Ritornare al dono. Per una critica della ragione utilitaria
di Roberto Pecchioli - 19/05/2016
Fonte: Ereticamente
Sono donatore di sangue da molti anni. Seduto sulla poltrona del centro trasfusionale, mi stupisco ogni volta del ringraziamento di medici ed infermieri. Non voglio, non devo essere ringraziato per un gesto piccolissimo: dovrei io ringraziare chi mi permette di essere felice per aver fatto qualcosa di utile per gli altri. Io ho quel che ho donato, scrisse il D’Annunzio e, al di là della magniloquenza del vate, è davvero così. Madre Teresa di Calcutta chiese una volta della carne ad un ricco commerciante, un devoto cattolico. Questi inviò un camion di prodotti di pessima qualità, probabilmente l’invenduto. La monaca albanese rimandò tutto al mittente, dicendo al finto benefattore che il dono deve comportare un sacrificio, altrimenti è semplice elemosina, o addirittura disfarsi dell’inutile. C’è di più, secondo noi, ed è la gioia che si prova quando si fa un regalo a qualcuno che si ama, o si offre un pò di sé a chi ne ha bisogno, e tutte le volte che il nostro comportamento non risponde alla logica del tornaconto. In quei momenti, siamo di più, anche se “abbiamo” di meno.
Già all’inizio del XVIII secolo, quello dei sedicenti Lumi, Bernard de Mandeville teorizzò l’utile al di là e persino contro ogni etica. Bentham, un secolo dopo, formalizzò il tutto in una simil-filosofia del vantaggio personale e della preferenza per se stessi. Pochi decenni prima, sempre in Gran Bretagna, Adam Smith, autore anche di Una teoria dei sentimenti morali (!!) scrisse il famoso brano della Ricchezza delle Nazioni in cui affermava che non è dalla generosità del macellaio o del panettiere che trarremo il nostro cibo.
L’europeo di oggi vive una curiosa schizofrenia: ha assorbito, introiettato l’etica del mercante, ma rimpiange astrattamente il dono, il disinteresse, l’essere anche per gli altri. Sentiamo altrettanto spesso affermare che ci sono più i “valori”, quanto che non esistono più le mezze stagioni e non si sa come vestirsi la mattina.
L’antropologia culturale, tanto negativa nei suoi esiti relativistici, ci ha tuttavia insegnato che nelle civiltà “tradizionali” esistevano forme di vita e principi condivisi che non coincidevano con l’interesse, il guadagno, lo scambio economico. Penso a Marcel Mauss ed al suo “Saggio sul dono”, in cui riprese gli studi di Franz Boas sull’istituto delpotlatch, l’accumulo, scambio e distruzione di doni nell’America Settentrionale (gliyankees arrivarono dopo, con i loro finti trattati giuridici e l’ansia compulsiva di accumulo…) e quelli di Bronislaw Malinowski sul kula, scambio rituale di doni e controdoni tra le tribù polinesiane. Il grande studioso francese giunse alla conclusione che la vita sociale è regolata a livelli profondi da un sistema di prestazioni totale, che risponde all’esigenza di creare e conservare tra i membri di un gruppo e tra gruppi diversi reti di relazioni garantite ritualmente dalla partecipazione ad una medesima forza di coesione.
Mauss era nipote di uno dei padri nobili della sociologia, Emile Durkheim, del quale possiamo rammentare i concetti di solidarietà meccanica ed organica, a seconda dei tipi di compagine sociale in cui si è inseriti. Quando i vincoli sociali si indeboliscono, secondo Durkheim gli individui tendono a non comprendere più quali siano le norme sociali e ciò conduce ad una situazione in cui i rapporti sono assenti, deboli o conflittuali, i vincoli si sfaldano, e definisce “anomia” tale condizione, ovvero assenza di norma morale.
Questa è la fotografia degli anni che viviamo. E’ sufficiente osservare un piccolo gruppo di persone salire sull’autobus, per verificare la competitività, l’egoismo spicciolo con il quale si cerca di impadronirsi – questo è l’unico verbo che mi sembri pregnante – dei posti a sedere, senza riguardo per gli altri. L’assemblea condominiale è un altro dei momenti in cui è preferibile la compagnia di un buon cane a quella dei vicini di casa. Dell’individualismo sfrenato e senza ritegno in ogni ambito professionale siamo tutti testimoni quotidiani, e qualsiasi associazione, movimento, gruppo organizzato è campo di battaglia per accedere alle cariche con ogni mezzo, a partire dalla maldicenza, dalla calunnia e da forme sempre nuove di corruzione e ruffianeria. Viviamo, infatti, in una “società”, per di più una società di mercato in cui la misura del valore è esclusivamente il denaro.
Non viviamo più in una comunità, se non, per scelta, entro una miriade di gruppetti minimi, segmenti polverizzati di una cosmopoli destituita di senso. Nella comunità si può dare e ricevere senza tenere il conto del più e del meno, in una società tutto è regolato dall’aritmetica, dalla firma per ricevuta, dalla restituzione programmata a tasso stabilito. Anche il regalo diventa un elemento di consumo o un simbolo di stato. Sentiamo Thomas W. Adorno in Minima Moralia: “La decadenza del dono si specchia nella penosa invenzione degli articoli da regalo, che presuppongono già che non si sappia che cosa regalare, perché, in realtà, non si ha nessuna voglia di farlo. “
Occorre dunque recuperare l’intenzione del donare, vivere in una dimensione nella quale si sia pronti a dare, con gratuità ed abbondanza, lontani dalla contabilità dei ragionieri. Questa società è il luogo peggiore per esercitare la virtù del fare qualcosa senza interesse. Tuttavia, credo che nessuna gioia sia più completa di quella lontana dal calcolo. Nasce un figlio, si faranno sacrifici per lui, si affronteranno anche dolori, si sa che daremo ben più di ricevere, ma nessun genitore vuole dimenticare la felicità di vedere il bimbo appena nato, o di un sorriso, o di quando dice la sua prima parola. Ciò significa che l’agire umano non si svolge attorno alla razionalità impoverita, e moralmente sterile, della ragione strumentale, e l’homo oeconomicus non è, per fortuna, l’unico modello possibile.
Molti segnali fanno sperare: tante sono le persone che svolgono volontariato, nei più vari ambiti, e fanno della gratuità una condotta. Sono i primi nemici del Prodotto Interno Lordo, l’indicatore di tutte le attività che, in qualche maniera, producono reddito e possono essere calcolate in denaro. Una volta ho descritto il meccanismo del PIL in questo modo: se noi, con la famiglia e gli amici, facciamo una bella passeggiata sui prati o al mare, conversando tra noi, e torniamo poi a casa sereni e soddisfatti, il PIL non si muove. Ma se un pirata della strada ci travolge, le spese mediche, quelle ospedaliere ed assicurative, e, Dio non voglia, quelle funerarie alzeranno il prodotto interno lordo e muoveranno positivamente l’economia.
Robert Kennedy, che non a caso fu ucciso prima di poter partecipare alla corsa per la presidenza degli Usa, in un memorabile discorso, lo disse con forza “abbiamo rinunciato alla eccellenza personale e ai valori della comunità, in favore del mero accumulo di beni terreni. Il nostro Pil comprende anche l’inquinamento dell’aria, la pubblicità per le sigarette e le ambulanze per sgombrare le autostrade dalle carneficine dei fine settimana. Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende i programmi televisivi che esaltano la violenza al fine di vendere giocattoli ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori famigliari o l’intelligenza del nostro dibattere. Il Pil non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese. Misura tutto, in poche parole, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.”
Non c’è da aggiungere nulla, se non prendere atto che gioie e dolori, tragedie o momenti di euforia, tutto ciò che davvero conta nella nostra vita non si trova nel portafogli o nel conto corrente, che sono, semmai, mezzi per aiutarci a vivere. Il punto, dunque, è di ripartire dalle nostre comunità, la famiglia, il gruppo di amici, i corpi intermedi, come si chiamano nel passato, e poi il paese dove viviamo, la nazione di cui siamo membri, per fare qualcosa senza pensare né all’esito né al vantaggio. Molti barattano una loro conoscenza, o la loro disponibilità di tempo, con un servizio analogo reso da altri; è scambio etico, gratuità, comunità, è vivere in una dimensione in cui si danno e ricevono beni, ovvero qualcosa che fa bene davvero alla nostra esistenza, e non merci, cose da consumare attraverso il denaro e l’indebitamento. Nella “società” si scambia, si compravende, si contratta, si mercanteggia. Nella “comunità” si dà, e per fortuna si riceve perché è bello, perché è giusto, perché è così che si fa.
La società non ha membri, ha solo contraenti, azionisti, clienti, la comunità si fonda sulla mutua comprensione, è un “consensus”, come ci hanno insegnato Ferdinand Toennies ed Oswald Spengler: è convivialità, sentire comune, reciprocità, solidarietà. Ciascuno è organo, e non meccanismo, come scoprì per primo Menenio Agrippa con il suo celebre apologo al tempo della lotta tra patrizi e plebei nella Roma repubblicana.
Critica della ragione utilitaria è un importante saggio del francese Alain Caillé, animatore del MAUSS, Movimento Anti Utilitarista di Scienze Sociali, ed il suo titolo dovremmo assumerlo, concretamente, per i gesti della nostra vita quotidiana. Reimparare, ad esempio, a fare da sé alcune cose, per poter organizzare al di fuori del denaro, del consumo e della logica aberrante del “marchio” una parte almeno delle nostre necessità, e trasmettere agli altri, in amicizia, i nostri saperi o abilità pratiche. Riscoprire il piacere di cedere un po’ del nostro tempo agli altri, al di fuori di “quanto mi costa, o quanto mi rende”, compiere ogni giorno un’azione che sia estranea al circuito del denaro, riutilizzare, recuperare.
C’è bisogno estremo, urgenza, di restituire i rapporti umani, l’oralità, ad una generazione che non vede a più di un palmo da sé, china su smartphone ed i-phone, sempre connessa con il virtuale, ma estranea, disabituata al reale, al dialogo diverso dai messaggini in una neolingua fatta di cento parole, un grugnito cibernetico. Ritorno al reale, dunque, che è anche un bellissimo testo del filosofo contadino francese Alain Thibon, che andrebbe prescritto come lettura obbligatoria per l’arida generazione Erasmus, tutta viaggi e vuoto pneumatico, e per i signorini e signorine abbacinati dalla finanza e dalla sporca Las Vegas delle scommesse sul denaro altrui, derivati, Credit default swaps, futures, put, call e tutto il bieco arsenale di un potere che ti acceca, prima di sfilarti tutto quello che hai.
“Quos vult Iupiter perdere, dementat prius”, Giove toglie prima il senno a coloro che vuol rovinare: pare l’insegna dell’ipermercato che ci circonda. Un grande autore comunitarista, Alasdair Mc Intyre, nel rammentare che qualunque io è collegato ad un “noi”, ad una serie di idee, persone, principi legati nel tempo e nello spazio, chiede all’uomo contemporaneo di tornare ad Aristotele, che vuol dire semplicemente riannodare il filo che ci lega agli altri. Siamo animali “politici”, dunque sociali, che possiedono la prudenza e la saggezza per comprendere il bene ed il male e riconoscere il limite cui attenersi. Ritornare a vivere insieme, ed insieme rispondere alla miseria della ragione strumentale, utilitaria, tecnica, economica, mercante più ragioniere più operatore tecnico, tutto al servizio di un immenso mercato in cui ti perdi, dimentichi gli altri e non offri nulla di te stesso, a parte corrispondere il prezzo scritto sul cartellino.
Se, al contrario doni, inizi a stare all’opposizione: non alimenti il PIL, non ti leghi ai delinquenti manovratori del denaro, aiuti qualcuno, ed innanzitutto te stesso. Richard Easterlin, economista eterodosso, dimostrò con gli strumenti accademici dell’economia classica (modelli matematici, diagrammi, statistiche) che ricchezza e reddito non fanno la felicità. Vivere insieme, crescere con gli altri, offrire un po’ del proprio sangue, che può essere semplicemente il tempo, la conoscenza, la presenza, l’amicizia, quella autentica, non quella virtuale di Facebook, che nasce e muore con un clic, disfarsi giorno dopo giorno del mercante che c’è in ognuno di noi, alimentato da tutte le orchestre di tutti i teatrini culturali, sottoculturali, mediatici.
Nella fiaba (spesso si chiamano così, per toglier loro valore, i racconti davvero importanti) dei fratelli Grimm, geniali espressioni della cultura popolare tedesca, un uomo con un piffero arriva nella città di Hamelin, infestata dai topi e promette di liberarla, dietro adeguato pagamento. Non appena il pifferaio inizia a suonare, i ratti, incantati dalla sua musica, lo seguono sino al fiume, dove annegano.
La spergiura gente di Hamelin decide di non pagare il Pifferaio. Questi, per vendetta, riprende a suonare mentre gli adulti sono in chiesa, attirando dietro di sé tutti i bambini della città. I piccoli lo seguono in campagna e vengono rinchiusi in una caverna, dove periscono. In una versione del racconto, se ne salva uno che, zoppo, non era riuscito a tenere il passo dei compagni.
Il piffero è il denaro, il potere, l’egoismo, la ragione economica, ultima religione universale. Entrando nella logica della comunità e nella disponibilità a donare, forse ci chiameranno zoppi o eretici, ma muoveremo qualche passo, i primi di domani, verso un destino diverso dalla compulsione economica, dal demone del possesso e del progresso, da una vita fatta come un libro mastro o un supermercato.
I pifferai suoneranno invano, nel fiume annegheranno solo i topi, e noi doneremo loro, finalmente, il gesto dell’ombrello insieme con uno sberleffo grande quanto il pianeta!