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Aristotele: la rivoluzione è nel progetto

di Luca Grecchi - 15/06/2016

Aristotele: la rivoluzione è nel progetto

Fonte: Petite Plaisance Blog

Chi non progetta ciò che può essere progettabile, lo avrà fatto diventare,
col proprio non progettarlo, qualcosa di irrealizzabile,
e a cui non porta più nessuna strada.

La scelta del soggetto e la scelta del titolo
Innanzitutto ringrazio Diego Fusaro, e gli organizzatori, per questo invito.
Vorrei cominciare, in maniera un po’ insolita, con alcune giustificazioni, riguardanti  sia
la scelta del soggetto (Aristotele), sia la scelta del titolo (la rivoluzione è nel progetto). Comincio col soggetto. In un convegno che si intitola Il pensiero ribelle, il nome di Aristo- tele potrebbe sembrare, almeno ad una parte del pubblico, un po’ noioso. Aristotele è infatti solitamente ritenuto il filosofo della logica, del principio di non contraddizione, della causalità, ecc. Ora: sul fatto che il pensiero di Aristotele sia noioso, spero di potervi mostrare che non lo è. Chi comunque, alla fine, lo trovasse sempre noioso, sappia che quest’anno in università ho svolto un corso che aveva per tema La morte nella storia della filosofia, quindi, rispetto ai miei studenti, è andata comunque meglio a voi, essendo Ari- stotele certamente preferibile alla morte…
Il messaggio aristotelico non è “conservatore”
Aristotele è ritenuto anche un filosofo conservatore. Sapete infatti che considerava gene- ralmente corrette le opinioni comuni più diffuse del suo tempo, o meglio le più notevoli; si sentiva insomma corroborato se aveva le stesse tesi di chi lo aveva preceduto, ma in realtà non si esimeva dal criticare anche i predecessori, e li conservava sempre solo su- perandoli, tanto che oggi ricordiamo il suo nome, non il loro. Egli riteneva inoltre che le leggi non dovessero essere modificate troppo spesso per far sì che i cittadini le potessero interiorizzare. Ma ciò valeva a suo avviso solo per le leggi giuste, non certo per quelle ingiuste, per cui – anche in questo senso – non può essere considerato conservatore. La legge era il collante della polis greca, e come tale andava rispettata; non però quando era palesemente ingiusta.
Non è dunque possibile paragonarlo ad un moderno liberale o ad un kantiano, rispettoso a prescindere della norma, delle leggi quali che siano. Egli tematizzò fra i primi, infatti, la differenza fra diritto naturale e diritto positivo. Aristotele cioè distinse fra un diritto confor- me alla natura dell’uomo (la quale sarà sempre il suo riferimento onto-assiologico, ossia di senso e di valore), ed un diritto fatto dalle norme effettivamente esistenti; nel dubbio, ossia nel contrasto del diritto positivo col diritto naturale, è sempre il secondo, per Aristotele, che deve prevalere. Nella Politica, in particolare, c’è un passo in cui emerge in modo pa- radigmatico il suo progetto. Egli scrisse che per conoscere la costituzione migliore, ossia l’assetto economico-politico migliore, occorre conoscere il tipo di vita più desiderabile per l’uomo, e dunque la stessa natura dell’uomo; senza conoscere questa natura, non si può conoscere la costituzione migliore. Sembra una banalità quella per cui, se voglio cono- scere come strutturare la costituzione, l’ambiente di vita migliore per l’uomo, devo co- noscere la natura dell’uomo. È talmente banale questa cosa che, come sapete, l’interesse per la natura dell’uomo e della sua buona vita è al centro della riforma costituzionale su cui saremo chiamati ad esprimerci ad ottobre.
Scherzi a parte, questa teoria basata sulla natura umana e sul diritto naturale, come noto, fu ripresa in seguito, nel Medioevo, anche da Tommaso d’Aquino (che concorda quasi sempre con Aristotele, anche se preferisce il messaggio cristiano quando non può con- ciliarlo col pensiero dello Stagirita), per il quale se una persona è nel bisogno e non è riuscito a trovare nessun modo onesto per sfamare se stesso e la propria famiglia, è an- che autorizzato a rubare, se chi ha in abbondanza non gli viene incontro. Un messaggio, insomma, quello aristotelico, non proprio conservatore.
 “Rivoluzione“ e “progetto“ versus “ribellione”
Consentitemi però qualche giustificazione anche per il titolo, che suona sicuramente stra- niante anche agli aristotelici. “Rivoluzione“ e “progetto“ sono infatti due parole, come qualcuno sicuramente sa, che Aristotele usa raramente, e soprattutto con un significato in parte differente da quello utilizzato qui. Non sto a dirvi le parole greche. Sapete poi che oramai, per i grandi filosofi, esistono i lessici, ossia dei libroni in cui sono catalogate tutte le parole utilizzate nelle loro opere con indicate le citazioni, per cui se voglio analizzare quando Aristotele ha parlato, ad esempio, di „rivoluzione“, non mi resta che analizzare le parole greche che hanno attinenza con questo significato e consultare, in questo caso, il Lexicon curato ottimamente da Roberto Radice. Questa cosa si può fare però in un altro tipo di luogo, più accademico, perché se lo facessi adesso sono sicuro che mi chiedereste piuttosto di parlare della morte…Basti qui dire che sono parole che lo Stagirita non usa molto spesso.
Mi si può chiedere allora perché le ho utilizzate per un titolo. Ebbene: le ho usate – vi svelo un segreto, che dico sottovoce per non farmi sentire dagli organizzatori – per una piccola ribellione al tema di questo convegno, che mi crea un po’ di disagio. La causa di questo disagio non è soggettiva, ossia dovuta al fatto che sono il più vecchio fra i rela- tori, ed i vecchi nel sentire comune non dovrebbero essere ribelli, ma, penso, oggettiva, in quanto ritengo che la situazione generale in cui il mondo si trova richieda qualcosa  di più, come risposta filosofica, di un pensiero semplicemente “ribelle”. A breve chiari- rò meglio questo punto, ma fin da ora segnalo che le parole “rivoluzione” e “progetto” vanno in questa direzione. Mi tocca però, come detto, non essendo propriamente termini aristotelici, il compito di giustificare il loro uso con riferimento al pensiero di Aristotele. Passo quindi ad analizzare i motivi per cui Aristotele può essere considerato pensatore progettuale e rivoluzionario.
Aristotele può essere considerato pensatore progettuale e rivoluzionario
Il primo motivo è che Aristotele, da buon filosofo, era non solo critico verso il presente, perché non lo vedeva molto armonico, ma anche costruttivo, e soprattutto si rivolgeva all’intero che, sul piano sociale, è costituito dal modo di produzione sociale (ossia, con Marx, il processo con cui si svolge la produzione e riproduzione sociale della vita). La chiave di questo processo la trovò anche ai suoi tempi nella cattiva crematistica, ossia nel- la ricerca fine a sé stessa di beni, merci, per estensione denaro. Ebbene: in base a quella natura razionale e morale dell’uomo che egli assume come riferimento (dopo adeguata riflessione), egli pose in essere la prima critica della crematistica che si conosca. La cre- matistica per Aristotele, come tra poco mostreremo, era una cosa innaturale, in quanto si rivolge alla massima produzione, al massimo profitto; ma l’uomo non ha bisogno di più di tanto cibo, più di tanti vestiti, più di tanto denaro per essere felice: l’uomo è un ente finito, limitato, quindi gli basta un numero finito, limitato di beni per vivere bene. Per questo egli fu progettualmente critico della crematistica.
Se il modo di produzione del suo tempo fosse stato un buon modo di produzione so- ciale, giusto, comunitario, rivolto al bene, in cui le persone avessero potuto realizzare liberamente la propria umanità, egli sarebbe sicuramente stato un conservatore, ossia  lo avrebbe voluto conservare a tutti i costi. Questo è l’atteggiamento giusto: non si può essere conservatori, o critici, o ribelli, o dissidenti, o rivoluzionari a prescindere; dipende sempre dalla situazione che ci si trova innanzi, e dalla nostra capacità di comprenderla e valutarla per poi farvi fronte.
Aristotele afferma che la crematistica cattiva (ossia il produrre ricchezza fine a sé stesso, non il produrre e distribuire beni utili, che è necessario: questa è per lui la crematistica “buona”) è innaturale, e lo dice per un motivo abbastanza serio. La crematistica infatti   si basa sulla proprietà privata e sul mercato. Ciò che è privato si oppone a ciò che è pubbli- co, comune, poiché con la privatezza della proprietà si privano appunto le altre persone dell’uso comune di quella determinata cosa, di quei determinati mezzi della produzione. Ma anche il mercato, spesso si dimentica, è l’opposto della comunità. Pensiamo alla comuni- tà ancora oggi più diffusa, ossia alla famiglia. Ebbene, nella famiglia si dà per il semplice piacere di dare, come sa soprattutto chi ha la fortuna di avere figli; nel mercato si dà inve- ce solo per avere in cambio qualcosa di più. Purtroppo, se il mercato invade ogni angolo della vita, distrugge anche la famiglia, o meglio la fa diventare qualcosa di diverso da una comunità, che per essenza si struttura sul dono, non sul profitto.
Aristotele vide per tempo anche la grande irrazionalità della crematistica, giunta oggi all’apoteosi nel modo di produzione capitalistico. Ci si chiede spesso come mai ci siano da un lato grandi bisogni sociali insoddisfatti, e dall’altro tanta disoccupazione. Come mai insomma ci sono tante cose da fare (nel sociale ad esempio), e tante persone che po- trebbero fare e produrre, ma sono lasciate inattive? Come mai i bisogni più urgenti sono, a detta di tutti, cibo e medicine per i poveri, ma si continuano a produrre beni di lusso  e prodotti anticellulite? Perché la comunità umana non si mette in moto per cambiare le cose? Perché non è appunto, contrariamente a quanto i telegiornali dicono, una „comu- nità internazionale“, ma un mercato, ed il mercato sa unire solo ciò che è dotato di potere d’acquisto. Il mercato è l’opposto della comunità perché il dono è l’opposto del profitto. I poveri non hanno soldi? Affari loro, pensa il mercato, basta che non rompano le scatole. Il mercato non ha interesse ai bisogni dei poveri, così come ancor meno ha interesse alla compiuta realizzazione delle persone, alla loro felicità.
Aristotele non è accostabile al “ribellismo” dei vari maîtres à penser
Il suo pensiero punta a costruire una vita buona per tutti
Il pensiero di Aristotele trasposto alla attualità, come mi è stato richiesto di fare, era dunque tutt’altro che conservatore, ma è anzi molto più rivoluzionario rispetto al tanto pensiero ribelle presente nel nostro tempo, in vari maîtres à penser. E qui vengo al motivo per cui appunto non mi trovo a mio agio nell’alveo del pensiero “ribelle”, o “dissidente” che dir si voglia.
Per quanto sia giusto – lo chiarisco a scanso di equivoci – ribellarsi ad una realtà ingiu- sta (e non conservarla: si conserva solo ciò che è giusto), non ci si può nascondere che la ribellione è sempre un atto individuale, o al più microcomunitario, di protesta. Ci si ri- bella cioè individualmente, o a piccoli gruppi. Penso al bel libro di Domenico Losurdo su Nietzsche, intitolato Il ribelle aristocratico. Ecco: il pensiero individualistico, o comunque anticomunitario, di Nietzche è emblematico del ribellismo, anche se seduto qui vicino a me c’è Diego Fusaro che, avendo avuto come maestro il nostro amico Costanzo Preve, ha sicuramente sull’argomento un approccio più generale. Dico le cose che dico, come spero si comprenda, non per una forma mia di masochismo, o per voler diventare anti- patico a coloro che mi hanno invitato, ma in quanto ritengo opportuno sempre riflettere in modo radicale su tutto: questo insegna la filosofia. E penso che questo sia utile per chi ascolta, specie se è giovane. In ogni caso, la ribellione non fa parte del progetto filosofico di Aristotele, perché il suo è un pensiero che punta a costruire, a realizzare una vita buona per tutti, prima ancora che a marcare una distanza personale da uno stato di cose che non condivide. I Greci sapevano benissimo che la loro vita poteva essere individualmente buona, solo se inserita in un contesto buono. Non c’è portone che può tenere fuori dalla casa più felice il male, diceva Solone, se il male si estende tutto intorno ovunque; e Platone diceva allo stesso modo che se nell’intero una parte soffre (così come se nella persona  fa male una parte del corpo, ad esempio un dente), l’intero stesso non può essere felice, perché questa parte è comunque appunto una sua parte, e prima o poi di questa soffe- renza si vedranno gli effetti, individuali e sociali. È evidente del resto che la criminalità, o l’immigrazione drammatica, siano proprio gli effetti evidenti di questa disarmonia del sistema. Marcare ribellisticamente la propria distanza dal potere – o anche criticare il si- stema in singole sue parti, ma non nell’intero –, in questo senso, lascia il tempo che trova, ossia lascia il mondo che trova.
Aristotele sostenne che la crematistica conduce ad una vita innaturale
Per realizzare invece un modo di produzione comunitario, Aristotele disse chiaramente che affidare le modalità economico-sociali alla crematistica, conduce ad una vita inna- turale, contro natura, dunque infelice. Una vita contro natura è infatti una vita infelice, perché la vita felice è una vita naturale, che consente di realizzare, ossia di porre in atto, tutto ciò che appunto nella nostra natura è in potenza, tutto ciò che è più importante, che consente di favorire – con metafora aristotelica – una piena fioritura. Ci sono qui molti giovani: quegli alberi in fiore che siete potranno o meno dare dei bei frutti nella vita, sia in ragione delle vostre scelte, che devono essere rivolte al bene (esse dipendono molto dalla filosofia cui implicitamente o esplicitamente vi rifate), e sia a causa delle condizioni generali del clima, del terreno, dell’ambiente, ovvero – fuori di metafora – del modo di produzione sociale in cui vi trovate a vivere, che si tratta dunque di conoscere in primo luogo, e poi di modificare per il meglio, in base ad un progetto fondato.

Che cosa è il “bene” per Aristotele? E il “bene comune”?
Dicevo poco fa che è importante fare il bene, sia sul piano individuale che sul piano sociale. Mi chiederete dunque: cosa è il bene? Oggi non ce lo si chiede più. Ecco: il bene è, per Aristotele (il quale è sempre un po’ complesso: diceva che l’essere si dice in molti modi, e che dunque anche il bene si dice in molti modi), per limitarsi all’essenziale, ciò verso cui ogni ente, per natura, tende. E questo vale per tutti gli enti, ognuno in base alla propria essenza. Se è nella natura di un cavallo – non sono esperto, ma lo credo – non stare sempre chiuso in una stalla al buio, bensì il correre, mangiare erba fresca, ripro- dursi, ebbene, il cavallo sarà felice se potrà vivere in base alla propria natura. La natura dell’uomo richiede di poter sviluppare soprattutto ciò che egli ha di più proprio rispetto agli altri animali, ossia ciò che gli antichi Greci chiamavano logos, e che si può tradurre con quella ragione morale, con quella ricerca della verità e del bene di cui ogni uomo necessita per essere felice. Occorre creare le condizioni sociali affinché questa ricerca, in ogni vita, si possa realizzare.
I beni, le cose, il denaro, sono solo mezzi, che devono essere ben utilizzati socialmente al fine di una vita felice. È importante distinguere i mezzi dal fine, se si desidera una buona vita. Se i beni, o il denaro, o anche il successo, diventano un fine, ecco che si conduce una vita innaturale, in cui l’uomo cioè si derealizza, vive male, è infelice. Non realizza il bene, ossia non realizza quel rispetto e quella cura verso gli altri uomini e verso il cosmo, chi agisce diversamente. Oggi purtroppo l’attuale modo di produzione sociale pone come fini quelli che sono i mezzi (le cose, il denaro, il tempo), e come mezzo ciò che è invece un fine (la nostra vita).
Avendo rapporti con gli studenti da diversi anni, so che i concetti di verità, bene, felicità, suscitano oggi, soprattutto tra i laureandi di filosofia abituati alla filosofia analitica, mol- ta diffidenza, sia perché non sono di solito ben definiti (se una cosa non è chiara, non ap- passiona), e sia perché sono talvolta utilizzati ipocritamente da persone che non hanno alcuna intenzione di favorire il bene (penso a certi richiami di politici al “bene comune”). Tuttavia, a mio avviso, è proprio il fatto – per quanto concerne la filosofia – che si sia persa l’abitudine ad incardinare il pensiero su questi concetti, che consente poi alla realtà economica, e politica, di fare ciò che vuole senza nemmeno una opposizione concettuale. Prendiamo alcuni fatti della cronaca recente.
Il sindaco di Lodi è stato arrestato il mese scorso per una presunta turbativa d’asta. Ora: io non sono un esperto di fatti giudiziari tipo Travaglio, per cui non entro nel merito del- la vicenda, che non conosco. Tuttavia, sui giornali è emerso che egli ha affermato, a sua difesa, di avere effettuato questa sorta di “trattative riservate“ con questa ditta fornitrice “per il bene della città“. Ora: ci si può ovviamente credere o non credere, ma sicuramen- te la giustificazione fa riflettere. Prescindendo sempre dal caso concreto, una assenza di riflessione sul bene può consentire a chiunque di far passare una possibile ricerca dell’in- teresse privato come ricerca dell’interesse comune, pubblico, e questo anche se – come abbiamo visto in precedenza parlando della proprietà – privato e pubblico si oppongo- no. Bisogna invece tornare al progetto implicitamente rivoluzionario di Aristotele, ossia definire chiaramente che cosa è il bene, che cosa è la felicità, se si vuole realmente che il fine della politica (cui l’economia dovrebbe essere subordinata) torni ad essere quello di realizzare una vita buona e felice per tutti, il famoso “bene comune“ appunto. Per fare questo, come ricordato, occorre conoscere la natura, l’essenza dell’uomo, ciò che l’uomo è costitutivamente.
Per Aristotele, insomma, serve una sorta di rivoluzione delle modalità socio-economiche dominanti
Essenza è parola molto disprezzata, perché rinvia erroneamente, per molti, alle Idee pla- toniche che starebbero nell’Iperuranio, ma significa semplicemente comprendere ciò che una cosa è, ciò che la costituisce; senza capire che cosa un ente è, che cosa un uomo è, il suo fine, si può dire di tutto, anche che l’uomo ha gli stessi bisogni, che so, del mulo da soma, per cui gli basta lavorare e consumare per essere felice. Ebbene: non è così, perché non è questa la sua essenza. Proprio su questa base, ossia assumendo come fondamen- to di senso e di valore la natura umana, Aristotele giunge a concludere che le modalità crematistiche di questa vita devono essere completamente rivoluzionate, perché innaturali, perché non consentono agli uomini (ma spesso anche a vegetali ed animali) di realizzare il tipo di vita verso cui, per natura, tenderebbero. Serve dunque, per Aristotele, una sorta di rivoluzione delle modalità socio-economiche dominanti, da realizzare mediante un progetto politico che tenga conto della essenza degli uomini (e degli enti naturali tutti, se vogliamo), volto a favorire la buona vita, la vita felice. Ecco dunque, in breve, il  perché della presenza delle due parole poco aristoteliche, “rivoluzione“ e “progetto“, nel titolo di questa relazione che assume come auctoritas Aristotele.

Platone ed Aristotele andavano all’essenziale. Oggi non lo si fa più
Per tornare dunque al discorso sul conservatorismo di Aristotele, qualcuno potrebbe con buone ragioni contestarmi, ad esempio, che sulla questione della proprietà dei mezzi della produzione sociale lo Stagirita si poneva contro Platone, sottolineando che una proprietà privata degli stessi (sebbene con uso comune: Aristotele, come Tommaso, ave- va questa fede, che cioè i proprietari privati potessseno lasciare un uso comune dei loro beni agli altri) era migliore della proprietà pubblica o comune. Ciò in quanto, diceva Ari- stotele, ciò che è pubblico rischia sempre di non essere di nessuno, sicché nessuno se ne prende cura. L’osservazione è senza dubbio pertinente, e per questo va subito affrontata. Io però farei prima notare che Platone ed Aristotele, i filosofi classici, andavano all’essen- ziale, ossia parlavano dei grandi temi, delle cose importanti (la proprietà dei mezzi della produzione sociale, le forme mercificate o meno della vita). Oggi non lo si fa più: ci si mette a riflettere sull’ombra che fanno queste grandi strutture (se l’ombra si chiami lira o euro, destra o sinistra, ecc. non fa differenza), non sulle strutture stesse. Se lo si facesse an- cora, si avrebbe anche una buona risposta per Aristotele, con cui in questo caso non sono d’accordo quando afferma che necessariamente delle cose comuni non si occupa nessu- no; in un differente modo di produzione sociale, nascente da una buona educazione al bene comune – so che “educazione” è parola oggi antipatica, ma è davvero la chiave di tutto: i bambini, i giovani, apprendono con l’abitudine prima, dunque anche con l’esem- pio, e con l’educazione poi –, anche le cose pubbliche potrebbero essere considerate di tutti e di ciascuno, cose di cui avere rispetto e cura.

Oggi si mercifica e si include anche la critica ribellistica.
Non si accetta quella fondata sulla natura umana: progettuale
Consentitemi poi, dopo avere parlato del bene, di dire due parole anche sul tema della verità, che è l’altro grande tema della filosofia classica. Sappiate che l’alternativa è sem- pre che parli della morte, quindi consentitemelo. Ebbene: chi di voi ha frequentato il Li- ceo, ed ancor più le aule universitarie di Filosofia, sa che sia in Platone che in Aristotele prevale una concezione della verità di tipo logico-fenomenologico, per cui vero è cioè quel discorso che dice, in maniera logicamente coerente e fenomenologicamente cor- retta, le cose come sono; se dico che qui siamo tutti seduti, e siamo davvero tutti seduti, dico una verità logico-fenomenologica. Ora: tutto il discorso sulla realtà potrebbe essere affrontato in questi termini, e così prevalentemente oggi è fatto, specie in università, se- guendo sempre il dettato della mera descrittività (avalutatività) delle scienze teorizzato da Max Weber, e fatto poi proprio dalla maggior parte del pensiero liberale. Se descrivo la realtà capitalistica per come è, posso fare un discorso scientifico.
Il ribelle, che descrive la realtà e vi apporta poi la propria critica soggettiva, è a mio av- viso includibile in questo discorso, perché non lo modifica nella sua struttura di fondo. La critica anche dura a singole parti della realtà è mediaticamente ed accademicamente accettata. Anzi, si mercifica anche la critica, come Fusaro ha scritto varie volte,   perfino
quella dell’intero capitalistico. L’unica critica che si fatica ad accettare è quella fondata (sulla natura umana), costruttiva, progettuale, che cerca cioè di mostrare in modo serio le linee generali di un modo di produzione sociale alternativo; che indichi cioè che un altro mondo è realmente possibile, e che – rispetto a questo composto di ingiustizia, alienazio- ne, inquinamento – è anche più desiderabile. La vera critica è, a mio avviso, solo quella che non sa restare in sileznzio di fronte alla domanda: “Come dovrebbe essere un modo di produzione sociale per essere migliore?“.
Come dovrebbe essere un modo di produzione sociale per essere migliore?
Ebbene: questa era la domanda a cui cercavano di rispondere Platone ed Aristotele, che non erano certo dei folli; eppure oggi si è considerati folli se ci si occupa di ciò di cui si occupavano loro, anche se nessuno mi sa spiegare perché: forse la nostra società ha in- vertito, rispetto al passato, i canoni della normalità e della follia. In questi due filosofi, i classici, è pertanto implicitamente presente, in quanto innerva il loro discorso etico-poli- tico, una concezione della verità che definirei onto-assiologica, volta cioè a ricercare non solo come le cose sono (la concezione logico-fenomenologica della verità si adatta per- fettamente solo ad una parte di realtà, quella che non può mutare ad opera dell’uomo), ma anche come le cose devono essere per essere vere e buone, ossia realmente conformi alla natura umana. Platone ed Aristotele, quando parlano nelle loro opere di come deve essere la proprietà dei mezzi della produzione sociale, se è bene o meno che ci siano il mercato ed il denaro ad incardinare i rapporti sociali, parlano proprio di queste cose. In particolare, i due concordano che se si vuole creare una comunità di amici – e l’amicizia, dice Aristotele, è ancora più importante della giustizia – occorre largamente limitare la privatezza e l’accumulo di possessi, così come la mercificazione della natura e dei rap- porti, per i motivi che dicevamo all’inizio. Essendo dei classici, il loro pensiero non può essere espunto dai manuali di storia della filosofia; ma il loro insegnamento rivoluziona- rio, come sanno bene gli studenti universitari, viene oggi purtroppo spesso “decaffeina- to“ dalla filologia, dalla ermeneutica, dallo specialismo, ecc.
Capire come le cose devono essere, non solo come le cose sono
Importante è capire che si può parlare con verità, in modo fondato, anche di come le cose devono essere, non solo di come le cose sono, se si pone come fondamento del discorso onto- assiologico la natura umana, che è un insieme di essere e dover essere, descrizione e pre- scrizione, atto e potenza per dirla sempre con Aristotele. Si può cioè, con verità, non li- mitarsi a descrivere, ma anche valutare, giudicare il modo di produzione in cui viviamo, per mantenerlo se è buono, o per modificarlo, anche radicalmente, se necessario. Tutto questo, contrariamente a quanto si è soliti ritenere, è presente nel pensiero di Aristotele, che dunque non è molto conservatore.
Aristotele infatti, come noto, non ha solo una filosofia teoretica (comunque non noiosa), ma possiede anche una filosofia pratica, che riguarda soprattutto le cose che mutano, in particolare quelle che mutano ad opera dell’uomo, che dipendono dalla azione umana. Si dice talvolta che le cose naturali, e quelle umane, valgono per Aristotele “per lo più“, una espressione che lui usava effettivamente spesso. Ma “per lo più” non vuol dire  che per Aristotele queste cose valgono approssimativamente, bensì che valgono “nella mag- gior parte dei casi“, diciamo nel 99% dei casi, salvo eccezioni. Esempio: da due animali della stessa specie nasce solitamente un animale di quella specie, salvo creature deformi (per la cui nascita occorre indagare le cause di questa innaturalità); allo stesso modo, da un contesto comunitario, non privatistico né mercificato, nascono per lo più relazioni amicali ed armoniche, ossia non egoistiche né conflittuali, salvo appunto eccezioni (di cui indagare le cause: la scienza è sempre ricerca delle cause, perché non si conosce la verità senza conoscere le cause). Questo significa che anche in campo etico e politico Ari- stotele dava indicazioni stabili, precise, rigorose, nel limite appunto in cui lo consentiva l’oggetto delle sue indicazioni, ossia nel limite appunto in cui lo consentono le cose na- turali ed umane, che mutano, e che non hanno dunque la stessa precisione degli oggetti matematici. Non si può descrivere il modo di produzione ideale nei dettagli, ma questo non significa che non si possa dir nulla sul modo di produzione ideale.
La kallipolis aristotelica.
Chi vive senza un fine e senza un progetto,
conduce davvero una ben misera esistenza
Guardate come fila lineare il discorso di Aristotele: occorre conoscere l’essenza, il bene, il fine della vita umana, perché senza questo non possiamo sapere quale è la forma che deve assumere il modo di produzione sociale, il nostro modo di vita, per essere buono. Aristotele afferma chiaramente che ogni ente ha un fine, che segna il suo progetto di vita; chi vive senza un fine, senza un progetto, conduce davvero una ben misera esistenza. Si tratta tuttavia, se si vuole vivere una buona vita, di scegliere – per quegli enti come l’uo- mo che possono scegliere – un fine buono, o comunque il fine migliore, e fare di tutto, anche rivoluzionare il modo di produzione esistente, per realizzarlo. La filosofia pratica aristotelica è dunque tutt’altro che “neutrale“, avalutativa, ma giudica la realtà sociale, proprio per modificarla. Diversi anni fa scrissi un libro, che come quasi tutti i miei libri ha avuto un insuccesso enorme (l’opposto dei libri di Diego Fusaro), intitolato Il filosofo e la politica. I consigli di Platone, e dei classici greci, per la vita politica. Mi trovai, alcuni giorni dopo l’uscita di questo libro, in un convegno con Mario Vegetti, famoso antichista, che disse pubblicamente che la parola “consigli“ oggi ai più suona fastidiosa, antipatica, pre- scrittiva. Ed ebbi l’impressione che suonasse tale anche a lui, che pure è probabilmente il maggiore studioso al mondo vivente della Repubblica di Platone. Eppure Platone, ma anche Aristotele, non danno semplicemente consigli, bensì mostrano, con verità – per quanto sempre aperti dialetticamente alla critica –, come si deve vivere, cosa si deve fare per vivere bene. La scienza politica di Aristotele non aveva solo lo scopo di conoscere che cosa è il bene, ma anche di realizzarlo, e questo mediante la realizzazione di un modello ideale di kallipolis (due interi libri della Politica sono dedicati a questo tema), di “città bella“,  di buon modo di produzione sociale in cui vivere. Con metafora aristotelica si può dire che il modello, il progetto sulla totalità sociale, è un po‘ come il bersaglio per gli arcieri, senza il quale la freccia non si saprebbe nemmeno dove tirarla. Se non conosciamo il fine da raggiungere, dove tiriamo la freccia, ossia dove orientiamo le nostre energie, come organizziamo i nostri strumenti?
Non basta il ribellismo.
La critica, anche etimologicamente, rinvia alla decisione
Ecco: per Aristotele si tratta di fare il contrario di ciò che si fa oggi, ossia di allargare gli spazi comunitari, armonici, di amicizia, e per conseguenza di restringere quelli privati- stici, mercificati, conflittuali. Non si può fare le “anime belle“, e dire che si vuole la comu- nità, la pace, la salvaguardia ambientale del pianeta, senza non tanto criticare il modo di produzione presente, quanto senza delineare un progetto di modo di produzione alter- nativo. Non basta il ribellismo. La critica, anche etimologicamente, rinvia alla decisione, ma per decidere, per effettuare una scelta, servono almeno due alternative. Il progetto alternativo già pronto io non ce l’ho (anche se qualcosa ho scritto), ma da molti anni sto cercando di mostrare che occorre riflettere in questa direzione, che è poi quella della filo- sofia classica. Aristotele, affrontando la onto-assiologia (il dire non semplicemente come le cose sono, ma come dovrebbero essere), sapeva di poter subire delle critiche, e molto più dei “ribelli”: chi vuole costruire fondatamente un mondo nuovo, risulta infatti soli- tamente più antipatico, poiché potenzialmente più pericoloso dei “dissidenti”. Tuttavia non si può pensare a questo tema come sovente si fa oggi, ossia come al luogo che, sulle antiche mappe, indicava le zone sconosciute: hic sunt leones. Sulla progettualità non ci sono testi su cui basarsi, non c’è la letteratura in inglese delle riviste specialistiche, ma  ci deve essere la nostra natura razionale e morale di uomini a guidarci. I filosofi classici, rispetto ai tanti “critici critici” contemporanei, sono grandi proprio perché scrivono sulle cose, su ciò che esiste, su ciò che è in potenza ma può diventare in atto.
Chi vuole fare filosofia deve ragionare sull’intero.
Ogni modo di produzione è storico
Chi vuole fare filosofia come i classici, e dunque – a mio avviso – chi vuole fare filosofia, deve riabituarsi a ragionare sull’intero. Sull’intero tutto, anche su ciò che non si può mo- dificare (le cose eterne, che non sono dei dettagli); ma, soprattutto su ciò che si può mo- dificare per il meglio, l’uomo ha il dovere di intervenire. Non si deve cadere nell’errore di ritenere immodificabile la realtà storica. La realtà storica è storica, e come tale, appunto, può mutare. Oggi si pensa che la realtà in cui viviamo, il modo di produzione capitalisti- co – col suo portato di sfruttamento, di alienazione, di ingiustizia –, sia immodificabile; non lo si nomina nemmeno, in modo tale che, così facendo, esso appaia naturale come l’aria che respiriamo. Non è così. Ogni modo di produzione è storico, e come tale destinato a mutare storicamente. Si tratta solo di modificarlo per il meglio, e non lasciare agire liberamente le forze più potenti, di solito “poco attente” al bene comue. Pensate solo a cosa sarebbe accaduto se, nel modo di produzione schiavistico, lo si fosse considerato immodificabile. Esso si è poi modificato per motivi differenti (poiché si considerò più economico, in sostanza, rendere precari gli schiavi facendoli diventare lavoratori, che non mantenerli a vita), ma senza la spinta di chi mostrò l’ingiustizia della schiavitù non si sarebbe giunti, probabilmente, nemmeno ad alcune delle piccole garanzie e libertà at- tuali. Come scrisse Eraclito, chi non spera quello che potrebbe essere sperabile (io direi: chi non progetta quello che può essere progettabile – non sono un amante della categoria filosofica della “speranza”), lo avrà fatto diventare, col proprio non sperarlo (col proprio non progettarlo), qualcosa di irrealizzabile.
Preparare su solide fondamenta quanto meno il progetto
So ovviamente che si arriva a progettare, ossia a pensare fondatamente in grande, solo alla fine della ricerca, o comunque ad una età più avanzata, per cui non voglio mettere sulle spalle dei giovani qui presenti compiti troppo gravosi, anche se è bene che inizino sin da ora a pensarci. Ci si arriva comunque solo quando si è compreso il fondamento (cosa è l’uomo): solo in tal modo si possono organizzare i mezzi in vista del fine. So anche che la teoria (quella dei tempi lunghi di cui sto parlando), rispetto alla prassi, è di solito poco considerata, e soprattutto fra i giovani, che – diceva sempre Aristotele – seguono più le passioni. Tuttavia, affidandosi al breve termine, alla contingenza, alle cose che luc- cicano, si costruiscono al più – se mi si passa la metafora della favola de I tre porcellini, la cui frequentazione è rinverdita dal fatto che ho una figlia piccola – “casette di paglia”, os- sia microproposte di riforma (uscita dall’euro, ecc.), che non reggono alla forza del lupo capitalistico; il compito di chi ha una età maggiore è invece quello di preparare, se non proprio la casa, quanto meno il progetto per la casa di abitazione da costruire con mattoni e cemento, e su solide fondamenta. Questo è ciò che, grazie soprattutto ad Aristotele, sto cercando di fare, e che spero molti altri con me cercheranno di realizzare nel tempo. Vi ringrazio.