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Lettere dal lago di Como

di Francesco Lamendola - 14/06/2016

Lettere dal lago di Como

Fonte: Il Corriere delle regioni

L’avanzata impetuosa, travolgente, per certi aspetti spietata, della tecnica e dell’industria, sta letteralmente spazzando via la tradizione, stravolgendo la natura, cancellando la memoria millenaria degli uomini, per sostituirla con miti recentissimi, tuttora in fase di collaudo e allo stesso tempo, paradossalmente, già usurati, obsoleti, inservibili: il mito del progresso; il mito del potere; il mito della macchina; il mito dell’uomo prometeico, capace di strappare il fuoco agli dèi e di prendere in mano, pienamente e senza residui né rimpianti, il proprio destino.

È stato un processo che, sebbene si sia messo in moto, visibilmente, da almeno quattro secoli, quasi di colpo ha assunto un ritmo vertiginoso, è entrato con violenza inaudita nelle nostre vite, ha colpito come un fulmine le nostre certezze; ha capovolto il senso del bello, del giusto, del vero; ha praticamente estromesso il senso del sacro e del divino dalla società e dalla cultura; ha imposto ovunque, volenti o nolenti, nuove tavole di valori, basate sulle categorie dell’utile, del profitto, del massimo rendimento, dell’efficienza e della produttività.

Che cosa si deve fare, che cosa si può fare, di fronte alla sfida integrale che la civiltà moderna porta all’uomo, così come lo conosciamo, come lo abbiamo sempre conosciuto, come pensiamo che egli non possa rinunciare ad essere, senza rinunciare al proprio statuto ontologico, cioè senza scivolare verso una condizione regressiva e sub-umana? Che cosa si deve fare, ovviamente, se non ci si vuol limitare a rimpiangere la società d’un tempo, il mondo di ieri (per dirla con Stefan Zweig) che, secondo ogni ragionevole previsione, non tornerà mai più ad abitare le nostre esistenze, e del quale siamo rimasti irrevocabilmente orfani?

Rimestare fra le ceneri d’un fuoco spento è un atteggiamento che può apparire non privo di una certa nobiltà, per quel suo non volersi arrendere davanti alla brutale evidenza della verità effettuale della cosa, come la chiamava Machiavelli; però, a ben considerare, è soprattutto patetico, come lo sarebbero un uomo, o una donna, i quali vivessero soltanto di ricordi e di rimpianti, sfogliando malinconicamente i vecchi album di fotografie ingiallite. No, non è così che si deve vivere la vita, bensì affrontando il presente. Ma è ancora possibile affrontare il presente, o si tratta piuttosto di rassegnarsi a subirlo, senza poter minimamente incidere sulla sua direzione di marcia?

Se lo è chiesto, fra gli altri, ma prima di molti altri, quello che è stato, a nostro parere, uno dei più grandi pensatori degli ultimi cento anni: Romano Guardini (al quale abbiamo dedicato diversi articoli, come Satana, il Nemico, nel pensiero di Romano Guardini, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 21/01/2008, oltre a un saggio piuttosto ampio, La riflessione sul potere nel pensiero di Romano Guardini, in data 20/06/2007; adesso ripubblicati su Il Corriere delle Regioni). Se lo è chiesto fin dagli anni ’20 del XX secolo, poco dopo che il suo connazionale Oswald Spengler aveva proclamato, con accenti neitzschiani, Il tramonto dell’Occidente (1918-22), e che un grande poeta francese, Paul Valéry, nel suo saggio La crise de l’Esprit (La crisi del pensiero, 1919) aveva lanciato un famosissimo aforisma: Noi, le civiltà, ora sappiano che siamo mortali. Concetto sconvolgente: fino alla vigilia della Prima guerra mondiale, infatti, la civiltà occidentale moderna si era illusa d’essere immortale, di possedere risorse illimitate.

Raffaele Vacca, un giornalista e saggista dell’isola di Capri, fondatore, nel 1984, del Premio letterario Capri-San Michele, che vanta ormai una trentina di edizioni, e autore di alcuni libri pregevoli, fra i quali segnaliamo Il finito nella luce dell’infinito. Percorsi di lettura attualizzata (Roma, Edizioni Ares, 2013), ha ricordato brevemente, ma in maniera incisiva, quel momento cruciale nella riflessione filosofica di Romano Guardini, in un articolo intitolato La letteratura della crisi (apparso sulla rivista dei Padri dehoniani Presenza cristiana, Andria, Barletta, n. 2 del marzo/aprile 2012, p. 37):

 

Tra il 1923 e il 1925 Romano Guardini, italiano di nascita, tedesco d’elezione e formazione, pubblicò in rivista le nove lettere, poi raccolte nel 1927 nel volumetto Lettere dal lago di Como.

In esse descrive come, sotto l’impulso dell’industria, che si avvale delle scoperte della scienza e delle applicazioni della tecnica, l’uomo si sia allontanato dalla natura, con la quale aveva sempre convissuto. Penetrando in luoghi che avevano avuto una loro millenaria cultura, la macchina ha disintegrato una vita di infinita bellezza, non solo esteriore, ma anche interiore. Era una vita di altissimo valore, che poteva sussistere solo in una natura “umanamente” abitata.

Nella nona lettera, sforzandosi di superare la tristezza e la profonda malinconia che ha sentito e sente nel veder scomparire quella vita in armonia con la natura, alla quale apparteneva, si sforza di dir sì al proprio tempo, e di ritenere che ormai non si possa più tornare indietro, né ci possano essere capovolgimenti o differimenti, cambiamenti o miglioramenti, ma si deve trovare una nuova soluzione, cercandola molto in profondità, tale che possa formare una umanità nuova, libera e forte, capace di reggere alle forze sfrenate che spadroneggiano nel mondo.

 

Secondo Romano Guardini, dunque, il futuro della civiltà, e quello dell’uomo stesso, dipendono dalla nascita e dallo sviluppo d’un nuovo tipo di atteggiamento intellettuale e, più ancora, spirituale: un atteggiamento nel quale, oltre a una necessaria familiarità con le nuove condizioni di vita e di lavoro imposte dalla tecnica, trovi spazio una rinnovata consapevolezza del nucleo portante della dignità umana; perché egli era  profondamente convinto che solo sulla dignità della persona possa e debba fondarsi un progetto sociale, qualche che sia. In altre parole, il suo ambizioso obiettivo era quello di umanizzare la tecnica. La tecnica, infatti, a suo parere, non può essere frenata; quel che si può, e si deve fare, è di fornire una rinnovata consapevolezza, basata sulla speranza cristiana e su un ragionevole ottimismo esistenziale, agli uomini che si servono di essa, per evitare che ne siano completamente assorbiti, travolti e sottomessi.

Certo, l’essenza del problema è tutta qui: e Guardini, mente lucidissima e coraggiosa, lo aveva compreso con estrema chiarezza e aveva impostato la possibile soluzione già novant’anni fa; mentre ancor oggi regna una incredibile confusione e la maggior parte dei cosiddetti filosofi brancolano disordinatamente intorno al punto centrale, senza riuscire a individuarlo lucidamente o senza mostrarsi capaci di afferrarne, a pieno, tutte le logiche e necessarie conseguenze. Ne parlano come se si trattasse ancora di una questione accademica, mentre Guardini aveva visto perfettamente, quasi un secolo fa, che si tratta di una questione pratica, oltre che teorica, estremamente urgente: una questione di vita o di morte, dalla quale dipendono il nostro immediato futuro e la nostra stessa sopravvivenza, e che richiede una risposta quanto mai tempestiva.

L’idea centrale di Guardini è che il progresso, in se stesso, non deve essere considerato affatto un male; il male, secondo lui, deriva dal mancato sviluppo di una dimensione spirituale capace di affiancarlo, dirigerlo, progettarlo, umanizzarlo. Insomma, non si tratta di porre dei limiti alla tecnica, ma di portare lo sviluppo spirituale allo stesso livello e alla stessa velocità, per così dire, con cui procede quella. Ma è proprio su questa analisi che non ci troviamo d’accordo. Il progresso è una categoria troppo vasta, troppo indefinita: può entrarci dentro quasi qualunque contenuto possibile. Ora, noi non abbiamo a che fare con un progresso qualsiasi, ma con questo progresso, figlio di questa civiltà, di queste idee, di questa intenzionalità. Si tratta di una civiltà faustiana, antropocentrica, deliberatamente anticristiana: quella nata fra la Rivoluzione scientifica del XVII secolo, tendenzialmente materialista e ateista, e la nascita del moderno capitalismo su base finanziaria (fondazione della Banca d’Inghilterra, 1694), la cui longa manus era – ed è, teniamolo ben presente! – un potere occulto mirante a spazzar via tutte le vecchie credenze morali e religiose, per instaurare una nuova religione universalistica, centrata sul culto dell’Uomo divinizzato (Massoneria e fondazione della prima Gran Loggia, sempre a Londra: 1717).

Stando così le cose, noi non abbiamo a che fare con una idea e con una prassi progressiste “neutrali”: il Progresso, auto-glorificato, si pone, specialmente dall’Illuminismo in poi, come fine a se stesso, oltre che come mezzo, in un circolo vizioso che chiude la strada a ogni possibile spiritualità. In tali condizioni, come si può pensare ad una rinascita spirituale dell’umanità? Se i meccanismi, le strategie, gli obiettivi, del progresso tecnologico sono stati pensati e messi in opera con il fine deliberato di distruggere lo spirito (perché la spiritualità gnostico-massonica che vi è sottesa costituisce una contraddizione in termini; a meno che sia solo il paravento per la brutale dittatura di una élite “illuminata” sull’intero genere umano, come noi riteniamo probabile), come si può sperare di coniugare tecnica e spirito, umanità e progresso? In altri termini, la civiltà moderna è figlia del Diavolo: ed è strano che un pensatore profondo, oltre che intimamente religioso, come Romano Guardini, che pure si è occupato seriamente della presenza diabolica nel mondo, non abbia colto questo problema in tutta la sua sconvolgente portata.

Secondo il filosofo tedesco, noi dobbiamo spiritualizzare la tecnica, in modo da renderla capace di servire i fini dell’uomo. Però, a nostro giudizio, la tecnica ha già preso il controllo dell’uomo, e non perché la tecnica sia, in se stessa, diabolica, ma perché diaboliche erano, e fin dal principio, le intenzioni con le quali l’uomo moderno l’ha pensata, l’ha voluta, l’ha realizzata. Diabolica in senso letterale, cioè in senso biblico: è sempre l’antica tentazione del serpente nel Giardino dell’Eden, ai danni di Adamo ed Eva: Mangiate di questo frutto, che Dio vi ha proibito, e non morirete affatto, anzi, diverrete come Lui. Siamo ancora lì, siamo sempre lì: alla volontà dell’uomo di non morire mai, di rendersi immortale da se stesso; e, in tal modo, di divenire simile a Dio, pari a Dio, il suo creatore. Pertanto, la tecnica con cui abbiamo a che fare, pur non essendo diabolica in se stessa, lo è per il modo in cui è stata concepita; e basta leggere le pagine della Nuova Atlantide di Francis Bacon (scritta nel 1624!) per rendersene conto: i suoi esperimenti sugli animali ricordano l’orribile Isola del dottor Moreau di Herbert George Wells.

Alla domanda, posta lucidamente da Romano Guardini, se sia ancora possibile realizzare un mondo  imperniato sull’uomo e sulla natura dell’uomo, partendo dalla accettazione di quanto la tecnica sta facendo e di ciò che il culto del progresso ha predicato, ci sembra, purtroppo, che si debba rispondere negativamente. I diabolici esprimenti e le pratiche di clonazione e di manipolazione del Dna, l’inseminazione artificiale, la creazione di esseri ibridi, mescolando il codice genetico di specie diverse, tutto questo indica che l’uomo ha completamente perduto il controllo della situazione e che, ormai, la tecnica, insignoritasi della sua anima e divenuta fine e celebrazione di se stessa, dei suoi apparenti e deliranti “trionfi”, lo sta trascinando a grandi passi verso l’orlo dell’abisso. Prima ancora che una guerra atomica o uno sconvolgimento climatico minaccino la nostra sopravvivenza, la tecnica si è già impadronita della nostra natura, la sta modificando, la sta stravolgendo sotto i nostri occhi. Essa sta creando delle creature post-umane e noi non possiamo farci niente, perché quei pochi che lanciano delle grida d’allarme vengono immediatamente redarguiti e zittiti, seppure non ci si limita ad ignorarli o, tutt’al più, a distruggerli con l’arma del ridicolo, presentandoli come folli paranoici, i quali vedono complotti e pericoli dove non ve ne sono, anzi, dove splende radiosa l’alba di un giorno nuovo, che ci porterà tutti i tesori delle magnifiche sorti e progressive.

E allora? Se le cose stanno così, che cosa possiamo fare? Se ogni speranza umana è tramontata - e la ragione ce lo conferma con la massima, inesorabile evidenza - che cosa ci resta da fare? Di nuovo: è strano che Romano Guardini, che era anche, e soprattutto, un cristiano e un sacerdote, non lo abbia visto, o non l’abbia visto in tutta la sua portata: non ci resta che pregare. Pregare, per il cristiano, non è una soluzione di ripiego: è lo strumento principe dell’agire e del vivere umanamente. Una vita senza preghiera, infatti, non è una vita umana, ma bestiale, animalesca. Pregare vuol dire rimanere in contatto con il divino; vuol dire chiedere aiuto a Dio, agli angeli, ai santi, alla Madonna, perché quel che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio. Il Maestro ce lo ha insegnato, allorché ha detto: Se voi aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: sradicati e vai a gettati nel mare; ed esso vi obbedirebbe (Luca, 17, 6). Umanamente parlando, siamo spacciati. Il tempo è scaduto, non c’è più nulla da fare. Abbiamo avuto la nostra grande occasione: coniugare progresso, umanità e amore di Dio; ma l’abbiamo sprecata, inseguendo le mete più facili, le mode più corrive, i miti più banali. Ci siamo avviliti per mezzo della nostra stessa intelligenza. Ora, quanto alle nostre possibilità, siamo perduti. Ma nulla è impossibile a Dio, se noi crediamo in Lui…