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Quando l’imputato è la ragione, la causa è perduta

di Valentina Gaspardo - 18/05/2016

Quando l’imputato è la ragione, la causa è perduta

Fonte: L'intellettuale dissidente

Il borghese è colui che non sa darsi un valore più alto della sopravvivenza, della sicurezza, del non mettere mai a rischio la propria quotidianità quale che sia il prezzo richiesto. La critica ai suoi valori, al suo mondo, trascende la classe sociale ed identifica lo spregevole individuo che vuol solo "farsi gli affari propri"

 

Da Nietzsche a Jünger, la legittima critica allo spirito borghese – che per inciso, non è certo segnavia di una classe sociale privilegiata, ma, come per chi ad essa si oppone, codice entro cui l’esistenza umana viene decifrata (potremmo spingerci ad affermare che una distinzione tra borghese e non-borghese in termini economici, risiede pienamente all’interno dello spirito borghese, che riconosce quel carattere insignificante come assolutamente rilevante ai fini di stabilire il valore di un uomo o di un gruppo) – è sviluppata entro un’accusa alla ragione, alla morale, tout court.

Il borghese è colui che non sa darsi un valore più alto della sopravvivenza, della sicurezza, del non mettere mai a rischio la propria quotidianità quale che sia il prezzo richiesto. Farsi gli affari propri, senza sapere che i limiti dei ‘propri affari’ non coincidono con i limiti della propria pancia, è il credo che deprime l’uomo che chiamiamo borghese. Colui che tenta «di procrastinare a qualunque costo il momento della sua morte» (Der Arbeiter, tr. it. Guanda Editore, p.37) è altresì l’uomo che si affida all’economia quale arbitro di contese e solutore di problemi: «Il centro di questo cosmo è costituito dall’economia in sé, dall’interpretazione del mondo in senso economico, ed essa è ciò che conferisce a ciascuna delle sue parti la forza di gravità. Quale di queste parti possa impadronirsi del potere decisionale, è un problema che dipenderà sempre dall’economia, la quale, fra i poteri che decidono, è il supremo» (ivi, p.28). È, come, direbbe ancora Jünger, se «una matematica diabolica le condannasse [quelle conclusioni] a sfociare nel nichilismo» (ivi, p.43). Non si tratta di alcunché di diabolico, a meno che così non si vogliano contraddistinguere gli esiti nefasti di un tale pensiero. Ma difficilmente se ne accorgerà chi schiera tra gli imputati la stessa ragione: il borghese, si afferma, è colui che per i suoi scopi fa appello alla ragione; colui che, jungherianamente e niccianamente, non lascia sussistere l’originario, il sotterraneo, ma lo deforma con i suoi propositi morali (cfr. ivi, p.39). Allora si colloca quella forza più vera, al di là delle superfetazioni borghesi identificate con la ragione stessa. E proprio in quest’ultima equazione risiede l’inefficacia di una simile critica.

Se si afferma che quel che ha più valore, l’originario che solo l’Übermenschincarna, non ha la sua ragion sufficiente, si ricade nella stessa violenza ingiustificabile che domina il mondo odierno. Sarà sempre chi prevale ad avere l’ultima parola, a decidere arbitrariamente quale debba essere il ‘potere decisionale supremo’. Poca differenza c’è tra il magnate bancario e il generale col fucile: o si cerca la ragione di quello che si tenta di affermare mediante i propri gesti o si sfocia nell’ingiustizia. La critica è nata proprio col rilievo delle ingiuste regole che «fissano la battaglia» (ivi, p.29); allora c’è bisogno che le nuove regole non siano garantite dalla forza, la quale sa albergare in ogni posizione, tanto da essere perfettamente a suo agio anche nella gestione borghese, ma dalla ragionevolezza che le mostrano preferibili a quelle vecchie. Perciò non basta richiamarsi a una gerarchia, se i suoi termini non sono chiariti dalla verità delle preferenze affermate. Nemmeno questi autori combattono la ragione, ma una ragione insufficiente: quel che intendono è riaffermare la ragione, che nella situazione precedente era offesa. Né si oppongono alla morale, mostrano che quella borghese è una morale ridicola. Ma non aver coscienza dell’imprescindibilità della ragione è qualcosa che discrimina e azzoppa, perché un’analisi di questo genere saprà evidenziare ciò che va combattuto, ma non  avrà armi per costruire sistematicamente – gerarchicamente – qualcosa che vale.

Così quello che vale non sarà più che un buon auspicio: «La più amara disperazione di una vita è il non essere riusciti a riempire se stessi, il non esser cresciuti. Sotto questo aspetto, il singolo somiglia al figliol prodigo che ha dilapidato nell’ozio e in terra straniera la propria parte di eredità, quale che essa fosse, abbondante o scarsa – eppure non c’è alcun dubbio che egli possa essere riaccolto in patria. Infatti, la parte di eredità che mai potrà essere sottratta al singolo è il suo appartenere all’eternità; nei suoi momenti supremi e colmi egli ne è pienamente consapevole. Suo compito è esprimere nel tempo quella consapevolezza» (ivi, p. 35). Se l’infinito compito dell’uomo è scoprirsi e conquistare così la propria essenza, tanto da non tradire quanto la sua natura gli domanda, non potrà adempierlo che avendo come guida la ragione.