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Viale del tramonto

di Alasdair Macleod - 24/06/2016

Viale del tramonto

Fonte: controinformazione

 
Vi è una crescente paura nei circoli finanziari e monetari: c’è qualcosa di profondamente sbagliato nell’economia globale. I funzionari pubblici e gli operatori di mercato sono confusi dai fallimenti della politica, e in privato sono invece decisamente pessimisti poiché incapaci di vedere come lo stato possa risolvere questo caos. Non è esagerato dire che aleggia nell’aria un crescente senso di catastrofe imminente.

La ragione è che i macroeconomisti di oggi hanno fallito nell’analisi di quel soggetto su cui professano di essere esperti: l’economia. Le loro raccomandazioni sono diventate l’opposto di ciò che la logica e la teoria economica dicono che sia la vera strada verso il progresso economico. Quest’ultimo non è più nemmeno sulla loro lista degli obiettivi. L’adattabilità degli esseri umani alle loro prescrizioni ha permesso al progresso d’andare avanti, nonostante tutti i tentativi di screditare i mercati, i centri di compensazione della divisione del lavoro.
La credenza infondata nella magia del denaro fiat è andata in frantumi sull’altare dell’esperienza. I macroeconomisti stanno scoprendo che il fallimento della pianificazione monetaria e fiscale, sta diventando un cul-de-sac che ha generato un’eredità di debito insostenibile. Quelli di noi a conoscenza di una crisi finanziaria incombente, stanno scoprendo che gli stati hanno solamente contorto le statistiche senza risolvere i problemi alla base.

Ci sono prove che l’intervento delle banche centrali abbia cominciato a distorcere irrevocabilmente i mercati sin dal 1981, quando Paul Volker alzò i tassi d’interesse per frenare la discesa del potere d’acquisto del dollaro. È stato a quel punto che cambiò il rapporto di libero mercato tra il livello dei prezzi e il costo del denaro, fatto dimostrato dal fallimento del paradosso di Gibson. Quello fu il punto in cui le banche centrali strapparono il controllo dei prezzi dal libero mercato. Ma spiegheremo tale fatto più in là in questo articolo.

Gli errori sono stati molteplici. In questo articolo spiegherò come e perché sono stati commessi. Questa conoscenza rappresenta il background necessario affinché si possa capire come si svilupperà la crisi finanziaria ed economica che un numero crescente di noi si aspetta, e quali misure dobbiamo adottare come individui per proteggerci.

Mercati contro stati

Gli errori di oggi hanno tutti un punto in comune: la convinzione che i mercati a volte falliscano e che le politiche monetarie e/o fiscali possano guidare i mercati verso lidi migliori. L’incarnazione moderna di questo mito è iniziata con J. M. Keynes, il quale da metà degli anni trenta credeva avesse abbastanza motivi per ribaltare la legge di Say, o la legge dei mercati. Le radici della crisi attuale vanno in profondità e, quindi, hanno origini precedenti al rialzo dei tassi d’interesse da parte di Volcker nel 1981.

La legge di Say afferma che noi produciamo per consumare. Pertanto la produzione è destinata strettamente al consumo, tra cui il consumo differito, anche noto come risparmio. E se qualcuno consuma senza produrre, qualcun altro deve produrre i mezzi. Il mezzo di scambio che traduce in consumi i salari e i profitti derivanti dalla produzione, è il denaro; quindi possiamo dire senza contraddizione che il denaro rappresenta il deposito temporaneo del profitto, o il lavoro della gente comune. Si tratta di una legge ferrea, che scatena guai per ogni tentativo di stimolare artificialmente i consumi.

Non ci può essere alcuno stimolo da parte dello stato, perché tutto dev’essere ripagato, in un modo o in un altro. Per semplicità, ignoreremo i sussidi governativi transfrontalieri, come ad esempio gli aiuti esteri. Quando uno stato paga benefici ad un gruppo d’individui, o prende in prestito i soldi da qualcun altro, oppure crea il denaro dal nulla. In quest’ultimo caso, i pagamenti delle prestazioni sono coperti dalla svalutazione del denaro esistente, il che equivale ad una tassa occulta sui soldi di tutti gli altri. Sostenere il contrario, come fanno coloro che negano la legge di Say, rappresenta un errore che si basa su un concetto di moto perpetuo finanziario.

La motivazione di Keynes era in parte guidata dalla sua fede nelle intenzioni oneste del governo democratico, e come si può ricavare dai suoi scritti, dalla sua avversione emotiva nei confronti dei risparmiatori, i cosiddetti rentier usurai che incamererebbero l’interesse senza sporcarsi le mani attraverso il lavoro onesto. Nella Teoria Generale, il suo primo lavoro importante dopo che era sicuro d’aver smontato la legge di Say, espresse la sua speranza per una graduale eutanasia del rentier e che il capitale sarebbe aumentato grazie alle azioni dello stato, cosicché non sarebbe mai più stato scarso. Il termine rentier è di per sé un insulto, cosa che suggerisce la presenza di un prestito usurario. Keynes auspicava che gli imprenditori, “così appassionati nei confronti del loro mestiere che il loro lavoro potrebbe essere ottenuto per molto meno rispetto al presente”, potessero essere messi al servizio della comunità a condizioni ragionevoli di ricompensa.

La Teoria Generale è la prova che Keynes disprezzava i mercati, e non capiva i prezzi (si veda il Capitolo 21). La sua ignoranza riguardo questo elemento fondamentale dell’economia e tutte le altre mezze verità che seguono, ci rivela il vero scopo di questa propaganda: la giustificazione dell’intervento dello stato e la fine del libero mercato. È un libro scritto male e con contenuti scadenti, ma è diventato lo stesso la base dell’economia mainstream, anche per coloro che negano di essere keynesiani.

Su questa base sono stati costruiti strati su strati di ulteriori falsità. Quando un economista evoca una linea di condotta sulla base di queste favole, il critico onesto non sa proprio da dove cominciare a smontarle, perché il filo degli errori è lungo e contorto. Pochi sono disposti ad ascoltare una lunga critica di questi argomenti, quindi è molto più facile pensare che un rampollo di Oxford e Harvard sapesse di cosa stesse parlando.

Il linguaggio dell’economia moderna, quindi, ci porta a commettere errori che spesso non sappiamo d’essere errori. È giunto il momento d’affrontare la gravità di questi errori, soprattutto per coloro che desiderano comprendere una delle materie di studio più importanti al mondo, perché non farlo potrebbe essere molto costoso per quelli con un patrimonio da proteggere.

La radice del problema è un equivoco riguardo la natura stessa dell’economia e la sua relativa applicazione nell’analisi moderna.

L’errore analitico

L’uso improprio delle informazioni statistiche è un grande male, diventato sempre più diffuso nel corso degli anni grazie soprattutto allo sviluppo dei computer. I computer sono una tecnologia meravigliosa, ma hanno sostituito la teoria ragionata con statistiche inappropriate e le loro presunte relazioni matematiche.

La matematica è appropriata per le scienze fisiche, ma del tutto inadeguata per le scienze sociali, come l’economia. La matematica ha un ruolo importante nel mondo imprenditoriale: un ruolo essenziale nella contabilità per misurare il progresso di qualsiasi impresa. Ma è tutt’altra cosa tentare di bandire le incertezze insite nell’azione umana attraverso i mezzi matematici. Un uomo d’affari che non riesce a distinguere tra la matematica come strumento di contabilità e la sua inefficienza come strumento predittivo, non rimarrà in attività molto a lungo. Eppure non vi è alcuna limitazione dell’uso della matematica nel quadro molto incerto di un’economia nazionale.

Gli errori, seppur quasi invisibili, hanno un peso consistente.

Anche se l’inquadratura dell’attività economica è totale e corretta in un particolare momento nel passato (cosa che, nonostante tutto, non può mai accadere), tale inquadratura non può essere valida successivamente, perché l’attività economica continua la sua evoluzione. Nessuna economia rimane statica su base immutabile. Le informazioni raccolte dagli econometrici non solo non sono corrette successivamente, ma inducono in errore i pianificatori statali poiché credono d’avere le prove per gestire l’attività economica. L’abuso degli aggregati statistici, come il prodotto interno lordo, fa ricorso fondamentalmente ad identità contabili, le quali non misurano affatto il progresso.

Le statistiche sono continuamente modificate affinché pongano le politiche monetarie e fiscali sotto la miglior luce possibile. L’inflazione dei prezzi e i numeri della disoccupazione si sono evoluti al punto in cui non rispecchiano più la realtà, ma solo perché sono pubblicati da un dipartimento governativo, allora hanno credibilità. Il risultato è un’accozzaglia di dati statistici fine a sé stessa.

Vengono costantemente chiamate in causa le medie ponderate senza significato, come prova per sostenere l’intervento dello stato e la pianificazione dell’economia. Pertanto il “paniere di beni” dell’IPC e il “salario medio” non sono collegati alla realtà e nascondono il fatto che gli attori economici sono persone con diverse esigenze e desideri. Le medie ponderate non dovrebbero essere utilizzate come strumenti d’analisi su cui basare la politica monetaria e fiscale.

Fu George Canning, quasi due secoli fa, a dire che poteva provare qualsiasi cosa con le statistiche, tranne la verità. Le statistiche permettono all’analista lento di comprendonio d’evitare di dover applicare il pensiero originale. Ciò significa che non sente il bisogno di prendere in considerazione le motivazioni di fondo degli attori economici.

Un buon esempio di questo errore è rappresentato dal tentativo di Barsky e Summers, pubblicato sul Journal of Political Economy nel 1988, di spiegare il paradosso di Gibson. Il paradosso di Gibson è la correlazione osservata tra il livello dei prezzi e i costi di finanziamento, e la mancanza di correlazione tra i costi del finanziamento e il tasso d’inflazione. La relazione si concluse alla fine degli anni settanta nel Regno Unito, dove venne statisticamente osservata dal 1730 in poi. Barsky & Summers affermarono erroneamente che la causa fosse il gold standard, e quindi utilizzarono un modello matematico di loro ideazione per arrivare ad una conclusione parziale, che per loro stessa ammissione necessitava di ulteriori ricerche. In altre parole, il loro metodo li ha portati in un vicolo cieco.

Ad essere onesti, non sono gli unici economisti che non sono riusciti a spiegare il paradosso di Gibson. Venne chiamato così da Keynes e anch’egli non riuscì a risolverlo. Nemmeno Milton Friedman ci riuscì.

Mettendomi nei panni di un uomo d’affari in cerca di finanziamenti per la sua produzione, ho scoperto che il paradosso era facile da risolvere e spiegare. Il calcolo imprenditoriale dell’uomo d’affari è costituito dalla differenza tra i suoi costi di produzione e il prezzo di vendita del suo prodotto. Come fa a sapere il prezzo di vendita potenziale? Conosce il prezzo di vendita di elementi simili nel mercato attuale, ed è proprio questo che imposta il livello dell’interesse che è disposto a pagare per finanziare la sua produzione. Ecco perché i tassi d’interesse si sono correlati col livello dei prezzi, e non col tasso d’inflazione, durante i duecento anni nello studio originale di Alfred Gibson.

Purtroppo questo concetto non penetra la mente degli economisti monetaristi, i quali credono nel controllo delle attività economiche attraverso la manipolazione dei tassi d’interesse e l’espansione della quantità di moneta e del credito bancario. Affinché una politica monetaria sia valida, ci dev’essere una correlazione positiva tra l’inflazione dei prezzi ed i tassi d’interesse, cosa non vera come ha dimostrato il paradosso di Gibson. Vorrei anche postulare che Keynes non era caratterialmente incline a comprendere la soluzione del paradosso di Gibson, in quanto convinto che fossero i rentier oziosi a chiedere tassi d’interesse usurai e, quindi, ad impostarli, non il mutuatario con il suo calcolo di un ritorno sull’investimento.

Questo è il motivo per cui è di vitale importanza comprendere le motivazioni degli attori economici, evitando di nascondersi dietro il mondo sterile della matematica. Ma ci siamo talmente abituati ai modelli statistici, che anche alcuni seguaci della legge di Say hanno preferito abbandonarla. La confusione tra identità contabili, come il PIL, e il concetto indeterminato di crescita economica, è un esempio calzante. Per molto tempo abbiamo letto scritti di economisti che prendono statistiche di dubbia natura e le usano come base per un’equazione tra elementi disparati, creando così un rapporto che in realtà non esiste. Non si può affermare che le mele sono pere, ma si può affermare che sono frutti diversi. È possibile trasformare le mele in pere con un’equazione, se si introduce un fattore che da sempre incarna la differenza tra i due. Sono sciocchezze, naturalmente, ma questo è ciò che fanno spesso gli economisti.

Un primo esempio è la fallacia della velocità del denaro. L’ipotesi è che un cambiamento nella quantità di denaro cambierà il livello dei prezzi. Quindi ΔM ~ ∆P. Ma sin dai tempi di David Ricardo sappiamo che i prezzi P variano indipendentemente dalla quantità di moneta M, in particolare è il lasso di tempo che cambia. Pertanto l’equazione è stata modificata per includere un’altra variabile, soprannominata velocità di circolazione solo per darle un significato, ed è diventata la base dell’equazione di scambio di Irving Fisher:
X
M * V = P * Q

dove M è la quantità totale di denaro in circolazione, V è la velocità di circolazione, P è il livello dei prezzi, e Q è un indice delle spese finali. Presentata in questo modo, siamo portati a credere che la circolazione continua del denaro abbia un senso. Invece le cose non stanno così. Infatti, sarebbe come dire che essendo mele e pere entrambi dei frutti, allora sono uguali.

Nemmeno una volta l’economista monetarista si ferma a pensare che tutto ciò che un individuo guadagna dalla sua produzione, alla fine lo consumerà, che sia oggi o in qualche altro momento nel futuro. Ciò che conta non è la dimensione del saldo di cassa di un individuo, ma il profitto che trae dal suo lavoro. Questo è il rapporto della legge di Say, negata dai monetaristi.

L’ignoranza nei circoli accademici riguardo la teoria dei prezzi, che dopo tutto è il fondamento dell’economia, è sconcertante. È come se Carl Menger, che ha dimostrato in modo convincente la soggettività dei prezzi nel 1870, non fosse mai esistito. Questo nonostante il fatto che tutti noi scambiamo i frutti del nostro lavoro, sotto forma di denaro, per le cose che vogliamo, e questa è la nostra attività quotidiana più importante.

Ignoriamo anche il fatto che ci sono due variabili che caratterizzano qualsiasi prezzo: le modifiche che si sprigionano dai beni/servizi scambiati e dal denaro stesso. Siamo tutti consapevoli dei cambiamenti che si sprigionano dai beni e servizi. Ma pochi di noi sono consapevoli dei cambiamenti che si possono sprigionare dal denaro. Il ruolo del denaro, tradizionalmente una moneta sonante, è qualcosa che diamo per scontato. Ci permette di dar valore a prodotti diversi e far di conto con la nostra produzione. Agisce come valore di scambio oggettivo nelle transazioni. Tuttavia il potere d’acquisto del denaro non è mai costante, tanto più per quanto riguarda quello non-sonante. Quindi l’ipotesi secondo cui tutti i movimenti di prezzo provengono dai beni e servizi comprati e venduti, non è corretta.

Quando l’oro era liberamente scambiabile con la cartamoneta, i movimenti dei prezzi erano inferiori, anche per periodi di tempo prolungati. Ma nel paradigma di oggi col denaro fiat svalutabile, i movimenti possono essere considerevoli. Prendete in considerazione una situazione in cui le preferenze personali spingono a zero l’accaparramento della valuta A. Il prezzo di un bene, che non si muove se misurato in una valuta stabile B, si sposterà in modo che il prezzo misurato nella valuta A tenderà verso l’infinito. Ci rendiamo conto di questo fenomeno quando parliamo dei dollari dello Zimbabwe, o i bolivar del Venezuela, ma le nostre menti rifiutano d’ammettere che le stesse dinamiche operano sia per il dollaro sia per le altre valute principali utilizzate dagli occidentali.

I cambiamenti nel valore di una valuta possono non essere notati giorno per giorno, ma interferiscono con i confronti annuali, in quanto il potere d’acquisto dell’anno scorso differisce da quello di quest’anno. Né la legge riconosce alcuna variazione del potere d’acquisto di una moneta fiat, un fatto che le banche centrali sfruttano al massimo.

Le banche centrali stampano denaro e danno licenza alle banche commerciali di prestarlo sotto forma di credito. Ignorando la legge di Say, pensano di poter stimolare la domanda di credito espandendolo artificialmente. Per un certo periodo di tempo questo trucco inganna le persone, ma se prolungato esse iniziano a perdere fiducia nella moneta e modificano le loro preferenze, così il potere d’acquisto scende.

La velocità con cui diminuisce il potere d’acquisto di una valuta svalutata varia da prodotto a prodotto, in base a dove finisce l’incremento monetario iniziale. Sin dalla crisi finanziaria del 2007/08, è stato evidente che i prezzi degli asset finanziari hanno sperimentato una grossa dose d’inflazione monetaria, e i prezzi delle obbligazioni e di altri titoli sono aumentati di conseguenza. I prezzi dei beni e servizi ordinari sono aumentati molto meno. Negli ultimi anni l’IPC ufficiale ha costantemente registrato un’inflazione dei prezzi ben al di sotto dell’obiettivo della FED, ma i calcoli indipendenti, come l’Indice Chapwood, registrano un’inflazione dei prezzi di circa il 9%. Non possiamo prendere una qualsiasi di queste medie troppo sul serio per le ragioni citate in precedenza, ciononostante non possiamo non notare che l’aumento dei prezzi per Main Street sembra essere significativamente più alto rispetto a quello che ci dicono gli econometrici sponsorizzati dallo stato.

Il legame monetario tra i prezzi e la quantità di moneta è debole, e non tiene conto dei fattori intertemporali (es. dove finisce inizialmente l’espansione monetaria). Pochi sono i tentativi di comprendere le implicazioni insite nella variazione delle preferenze tra denaro e beni. E capire il perché è abbastanza facile: oltre alle prove empiriche, anche il ragionamento economico ci avverte che i macroeconomisti moderni, nel loro desiderio di farla finita con la legge dei mercati, ci hanno portato sull’orlo della rovina finanziaria. Il fatto sorprendente è che le economie siano sopravvissute a questa ingerenza persistente per così tanto tempo, ma questo si spiega con la straordinaria capacità dell’azione umana di adeguarsi all’intervento statale.

Le conseguenze

Ma la fine di questa storia sta prendendo forma. Le banche centrali hanno progressivamente rafforzato la loro presa sui mercati, sin da quando nel 1981 Paul Volcker prese il controllo dei mercati aumentando i tassi d’interesse. Fu in quel periodo che il paradosso di Gibson venne sconfessato. Il risultato è stato che l’attività economica alimentata dal debito, incoraggiata dal calo dei tassi d’interesse nominali, ha sostituito l’attività economica alimentata dai mercati, come dimostrato dal paradosso di Gibson negli ultimi 250 anni.

Ci sono limiti a quanto debito ci si può sobbarcare, e gli analisti finanziari stanno per riscoprire un vecchio adagio: i mercati vincono sempre alla fine. Il rischio di mercato dominante è rappresentato dai titoli di stato sopravvalutati, elementi da cui derivano tutte le altre valutazioni degli asset finanziari. Pertanto un notevole aumento dei rendimenti dei titoli di stato, rischia di creare una crisi sistemica del sistema bancario, il quale dipende da tali asset per le garanzie collaterali nei suoi prestiti. Le banche più vulnerabili si trovano nella zona Euro, dove i mercati obbligazionari sono i più sopravvalutati e le banche altamente gravate da sofferenze.

Quando i rendimenti dei titoli di stato aumenteranno al di sopra di un livello ancora sconosciuto, le banche centrali dovranno prendere una decisione: sostenere l’intero sistema finanziario a scapito delle loro valute, o invece proteggere queste ultime. Qualunque cosa sceglieranno, è improbabile che il sistema finanziario globale possa sopravvivere ancora a lungo.

Quando le cose diventano così delicate, qualsiasi cosa (es. le trattative sul debito della Grecia, le insolvenze bancarie italiane, le difficoltà nel mercato dell’oro fisico, o addirittura un brutto risultato statistico) può fungere da innesco. Il Brexit indebolirebbe certamente la coesione europea, con risultati potenzialmente destabilizzanti, ed è per questo che le figure pubbliche di spicco stanno implorando l’elettorato britannico di votare per rimanere. Finora le banche centrali hanno rimandato tutti questi problemi con successo, quindi ci vorrà probabilmente qualcos’altro per innescare il cosiddetto fine partita.

Un probabile innesco può essere l’effetto della svalutazione monetaria sulle finanze della gente comune. L’inflazione monetaria trasferisce la ricchezza dai risparmiatori ai debitori. Anche la spesa pubblica, finanziata attraverso tasse elevate, distrugge la ricchezza privata. L’inflazione monetaria riduce il potere d’acquisto dei salari della gente comune, un effetto che limita la loro capacità di consumare. I governi delle nazioni avanzate stanno, però, esaurendo la ricchezza dei loro cittadini.

Il trasferimento di ricchezza attraverso l’inflazione monetaria, è l’onere invisibile a carico della persona comune. Non c’è dubbio che abbia influenzato i numeri del PIL, i quali hanno finora mostrato una crescita deludente nella maggior parte delle nazioni avanzate. Tuttavia hanno tenuto a sufficienza per ingannare i feticisti della matematica, tanto che sono arrivati a dire che non c’è nessuna crisi, ma solo una crescita deludente. Val la pena ripeterlo: il PIL è solo un’identità contabile che è aumentata grazie all’inflazione monetaria. Ma le compensazioni mostrate da un deflatore dell’inflazione dei prezzi tendono ad essere mal interpretate, e dato che lo stato vuole sopprimere l’inflazione registrata, essa viene calcolata in modo inadeguato. Infatti se si accetta che l’inflazione dei prezzi è in realtà di gran lunga superiore a quella indicata dalle misure ufficiali, allora scopriamo che sin dalla crisi finanziaria le stime del PIL in termini reali si sono contratte nelle nazioni più avanzate.

La situazione in Giappone e nella zona Euro è peggiore rispetto a quella negli Stati Uniti, e la distruzione della ricchezza privata è stata più marcata. Il paradosso è che lo yen e l’euro sono temporaneamente forti, ma difficilmente potrà durare. Lo yen e l’euro sono forti perché la liquidità nel sistema bancario ombra viene drenata dagli acquisti di titoli di stato da parte delle banche centrali, situazione che scatena un aumento della domanda di denaro mentre le posizioni finanziate in queste valute vengono liquidate.

Sin dalla crisi finanziaria l’espansione monetaria ha portato ad una maggiore preferenza generale per accumulare denaro piuttosto che spenderlo. Questo si riflette in un aumento del livello dei depositi bancari e conti correnti, la controparte dell’espansione del credito bancario. Solo negli Stati Uniti depositi bancari e conti correnti sono aumentati da $2,330 miliardi a Luglio 2008, poco prima del crollo della Lehman, ai $10,170 miliardi di oggi, un incremento del 336% rispetto ad un aumento ufficiale del PIL solo del 22% nello stesso lasso di tempo.

Tale accumulo di denaro è stato un fenomeno circoscritto al settore finanziario. È quello che veniva chiamato hot money. Dopo aver pompato questi fondi, le banche centrali hanno cercato di imbottigliarli nei depositi bancari, in modo che nel complesso non ci fosse via di fuga dai tassi d’interesse negativi, e anche nella speranza di sostenere la stabilità finanziaria durante l’attuazione di ulteriori “misure straordinarie”.

Questo ci porta ad un’altra questione, che nessuno sembra aver preso seriamente in considerazione: cosa succede quando i depositanti delle banche smettono d’aumentare la loro preferenza per il denaro rispetto ai beni, e cominciano invece a ridurla? L’unico risultato può essere un inaspettato e forte aumento dei prezzi di qualsiasi merce e asset acquistato con tale denaro, perché i venditori di valuta supereranno di gran lunga i compratori. In passato gli investitori hanno sempre trovato una via di fuga da questo problema, scambiando, ad esempio, pesos argentini per dollari. Questa volta nei guai c’è finito il dollaro stesso, con tutte le altre principali valute legate ad esso.

È una situazione che sta già portando ad un movimento finanziario nelle merci e nelle materie prime, movimento tra l’altro iniziato lo scorso dicembre. Alcuni prodotti chiave, in particolare il petrolio, sono aumentati sostanzialmente di prezzo. Finora i venditori di dollari sono stati i governi stranieri, in particolare la Cina, e i trader speculativi. Ma le condizioni avverse alle valute sembrano impostate per accelerare. L’inflazione core in America ha già superato il target della FED, ed è quasi certo che salirà più in alto; quindi a meno che la FED non inizi ad innalzare significativamente il tasso dei fondi federali, la discesa del potere d’acquisto del dollaro continuerà inesorabilmente. Il tutto si riduce ad una scelta duplice: salvare il sistema o la valuta.

I danni delle precedenti politiche monetarie inflitti alla ricchezza degli attori di mercato, così come l’incoraggiamento ad accumulare debito improduttivo, hanno eliminato qualsiasi spazio di manovra per le banche centrali. L’introduzione di un potenziale rialzo dei tassi, per quanto moderato, indebolirà i mercati obbligazionari sopravvalutati, cosa che a sua volta innescherà una nuova ondata di liquidazioni del debito da parte dei mutuatari più deboli. Si tratta di tensioni finanziarie a cui le banche nella zona Euro non riusciranno a sopravvivere. Sono così poco capitalizzate e sovra-esposte a titoli di stato europei scandalosamente costosi, che rappresentano un rischio sistemico allarmante anche in assenza di un aumento dei tassi d’interesse.

La differenza tra la crisi finanziaria incombente di oggi e l’ultima, è che questa seconda ha portato la popolazione a distanzarsi dall’incertezza degli impegni finanziari e a favorire la liquidità monetaria. Questa volta salariati e piccoli risparmiatori probabilmente reagiranno allo stesso modo, almeno inizialmente. Ma ora sono i risparmiatori e gli speculatori più ricchi che dominano il sistema. Hanno accumulato depositi sin dal 2008, e sono esposti al rischio bancario di controparte, un punto che capiranno rapidamente se le cose inizieranno ad andare fuori controllo. Pertanto la moneta fiat custodita nel sistema bancario è quell’asset che nei prossimi mesi società, investitori e ricchi, cercheranno molto probabilmente di scaricare. Le loro preferenze non solo andranno contro il dollaro, ma anche contro tutte le altre valute.

In breve, la crescente evidenza di un’inflazione dei prezzi e di una produzione stagnante, farà aumentare il rischio di un tracollo bancario e monetario globale. La migliore via di fuga è possedere qualcosa di diverso dai canonici asset finanziari e depositi in valuta fiat. Nessuna meraviglia se il prezzo dell’oro, che è il denaro più sonante di tutti, sembra essere entrato in un nuovo mercato toro.

[*] traduzione di Francesco Simoncelli:

Fonte: francescosimoncelli.blogspot.it