questo paragrafo mi limiterò ad alcune osservazioni di principio che possono aiutare il lettore critico ed impostare da solo il problema. Inizierò con due autori successivi, David Hume e Régis Debray, che secondo me mettono la questione su binari percorribili.

 

David Hume ha scritto nel settecento una storia naturale della religione, che a mio avviso è tuttora cinquanta miglia al di sopra delle sciocchezze mediatiche che si leggono di solito. Hume rifiuta esplicitamente la spiegazione illuministica classica (religione come trucco dei preti, frutto dell'ignoranza e della superstizione, eccetera) in favore di una ipotesi alternativa. Secondo Hume la religione nasce dall'insopprimibile esigenza di mettere ordine nel mondo, a causa dell'angoscia che nascerebbe dalla semplice esistenza fattuale di un caos disordinato e non organizzabile.

A mio avviso Hume coglie nel segno. La religione non la fanno i preti, ma i preti vengono messi al loro posto perché c'è prima un'insopprimibile esigenza della natura umana dell'animale uomo in quanto tale. Anche la scienza, ovviamente, mette ordine nel mondo, e lo fa ovviamente in modo molto più "razionale" della religione (se per razionalità intendiamo il principio epistemologico della verificabilità e della falsificabilità), ma organizza un mondo senza significati (che non siano il gusto per la ricerca in sé stessa, gusto che probabilmente riguarda lo 0,1 per cento degli esseri umani). La religione organizza invece la riassicurazione psicologica di un mondo di significati, e su questo si basa, a mio avviso, la sua assoluta immortalità. Finché ci saranno esseri umani, ci sarà religione. Tutte le affrettate prognosi sulla sua prossima estinzione, da Marx a Nietzsche, sono prognosi errate.

Vi è però una seconda questione su cui la diagnosi di David Hume può ancora essere di qualche utilità. Hume preferisce il politeismo al monoteismo prescrittivo in nome della tolleranza, anticipando così sia Max Weber che il post-moderno, ma non vede a mio avviso che nel monoteismo coesistono dialetticamente due elementi in potenziale contrasto, la legittimazione del fanatismo esclusivista dei seguaci del "vero Dio" che sgozzano gli infedeli (o presunti tali) ma anche I'idea universalistica di eguaglianza di tutti i popoli del mondo. Dove invece Hume coglie il punto esatto della questione è nella distinzione fra teismo popolare (padre Pio, Lourdes, eccetera) e deismo razionale. La differenza non sta secondo Hume nella maggiore "cultura" del secondo rispetto al primo (borghesi razionalisti contro plebei analfabeti), ma nella situazione psicologica che ne favorisce I'adozione, dolore, paura e speranza nel caso del teismo popolare e calma riflessione sul cielo stellato nel caso del deismo razionale. Credo che fortissime fitte allo stomaco o la paura per una diagnosi medica di condanna inesorabile non possono portare alla sofisticata disantropomorfizzazione razionale ma solo ad una necessaria antropomorfizzazione .

 

Non voglio lasciar dubbi sul fatto che queste riflessioni di Hume battono a mio avviso con punteggio tennistico tutti i discorsi ateo-materialistici alla Feuerbach ed alla Marx, con tutto il rispetto verso questi miei due barbuti maestri tedeschi. Ma credo che anche alcune recenti riflessioni di Debray ci possano aiutare.

Debray, che pure personalmente non è un credente, ritiene la religione radicata nell'antropologia umana. Con un'ipotesi interessante, considera il monoteismo legato alla scrittura, o più esattamente mette in relazione I'emergere del monoteismo stesso con la scrittura. Solo la scrittura permette di concepire un Dio portatile ed interpretabile, e solo la scrittura permette la teologia e l'ermeneutica. La scrittura infatti permette di fissare stabilmente I'ortodossia, e permette la condanna dell'eresia proprio sulla base della corretta ermeneutica dei testi. Dal momento però che le nuove tecnologie informatiche tendono a sostituire la vecchia lettura dei testi, la nuova "visibilità" dello schermo informatico mette in secondo piano il Padre (invisibile fra le nubi) in favore del Cristo e della Madonna, estremamente più visibili. Inoltre, il padre è pur sempre il freudiano sacerdote del Super-Io autoritario e prescrittivo, laddove la nuova società permissiva ultracapitalistica e post-borghese ha come suo motto "vietato vietare, e soprattutto vietato vietare ciò che si può comprare".

L'ipotesi "tecnologica" di Debray (le tre fasi del monoteismo con la successione della scrittura semplice, della scrittura a stampa e della scrittura informatica) non è probabilmente esaustiva, ma almeno suggerisce la legittimità di un problema. L'impero americano propugna un monoteismo del mercato (secondo la correttissima definizione di Roger Garaudy), ed il monoteismo del mercato non è compatibile con dottrine proprie di apparati religiosi autonomi. La chiesa cattolica si è già accorta (forse) che I'arroganza del protestantesimo fondamentalistico e del giudeocentrismo ossessivo è infinitamente più pericolosa del pittoresco ed artigianale ateismo degli apparati ideologici del defunto comunismo storico novecentesco. L'ateismo positivistico, che sostiene che Dio non esiste perché la teoria dell'evoluzione e l'astrofisica spiegano il mondo lo stesso, e che inoltre I'anima non è accertabile con la TAC e con la risonanza magnetica, è il migliore alleato possibile della religione, la sua vera e propria opposizione costituzionale. I teologi monoteisti sono infatti ghiotti di ateismo come i bambini sono ghiotti di marmellata. A causa dell'alfa privativo l'ateo può facilmente passare dal senza Dio allo stato di chi è alla ricerca di Dio.

Non sono un consulente di gruppi religiosi, piccoli o grandi che siano. Se lo fossi, consiglierei loro di non schiacciarsi troppo sull'impero, e di non correre dietro soprattutto alle "innovazioni" che il circo mediatico gli consiglia. La religione ha certo davanti a sé molti secoli. Ma la religione dei cappellani militari dei marines ha certamente molto meno futuro.

 

Caute ipotesi sul futuro della filosofia e delle forme di pratica filosofica nell'attuale contesto storico

 

Come ha scritto genialmente Martin Heidegger, la filosofia per sua natura non può essere "organizzata". Per questa stessa ragione, il contenuto delle scuole filosofiche del futuro non è prevedibile. L'attività filosofica, nella sua natura di interrogazione critica e senza confini della condizione umana nella natura (di cui la mortalità è di gran lunga I'aspetto principale) e nella storia (di cui il rapporto con il potere è di gran lunga l'aspetto principale), sgorga direttamente dalla natura umana e dal suo carattere "generico", aperto cioè ad ogni possibilità. I teologi e gli ideologi sono coloro che sottomettono volontariamente l'attività filosofica alla quinta operazione dei capi e dei sovrintendenti. Come cani tenuti al guinzaglio, chiamano "selvaggi" i cani che corrono liberi e si compiacciono se i loro padroni per ricompensarli non solo gli gettano qualche osso cui è rimasto attaccato un po' di polpa ma gli allungano anche un poco il guinzaglio, in modo che questi sventurati possano chiamare I'allungamento del guinzaglio "libertà".

 

Non ho mai avuto esperienze pretesche di seminario e di contestazione a vescovi e pretoni vestiti di rosso o di bianco, e dunque conosco la cosiddetta "teologia" solo dall'esterno. L'idea che ciascuno sia un esperto su Dio come si può essere esperti di telecomunicazioni, malattie infettive o lingua giapponese mi produce sempre un senso di soddisfatta ilarità. Eppure essere "specialisti in Dio" è effettivamente una contraddizione in termini, perché Dio è l'idea più generale che possa esistere, e ognuno per definizione ha diritto di interpretare come vuole. La "teologia", come del resto l' "ateologia" di Bataille e di Onfray, è il massimo esempio possibile di come il punto più alto della particolarità singolare può travestirsi da universalità erga omnes. Ho avuto invece per quarant'anni esperienza di "ideologia", cioè di asservimento della libera attività di pensiero alla quinta operazione di curiosi personaggi che affermavano di conoscere la storia futura, e nello stesso tempo ignoravano del tutto la storia passata e manipolavano vergognosamente la storia presente. Questo asservimento volontario del cuore e dell'intelletto a bande di mascalzoni pronte al riciclaggio non appena fosse stato necessario è qualcosa di cui effettivamente un po' mi vergogno. Solo un poco, tuttavia, perché capisco bene che il mio caso personale non è stato che un minuscolo tassello della generosa illusione di riscatto di un secolo intero.

La libera attività filosofica è comunque incompatibile con il suo asservimento ideologico alla quinta operazione. Essa non può neppure essere ridotta alla funzione ancillare della cosiddetta "epistemologia", non certo perché non sia interessante e produttivo occuparsi delle modalità della conoscenza propriamente scientifica, ma perché la scienza va avanti da sola in sovrana indifferenza verso la riflessione filosofica su di essa, ed i filosofi che si credono allenatori delle squadre scientifiche non sono in realtà che tifosi, e per di più tifosi delle curve esterne, laddove i tifosi delle tribune e dei cosiddetti "distinti centrali" sono i capitalisti committenti della ricerca scientifica.

Per sua propria natura la filosofia non può essere organizzata, manipolata, esposta alla quinta operazione o sottoposta a tribunali di tipo teologico e/o ideologico. Tuttavia, le sue forme di pratica pubblica istituzionalizzata possono invece essere organizzate e manipolate dagli apparati mediatici, editoriali ed universitari, che sono in grado di "vendere" al pubblico prodotti filosofici come si vendono detersivi o cibi per bambini. Bisogna allora porsi il legittimo problema di come avviene (o comincia ad avvenire) la pratica pubblica della filosofia all'ombra dell'impero ideocratico americano. È quasi impossibile fare previsioni serie. Tuttavia disponiamo pur sempre dello strumento imperfetto dell'analogia storica con periodi passati, e I'analogia storica che salta subito agli occhi è quella con il periodo ellenistico-romano in cui, in assenza di sovranità civile e politica e di scatenamento della pratica signorile e schiavistica della libertà, la filosofia dovette "ripiegarsi" nel privato, o meglio ripiegarsi nelle conferenze pubbliche alla Apuleio.

 

Il tempo della grande filosofia libera europea, da Kant a Hegel, assomiglia molto al tempo della grande filosofia libera greca, da Socrate a Platone. Con il positivismo la filosofia tende ad accettare un ruolo servile rispetto alle scienze, ruolo servile che poi giocherà nella storia del marxismo novecentesco in termini di fondamenti teorici dell'ideologia politica gestita da sinergie di capetti nichilisti e di basi credulone e subalterne desiderose di mummie ben visibili. Questo suicidio epistemologico-ideologico non poteva ovviamente essere totale, perché I'innovazione filosofica preme sempre incontrollabile anche sotto I'asfalto del potere. Oggi però siamo in una situazione imperiale, e sarebbe strano se anche la filosofia non ne risentisse.

Sono due gli aspetti che sono già fin d'ora abbastanza visibili. In primo luogo, dietro la crescente egemonia della cosiddetta filosofia "analitica" anglosassone rispetto a quella detta "continentale" (che è poi I'unica filosofia che sia realmente erede della grande tradizione occidentale) ci sta ovviamente qualcosa di sociale e di storico, e cioè la proibizione implicita di parte imperiale di interrogare la "totalità" dei rapporti sociali di produzione. Un potere che si autodefinisce in termini messianico-religiosi di esportazione della libertà, dei diritti umani e della democrazia non può ovviamente favorire l'interrogazione filosofica sulla stessa totalità che definisce in modo religioso. L'approccio analitico (di cui non intendo negare anche alcuni meriti) esclude per principio che la totalità espressiva dell'insieme della società venga interrogata filosoficamente. Non c'è posto non solo per Marx, ma neppure per Heidegger e Adorno, che devono diventare innocui oggetti di dottissime ed irrilevanti monografie universitarie, le migliori delle quali saranno poi tradotte in inglese.

In secondo luogo, la filosofia diventa sempre di più "cura dell'anima", più esattamente cura dell'anima all'ombra del potere. Fioriscono in questo modo i caffè filosofici, le conferenze di star della divulgazione psicologico-filosofica, eccetera, in una sorta di epicureismo elementare massificato in cerca di serenità. Questo secondo aspetto è ovviamente il più "ellenistico". All'interno di questo quadro, sia pur sommariamente delineato, il futuro della filosofia appare incerto, ma una cosa almeno è sicura: un nuovo Hegel, o anche solo più modestamente un nuovo Adorno, verranno soltanto in un quadro di libertà, sovranità ed indipendenza.

Dal libro di Costanzo Preve "Del buon uso dell'Universalismo"

Settimo Sigillo 2005