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Solitudine, silenzio, paura, sono il destino politico dell’uomo contemporaneo?

di Francesco Lamendola - 11/06/2016

Solitudine, silenzio, paura, sono il destino politico dell’uomo contemporaneo?

Fonte: Il Corriere delle regioni

Una sempre più avvilente solitudine esistenziale, il silenzio come forma di auto-censura preventiva, la paura istituzionalizzata e permanente, sono il destino non solo sociologico e culturale dell’uomo contemporaneo, ma anche il suo destino politico? Vale a dire: è la politica stessa, sono le forme che la politica assume, specialmente attraverso il controllo del potere finanziario, a produrre un inevitabile orizzonte di solitudine, silenzio e paura, a delineare un quadro d’insieme nel quale la solitudine e l’alienazione, il silenzio auto-indotto e la paura cronica, particolarmente del terrorismo, ma anche della delinquenza, delle tasse, della guerra, della catastrofe ecologica e dell’apocalisse nucleare, saranno i compagni definitivi e ineliminabili della condizione umana? Dobbiamo rassegnarci al fatto che questo, e null’altro, ci offrirà la società del futuro; e che questa e non altra sarà la sorte dei nostri figli e dei nostri nipoti, se pure ne nasceranno ancora?

Nonostante i mass media, la pubblicità, i guru dei corsi di meditazione, i corifei delle magnifiche sorti e progressive, e persino gli esponenti del mondo politico, ci esortino, ci incitino, ci spronino a prendere in mano la nostra vita, a goderla sino in fondo, a non lasciarci sfuggire nessuna occasione di piacere o di potere, pure è evidente che la nostra vita ci sta completamente sfuggendo di mano, se pure non ci è già sfuggita del tutto; che non siamo più padroni di niente, né dei nostri risparmi, né della nostra casa, né dei nostri figli, né dei nostri studi, né della nostra identità, né delle nostre speranze e dei nostri sogni.

A questo senso d’impotenza, di straniamento e di estremo, angoscioso isolamento, percepito ormai come una condizione strutturale dell’esistenza, come un dato di fatto irreversibile della condizione moderna, si deve rispondere con una riflessione e con una critica globale ai meccanismi finanziari, economici, politici, sociali, culturali, psicologici e morali, che caratterizzano questa estrema fase del capitalismo selvaggio, divoratore di se stesso, dove lo smisurato accrescimento di ricchezza di pochissimi produce l’incessante impoverimento dei più, e dove tutto, letteralmente tutto, è piegato alle logiche di un profitto disumano e di una sistematica manipolazione dei corpi, delle coscienze, degli intelletti e perfino dei cromosomi, a maggior gloria e potenza della borsa e delle grandi istituzioni bancarie e assicurative.

Una siffatta critica globale può vedere una convergenza di differenti posizioni ideologiche, anche perché le tradizionali contrapposizioni, retaggio della Guerra fredda e, più in generale, della esasperata ideologizzazione del periodo che va dalla metà del XVIII secolo alla metà del XX, sono ormai da considerarsi definitivamente superate e, semmai, sostituite da altre, che non sono propriamente di natura ideologica, ma etica ed esistenziale: da una parte la cultura del progresso, dei diritti, dell’individualismo eretto a religione e del denaro eretto a divinità (con tanto di sacrifici umani per propiziarsene i favori), dall’altro la cultura dei valori morali, spirituali e religiosi,  della consapevolezza olistica, della responsabilità verso le generazioni future. In questa ideale convergenza, non priva, peraltro, di ambiguità e portatrice di possibili malintesi, trovano spazio anche alcuni eredi del pensiero marxista eretico, o post-marxista, e delle filosofie esistenzialiste e materialiste che hanno dominato nella seconda metà del XX secolo, ma che, attualmente, si trovano ridotte completamente sulla difensiva: i quali, se intellettualmente onesti, come pure ve ne sono alcuni, fanno autocritica per le colpevoli illusioni del passato e ammettono che nessuna riforma sarà possibile, senza correggere talune indicazioni di rotta seguite in passato.

Ha scritto, ad esempio, Santiago Lopez Petit nel suo libro Lo stato di guerra. Terrorismo internazionale e fascismo post-moderno (titolo originale: El Estado-Guerra, 2003; traduzione dallo spagnolo di Saida Volpe, Roma, Edizioni Le Nubi, 2005, pp. 64-65; 69-70):

 

Ho già parlato del mio mal-essere con me stesso. Soffro questo mal-essere quando constato la povertà della mia esperienza vitale. Walter Benjamin scriveva che coloro che tornavano dal fronte nella I guerra mondiale non avevano niente da raccontare, e che le loro esperienze erano totalmente ridotte. A me succede qualcosa di simile in quanto abitante della metropoli. Sono immerso in una solitudine gregaria, passeggiare diventa andare per negozi, la felicità e la libertà sono più separate che mai, quanto più si allontana da me la politica dello Stato dei partiti più - tuttavia - mi colpiscono le stesse politiche. In virtù di ciò, io posso anche dire: che il mio mal-essere è il risultato della mia/e esperienza/e. Quindi: sperimentare la povertà della/e esperienza/e è prima di tutto sperimentare l'esperienza della povertà, ossia della assenza nella totalità, della miseria nell'abbondanza, del vuoto. Prendendo la famosa frase di Rimbaud potrei riformularla così: il mio malessere è giorno dopo giorno fare esperienza del vuoto, del fatto che "la vita è in un altro luogo". Quando faccio detta esperienza mi sto riconoscendo come non-pieno, come non-integro, come vivendo una vita che non è il mio volere vivere. Ossia, mi sento ogni volta più spettatore di quello che faccio perché il mio vivere è un "lasciarsi vivere". Allora posso concluder effettivamente che io sono in modo improprio, come propriamente non-io (mi manca questa vita che non vivo).Però quando sono "non propriamente io" non è perché io sono un altro. Al contrario. è perché mi riconosco ordinario come tutti. Cioè senza nome. Ossia, come un uomo anonimo.

Adesso sì, posso iniziare forse a capire il "malessere del sociale" perché questo è il mio proprio malessere. [...]

Vivere si converte così per lui in un abitare questo spazio della paura. O detto in un modo più preciso in un sottrarsi, in un evitare i vuoti che egli apre (nei suoi usi del silenzio) e che gli si aprono finanzi. la vita dentro lo spazio della paura  è, ogni volta di più, un semplice mantenersi grazie a un uso opportunista del silenzio. Invece di gridare, mormorare. Invece di non sperare niente, meglio qualcosa... Vivere consiste nel suggellare un patto per la sopravvivenza, per l'accettazione del senso del sistema. Si può concludere che non esiste "malessere nel sociale" inteso come malessere del "sociale". Quello che esiste è paura. C'è solo paura. Una paura assoluta davanti al vuoto, davanti ai vuoti che minacciano. E paradossalmente, l'uomo anonimo, nella misura in cui rifugge dall'affrontare questi vuoti  e rifugge ogni affermazione del nulla, si precipita e affonda in un mulinello nel quale il voler vivere e il nichilismo si separano. Da un lato, si produce una affermazione della vita vuota per tautologia (Vivi la tua vita!). Dall'altro, un nichilismo sboccato. È la nota fenomenologia che risulta da questa separazione: violenza diretta contro il debole che si converte in capro espiatorio, droga per "vivere" il fine settimana, moralismo estremo, cinismo, tristezza...

 

L’autore, nato a Barcellona nel 1950, professore di Filosofia all’Università della medesima città, è un esponente del pensiero critico post-marxista e post-strutturalista, nel cui bagaglio culturale vi sono Michel Foucault e Gilles Deleuze, oltre a Toni Negri e Mario Tronti, storici esponenti italiani dell’operaismo e dell’estremismo di sinistra. Tutto, dunque, ci separa da lui, tranne una cosa: la convergenza sulla critica alla globalizzazione post-capitalista, allo strapotere del capitalismo finanziario e all’implacabile riduzione degli spazi di libertà, di socialità e di speranza del cittadino comune, ridotto sempre più a produttore passivo e consumatore da allevamento. Condivisibile è anche ciò che egli dice a proposito del vuoto e del silenzio, con reminiscenza heideggeriane sulla vita inautentica, ridotta a pura “chiacchiera”, e, naturalmente, con vistosi debiti dall’esistenzialismo sartriano, a cominciare da quel famoso (o famigerato) concetto, l’inferno sono gli altri, che descrive così bene la condizione dell’uomo anonimo, come lo chiama Lopez Petit: che è poi l’uomo senza qualità di Robert Musil, e l’uomo massa di José Ortega y Gasset, evoluti (si fa per dire) nel corso del XX secolo e giunti alla condizione odierna di totale frustrazione, solitudine e scoraggiamento.

Qui, però, finisce la convergenza. Perché, per poter fare una critica dell’esistente, bisogna capire bene come esso si sia originato: e un intellettuale di estrema sinistra che non sia capace di fare un grandissimo mea culpa per la degenerazione della società attuale, attribuendone la responsabilità ai soli meccanismi del capitale finanziario, senza nulla dire di come la cultura marxista e neomarxista (con tutti i Walter Benjam annessi e connessi) abbia poderosamente contribuito a creare quel misto d’irresponsabilità massimalista, di velleitarismo rivoluzionario e di pseudo libertarismo parolaio, che ha allontanato le famose “masse” da una vigilanza critica dei meccanismi del potere e l’ha consegnata, pronta e legata per andare al macello, in balia degli automatismi più pecorili e delle mitologie più demagogiche, ieri spontaneisiti e anarcoidi, oggi brutalmente e stolidamente consumistici, significa spuntare in partenza l’arma della critica e perpetuare la demenziale, colpevole illusione che basterebbe illuminare il buon “popolo”, naturalmente virtuoso e assetato di giustizia e libertà, e ben presto cadrebbero, uno dopo l’atro, tutti i pilastri del potere “cattivo”, versione aggiornata e corretta dell’intramontabile, pia leggenda del “buon selvaggio” creata dal Secolo dei lumi, e specialmente da Rousseau.

Se, come dice Lopez Petit riecheggiando Rimbaud (e come scrivevano sui muri gli studenti parigini del Maggio 1968), la vita è altrove, una parte di responsabilità ce l’hanno anche quegli intellettuali che, invece di educare l’uomo comune al senso di responsabilità, alla fortezza, alla temperanza, alla giustizia e alla prudenza, lo hanno blandito, lusingato, arringato ed elettrizzato con assurde utopie rivoluzionarie e, non arrendendosi nemmeno davanti all’evidenza, si sono arrovellati e affaccendati, con uno zelo e una tenacia degni d’una miglior causa, per riformare ciò che non era assolutamente riformabile: l’ideologia marxista nelle sue varie versioni, sia pure eretiche, sia pure dissidenti, rispetto al modello leninista e stalinista; intestardendosi, inoltre, a inseguire il miraggio impossibile di una società dove il progresso sconfiggerà per sempre l’ingiustizia, e dove la povertà e l’uguaglianza porranno fine alle contese e ad ogni forma di sfruttamento.

La vita è altrove perché, a suo tempo, non l’abbiamo saputa vedere là dov’essa era: nelle nostre famiglie, troppo a lungo derise, criticate, insultate, denigrate, umiliate; nei rapporti sociali fra le persone e le classi, imprigionati nel morsetto della contrapposizione ideologica e della lotta di classe; nelle nostre parrocchie, avvelenate dal dilagare del consumismo, del secolarismo, di una sottile proliferazione di tendenze moderniste che, con la scusa di aggiornare l’azione della Chiesa, di fatto hanno stravolto la fede dei nostri padri e l’hanno ridotta a una marmellata immangiabile e indigeribile; nelle scuole, nelle fabbriche, negli uffici, negli ospedali, nelle amministrazioni pubbliche, dove ben pochi hanno avuto a cuore il bene comune e in molti, in troppi, si sono preoccupati unicamente di fare carriera, d’imporre il proprio punto di vista, di zittire e mortificare i concorrenti e i rivali; nel mondo della cultura, dell’università, della grande informazione, ridotto a una galleria di Narcisi chiacchieroni e autoreferenziali, conformisti e maligni, sempre preoccupati di avere tutta per sé la luce dei riflettori, di poter avere visibilità e prestigio, di occupare le poltrone, nel più completo disprezzo della verità e della onestà intellettuale.

Soprattutto, bisogna avere il coraggio di andare alla radice dei problemi: il che, in questo caso, significa riconoscere che il primo errore, e il più grave, perpetrato dalla società moderna, con l’avallo e, spesso, con l’incitamento della cosiddetta cultura, è stato quello di escludere Dio dalle nostre vite e dai nostri orizzonti; di isolare, emarginare, deridere i suoi ultimi seguaci; di dichiarare morti e sepolti i suoi insegnamenti, inefficace la preghiera, illusoria la credenza nel bene e nel male; e di aver cercato di porre sul trono, al suo posto, l’uomo, cioè noi stessi, pur vedendo benissimo che ciò è impossibile e che sarebbe più facile porre una scimmia al posto dell’uomo, che porre l’uomo sul trono di Dio. Una volta eliminato Dio dalla nostra prospettiva, che cosa ci è rimasto, se non il nichilismo sfrenato del tutto è permesso (di Rasolnikov in Delitto e castigo), del lascia che accada (dei Beatles, in Let it be), del fa’ ciò che vuoi (del mago nero Aleister Crowley), ultima versione, aggiornata e post-moderna, del rinascimentale S’ei piace, ei lice, proclamato da Tasso nell’Aminta, e rivendicato con orgoglio da Giordano Bruno nello Spaccio della bestia trionfante e soprattutto nella Cabala del cavallo pegaseo. A ben guardare, infatti, la nostra solitudine, il nostro vuoto e il nostro silenzio partono da lontano: dal libertinismo di cinque secoli fa e dall’edonismo umanistico...