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Il tema dell’identità europea, come l’araba fenice che periodicamente risorge dalle sue ceneri o il mitico mostro di Loch Ness che altrettanto periodicamente riemerge dalle profondità del suo lago scozzese, è tornato da qualche tempo ad occupare il proscenio del dibattito non solo culturale, ma anche politico. A farlo risorgere, o riemergere, è, come tutti possiamo facilmente constatare dando semplicemente un’occhiata ai giornali, il rapporto, che alcuni vivono come una minaccia, con gli immigrati di religione musulmana presenti nel nostro paese e in Europa. La cronaca non è certo avara di episodi al riguardo. Ma a parte la cronaca, vi è dell’altro. Da noi si è formata una sorta di corrente giornalistica e politico-culturale costituita da “atei devoti” o “atei cristiani”, secondo la loro stessa definizione. Si tratta di laici non credenti i quali, tuttavia, ritengono necessario inserire nelle loro analisi, in funzione anti-musulmana, continui richiami alle “radici cristiane” dell’Europa.
La dinamica che si innesca in questi casi è ben nota sia ai sociologi che agli psicologi. La percezione dell’altro porta inevitabilmente a interrogarsi su se stessi, su chi siamo noi, sulla propria identità. Questo accade, prevalentemente, quando l’altro è visto come fonte di pericolo. E tale è, innegabilmente, il caso dei musulmani, spesso e volentieri associati dai mezzi di informazione ad immagini di violenza e di morte. Jack Goody osserva, nel suo Islam ed Europa (Raffaello Cortina, Milano 2004), che oggi potremmo applicare ai musulmani il celebre incipit del Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels: “Uno spettro si aggira per l’Europa”; ma non si tratta più dello spettro del comunismo, bensì di quello dell’islam e del terrorismo di matrice islamica. Questo è, indubbiamente, quanto ci si vuole far credere. Eppure, questo discorso non sta in piedi, relativamente all’islam, né da un punto di vista storico, né sul piano dei valori, né sul piano aritmetico.
Storicamente, osserva Goody, “l’islam non è mai stato semplicemente l’Altro, l’Oriente, ma un elemento europeo: non solo parte del nostro passato, ma anche del nostro presente, nel Mediterraneo, come nei Balcani, a Cipro come in Russia. Dobbiamo renderci conto della sua importanza e accettare la relazione, anche se la sua influenza ha avuto una componente religiosa importante verso la quale possiamo provare avversione”. Passando ai valori, Goody ritiene che opporre quelli giudaico-cristiani a quelli musulmani sia “uno dei miti più inquietanti dell’Occidente”. Le tre grandi religioni monoteistiche hanno, infatti, le stesse radici e lo stesso padre nella fede, Abramo. La sensazione di pericolo non appare molto fondata, sia per quanto riguarda il nostro paese, sia per quanto concerne l’Europa, nemmeno se ci atteniamo rigidamente ai dati numerici.
La “fotografia” più aggiornata al momento disponibile relativa alla presenza dei musulmani in Italia, ci riferiamo al rapporto dell’Open society institute e al più recente studio della Caritas e della Fondazione Migrantes, ci fa infatti sapere che gli immigrati musulmani nella nostra penisola sono circa 800.000, pari all’1,4% della popolazione, un numero di gran lunga inferiore a quelli di altre nazioni europee, dove comunque i musulmani sono una minoranza: in Francia, gli islamici sono 5 milioni; in Germania 3,2 milioni, ossia il 3,8% della popolazione; in Gran Bretagna 2 milioni, il 3,4% della popolazione (cfr. l’articolo “Islam: sono 800.000 i musulmani d’Italia”, in www.vita.it). Nell’intera Unione Europea, i musulmani ammontano a 15 milioni (prima dell’ampliamento verso est), su una popolazione complessiva di 324.000.000 di abitanti. Resta da valutare il ruolo del terrorismo quale possibile elemento di destabilizzazione. Operazione, questa, molto delicata giacché, dopo l’11 settembre 2001, cioè dopo il crollo delle Twin Towers causato da uno spettacolare attentato terroristico, i media sono particolarmente sensibili su tale argomento. Se, però, lasciamo perdere l’enfatizzazione e la superficialità mediatiche, e privilegiamo le analisi scientifiche, ci rendiamo subito conto che il peso del terrorismo è davvero modesto. Esso è stato finora in grado, e lo sarà presumibilmente anche in futuro, di causare vittime e lutti, ma non possiede alcun respiro strategico, non è l’avanguardia di una marea montante islamica che potrebbe travolgere l’Europa e l’Occidente, ma, al contrario, è in crisi ed è il segno di una profonda difficoltà del mondo islamico a rapportarsi con la modernità.
Questo dato emerge con molta chiarezza negli studi di Olivier Roy. Il dibattito che si è svolto negli ambienti del neofondamentalismo estremista islamico tra le fazioni dedite alla predicazione (da’wa) e quelle che optano per la guerra santa (jihad) ricorda molto, allo studioso francese, quello che, negli anni Venti e Trenta dello scorso secolo, si svolgeva a sinistra tra quanti privilegiavano il lavoro di propaganda politico-culturale e quanti preferivano il ricorso all’azione diretta (sostanzialmente, i leninisti): “Bin Laden ha scelto l’azione e ha fallito”. La sua Al-Qaeda “non è che una setta, millenarista e suicida. Non siamo i soli a essere giunti a questa conclusione: vi sono arrivati anche molti neofondamentalisti radicali” (cfr. O. Roy, Global muslim, Feltrinelli).
Gli elementi raccolti convergono, ci pare, in direzione di un ridimensionamento degli allarmi lanciati dai laici confessionali. È, pertanto, ragionevole supporre che questi timori abbiano un’origine più endogena che esogena. Se, in altri termini, i seguaci di Allah sono considerati, da un settore importante del pensiero laico, una sfida che potrebbe rivelarsi mortale per l’Europa, è perché questi laici, sentendosi incerti, insicuri, temono di non essere in grado di raccoglierla e vincerla. E perciò fanno la voce grossa. Di qui i forti richiami identitari e gli appelli alla difesa dell’Europa.
Ma qual è l’identità dell’Europa? La risposta dei laici – tanto degli atei devoti quanto dei laici tout court (dei “laicisti”, come sono soliti dire i cattolici, con un termine che ha una sfumatura negativa) – è univoca ed al tempo stesso alquanto paradossale, come cercheremo di mostrare: l’universalismo. Ciò che caratterizzerebbe l’Europa, rispetto alle altre configurazioni storiche, è il fatto che i suoi valori (diversamente declinati a seconda della sensibilità culturale di ciascuno), essendo universali, recherebbero in sé una incomprimibile forza espansiva, tenderebbero naturalmente a impregnare le altre culture. Il nemico principale dell’universalismo è dunque il relativismo, cioè quella filosofia che non crede nella “illusione delle invarianti” (Latouche), ossia non crede che esista una dimensione trascendente le singole culture e che questa dimensione trascendente abbia trovato nell’Occidente – in versione cristiana o secolarizzata – il suo vettore privilegiato. Su questo punto, che è decisivo, quasi tutti i laici sono d’accordo, sia quelli devoti, sia quelli che continuano a professare senza problemi la loro miscredenza (si veda, a questo proposito, il recente saggio di Giovanni Jervis Contro il relativismo, Laterza, Roma-Bari 2005). La differenza tra queste due “famiglie” laiche sta in ciò, che i laici alla Pera, contrariamente agli altri, hanno accettato il capovolgimento del discorso illuministico proposto dal cardinale Ratzinger, nel frattempo divenuto papa; hanno cioè condiviso il suggerimento di passare dalla formulazione di valori ritenuti in sé validi a prescindere dal loro fondamento teistico – valori che sarebbero quindi cogenti anche se Dio non esistesse (etsi Deus non daretur) – alla possibilità di vivere questi valori come se Dio esistesse (veluti si Deus daretur). L’adesione a questa proposta è, evidentemente, il segno che, per questa componente del mondo laico, la cultura laica non è più in grado, da sola, di garantire la necessaria coesione sociale e che occorre, per porre rimedio a una disgregazione che rischia di travolgere la stessa società liberaldemocratica sotto i temuti colpi degli immigrati di religione musulmana, che il cattolicesimo riacquisti in qualche maniera una dimensione pubblica, con una (problematica) inversione del processo di privatizzazione della sfera religiosa tipico della modernità.
Questa seconda opzione, fatta propria dagli atei devoti, ha come conseguenza che, nella definizione dell’identità europea, la “prospettiva cristiana”, per dirla con un filosofo cattolico spagnolo, Julián Marías, assume un ruolo determinante, mentre gli altri apporti o restano sullo sfondo, costituendo, nel migliore dei casi, solo una base, una rampa di lancio, del cristianesimo europeo (pensiamo all’apporto greco, romano, germanico) o non vengono menzionati affatto (si pensi all’importante contributo dato dalla civiltà islamica e basta andare in Andalusia o anche in Sicilia per apprezzarlo). Un primo paradosso, che però ha, in questo contesto, una sua coerenza, è che, come ha scritto Marías, il modello del buon europeo, dell’europeo esemplare, diventa san Paolo, cioè un fariseo originario di Tarso, in Cilicia, regione dell’Asia Minore, l’attuale Turchia (circostanza, questa, che renderà felici quanti sono favorevoli all’ingresso della Turchia in Europa). Paolo, infatti, è un giudeo – secondo alcuni, può essere considerato il vero fondatore del cristianesimo – nutrito di cultura greca, lingua nella quale scrisse le sue lettere, e cittadino di Roma, al cui diritto farà appello per evitare di essere flagellato. In lui si realizza, quindi, quella fusione alchemica da cui scaturirà l’Europa cristiana. Per un’altra filosofa spagnola, María Zambrano, il prototipo del buon europeo è invece sant’Agostino, nato a Tagaste, in Numidia, territorio dell’Africa settentrionale. La frase di Agostino: “Ritorna in te stesso; all’interno dell’uomo abita la verità” costituisce, per la Zambrano, l’atto di nascita dell’uomo europeo. Con queste parole, Agostino scopre l’interiorità, che anche per lo stoicismo pagano era importante; ma mentre gli stoici temevano l’interiorità a causa della sua illimitatezza, della sua dismisura, e perciò cercavano di limitarla, controllarla, Agostino ritiene, al contrario, che l’uomo, nella cui interiorità si riflette la verità, debba partecipare della sua infinitezza: “Essere persona cristiana significa essere infiniti e senza misura; essere individuo stoico significa avere una misura, essere soggetti a un limite […] La persona cristiana, invece, non ha limite, né per le sue forze, né per la sua vita, né per la sua morte” (cfr. L’agonia dell’Europa, Marsilio, Venezia 1999).
Un altro, e ben più importante, paradosso è che l’universalismo di cui tanto si vantano Pera e i laici in genere, è in realtà una contraffazione dell’autentico universalismo, poiché si risolve in una esaltazione del pensiero unico neo-liberale e filo-atlantico, laddove un vero discorso universale comprende e rispetta le differenze. Scrive infatti il presidente del Senato: “I valori sono unici e condivisi: non c’è spazio, in questa visione universalistica dei valori e dei diritti, per distinzioni fra genti, culture, paesi” (M. Pera/J. Ratzinger, Senza radici, Mondatori, Milano 2005). Qui la distanza fra il laico e ateo devoto Pera e un laico senza aggettivazioni e francamente non credente come Giovanni Jervis si annulla completamente. Nella sua arringa contro il relativismo, personificato nel suo pamphlet da Serge Latouche, infatti, Jervis delinea un modello universalistico positivo che coincide, puramente e semplicemente, con quello occidentale-liberale, di cui si teorizza senza ipocrisie e infingimenti la superiorità sugli altri modelli. Tuttavia, proprio dal pensiero cristiano e cattolico, in teoria apprezzato da Pera, ci vengono una serie di utili indicazioni su cosa dobbiamo davvero intendere quando parliamo di linguaggio universale, di universalismo. Un grande teologo cattolico, Hans Urs von Balthasar, era solito dire, usando una formula molto suggestiva, che “la verità è sinfonica” (die Wahrheit ist symphonisch). Il mondo, inteso sia come mondo naturale che come mondo umano, viene da lui paragonato a una sinfonia. La sinfonia è una composizione musicale – un universo musicale, per così dire – in cui convivono un massimo di unità e un massimo di pluralità. Ogni strumento musicale conserva pienamente la sua singolarità (la sua differenza) ed è perciò perfettamente riconoscibile, ma tutti, al tempo stesso, concorrono a formare una compiuta armonia. La verità, che è Dio, si rivela nella sua creazione in modo necessariamente plurale e sinfonico, perché nessuna forma può contenerla pienamente, né le forme naturali, né quelle culturali, opera dell’uomo fatto a Sua immagine e somiglianza. Per questo, la sinfonia ha sempre in sé qualcosa di drammatico, si accompagna sempre a tensioni e dissonanze, che però non la fanno mai scadere in cacofonia, ma ne costituiscono la vera forza. L’opposto della sinfonia universale della verità è l’unisono, cioè il suono sempre identico, senza ascese né discese, le cui espressioni politiche sono le tirannie e i totalitarismi, antichi e nuovi. L’unisono è una perversione del discorso sinfonico universalistico poiché, come scrive Julián Marías, misconosce “la diversità dell’umano, l’indole conflittiva”, ed afferma “l’omogeneità, l’unanimità, che è sempre imposta, appunto a costo della verità, del suo disconoscimento o falsificazione” (cfr. Tratado sobre la convivencia, Martínez Roca, Barcelona 2000). Il modo in cui l’unisono si impone è quello dell’accordo, cioè, letteralmente, della confluenza, più o meno forzata, delle diversità verso uno stesso “cuore”, un medesimo centro, nel quale esse debbono, volenti o nolenti, identificarsi.
Non bisogna fare grandi sforzi di fantasia per capire qual è, oggi, questo “cuore” al quale siamo tutti chiamati ad accordarci, pena l’annientamento sotto tonnellate di bombe all’uranio impoverito: è la globalizzazione occidentale, il nuovo ordine mondiale che i “rinati in Cristo” di Washington vorrebbero instaurare sull’intero pianeta. La risposta sinfonica, universalistica, alle politiche neototalitarie dell’accordo consiste nell’adottare politiche di concordia, ovvero di convivenza. Di solito, accordo e concordia sono considerati sinonimi, ma, ci dice Marías, “niente è più pericoloso del confondere la concordia con l’accordo”. L’accordo, infatti, porta alla reductio ad unum delle differenze, mentre la concordia è la decisione di più “cuori” di vivere insieme, di convivere. Decisione che, per Marías, come d’altronde per von Balthasar, è altamente drammatica perché esige, al tempo stesso, “uno scrupoloso rispetto della verità”, ossia “della struttura della realtà”, e la sua manifestazione in forme plurali, in forma di convivenza, vale a dire “con le sue differenze, le sue discrepanze, i suoi conflitti, le sue lotte nell’ambito della convivenza, di questa operazione che consiste nel vivere insieme”. Se l’universalismo concorre a plasmare l’identità dell’Europa, è in questo senso che bisogna intenderlo. Il vero universalismo tiene dunque insieme la verità, che è una, e le differenze attraverso le quali essa si manifesta. È inclusivo senza essere assimilatore. Conciliare queste due esigenze non è compito facile. Ci si può riuscire, secondo Marías, solo se facciamo appello a quella facoltà tipicamente umana che è il pensiero, l’uso della ragione. Questo ci porta a riconsiderare e rivalutare il contributo greco alla definizione dell’identità europea (non possiamo, infatti, sottacere che la Grecia è, filosoficamente, la patria della ragione, del logos, a non svilirlo, come normalmente accade, al semplice e mortificante ruolo di orpello retorico.
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