Brexit: il voto degli “sconfitti della globalizzazione”
di Lorenzo Zacchi - 25/06/2016
Fonte: millennialspress
Nella notte tra giovedì 23 e venerdì 24 è arrivato, da Londra, un risultato elettorale a dir poco storico: la Gran Bretagna, tramite referendum, ha deciso di uscire dall’Unione Europea.
Un risultato che gli ultimi sondaggi davano improbabile, con le ultime rilevazioni che riportavano un vantaggio di 2-3 punti percentuali per il “remain”. A spostare pesantemente l’ago della bilancia verso il “leave” è stato il voto delle zone rurali del paese e delle grandi città industriali: sulle 12 macro aree che compongono il Regno Unito, 9 hanno votato per il Brexit. Dalle Midlands allo Yorkshire, passando per le East e le West Midlands e il North East, il “paese profondo” ha preferito uscire dall’Unione Europea. Anche in Galles, di misura, il “leave” ha battuto il “remain”. Scozia, Irlanda del Nord e Londra presentano invece una maggioranza favorevole alla permanenza nell’UE: 62%, 55,8% e 59.9% le rispettive percentuali di voto del “remain” nelle le 3 aree più europeiste.
La notizia è stata mal digerita in Europa: borse a picco, editoriali catastrofici sulle prime pagine dei principali quotidiani, e moltissimi commenti negativi sul voto “di pancia” degli inglesi. Gli opinionisti e gran parte dell’opinione pubblica, sui social, si sono lanciati in arringhe contrarie al referendum sul Brexit: la permanenza o meno di un paese all’interno di un grande mercato unico come quello europeo è ritenuta una materia troppo complicata per essere sottoposta a valutazione referendaria. Questo è stato uno dei mantra più letti nella giornata di ieri. Un Day After che non ha risparmiato commenti negativi sul “voto rabbioso” delle zone rurali del Regno Unito, il “voto ignorante” dei meno scolarizzati, il “voto disinteressato” dei più vecchi, il “voto di pancia” degli operai nelle grandi città industriali, il “voto scettico” delle periferie. Arringhe contro il suffragio universale hanno quindi monopolizzato le bacheche di Facebook, tra unSaviano che ricorda che fu sempre il popolo a scegliere Hitler e Mussolini e un Saverio Tommasi che si scaglia rabbioso contro chi “ha votato per uscire dall’Europa ma in Europa non ci è mai stato”.
Sarebbe inutile ricordare che la democrazia non può essere tirata per la giacchetta, cioè difesa a spada tratta nelle occasioni che più si avvicinano al proprio pensiero e attaccarla quando ci propone soluzioni non gradite. Come non si può parlare di scontro generazionale e voto dei più anziani quando ci fa più comodo. Anche in Italia c’è una netta separazione tra le classi di età sulle preferenze elettorali: tra gli under-35 il Partito Democratico non riesce a far breccia, ed è staccato dal Movimento 5 Stelle che risulta costantemente il primo partito. Al contrario, il Pd basa la stragrande maggioranza del suo elettorato negli over-55, vero bacino storico per le file democratiche. E’ uno spaccato, questo, che mette a rischio la validità democratica del sistema politico italiano? Non credo, o comunque non se ne è mai sentito parlare nei termini catastrofisti che hanno accompagnato il voto del Brexit.
Il vero tema su cui vale la pena concentrarsi è quello del voto degli “sconfitti della globalizzazione”. Ex classe operaia, contadini, artigiani, meno scolarizzati, anziani. Il voto localizzato nelle periferie dei grandi centri urbani, nei sobborghi metropolitani, nelle zone rurali, nei poli industriali. Quelle persone, e quei luoghi, che nella globalizzazione non vedono un’opportunità, ma un pericolo. C’è un segmento intero di popolazione che rischia di essere, se non spazzata via, quantomeno dimenticata perchè non utile. Una parte di popolo che nella contemporaneità non riesce a vivere. Non per rifiuto a priori, ma perchè messa nelle condizioni di fallire. Dall’agricoltore autoctono che vede minacciate le sue eccellenze dalla mondializzazione del commercio, all’operaio che fatica a trovare lavoro tra le macerie della de-industrializzazione: il radicale cambiamento del sistema economico, e di valori, che sta avvenendo sopra le nostre teste, lascia indietro interi strati di popolazione. La polarizzazione tra chi è riuscito a inserirsi nei circuiti del mondo contemporaneo e chi ne è rimasto escluso è sempre pià grande: un divario che cresce e continuerà ad allargarsi, inevitabilmente. Non ci sono riforme interne all’Unione Europea che possono invertire il senso di un processo che è, se non mondiale, quantomeno confinato nella sfera occidentale. Il voto austriaco, quello francese, l’escalation di Donald Trump, le situazioni politiche dei paesi sudeuropei, fino ad arrivare al Brexit, sono certamente fenomeni politici a se stanti, ma hanno un filo comune: il voto dei “vinti della globalizzazione”. Una massa eterogenea, impossibile da collocare politicamente, se non nella semplificazione del voto “contrario”. Contrario a qualunque mantenimento dello status-quo, ma che troverà i suoi favori verso chiunque gli propini un cambiamento radicale, un attacco a questo sistema che li ha impoveriti e spaventati.
I partiti tradizionali, se non con una radicale quanto improbabile trasformazione, non riusciranno ad intercettare questo bacino elettorale. Un elettorato che si presenta si “liquido”, e in questo rispecchia a pieno i sintomi della contemporaneità, ma che si solidifica attorno a un movimento o a un voto in un particolare momento storico, risultando a dir poco decisivo.
Gli sconfitti della globalizzazione non riusciranno ad entrare nei centri di potere né ad influenzare i processi di cambiamento economico in atto, questo è chiaro, ma quando chiamati al voto – ah, la democrazia – saranno sempre più partecipi di un dissenso radicale pronto a sconvolgere gli attuali schemi politici.