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Dall’homo erectus agli Hobbit: l’evoluzione torna indietro

di Claudio Tuniz - 26/06/2016

Dall’homo erectus agli Hobbit: l’evoluzione torna indietro

Fonte: Corriere della Sera



Recentemente è tornato alla ribalta Hobbit, lo gnomo dell’età glaciale i cui resti ossei, appartenenti a diversi individui, furono scoperti dodici anni fa dall’archeologo australiano Mike Morwood, dopo avere scavato una fossa di 9 metri nella caverna di Liang Bua nell’isola di Flores, in Indonesia. Si trattava di una nuova specie umana, con caratteristiche sorprendenti, cui fu dato il nome di Homo floresiensis .
Mike era un vecchio amico e m’invitò a Giacarta per toccare l’Hobbit con le mie mani e a Liang Bua per vedere dove l’ominide aveva vissuto durante l’era glaciale. Io lo invitai a mia volta a Trieste per presentare la nuova «creatura» alla nostra comunità scientifica. Nei primi anni Novanta avevo aiutato Morwood a datare con il radiocarbonio le meravigliose pitture rupestri del Kimberley, in Australia, paragonabili per bellezza a quelle di Lascaux e di Chauvet in Francia. Nel corso di quel progetto avevamo anche pubblicato insieme un articolo su «Nature», nel quale deducevamo l’antichità delle pitture datando i nidi che certi tipi di vespa ci avevano costruito sopra. In seguito Mike ampliò le sue ricerche cercando l’arrivo di noi sapiens nelle isole indonesiane, per ricostruire la traiettoria della nostra dispersione dall’Africa verso l’Australia, e per studiare il nostro possibile incontro con Homo erectus (l’Uomo di Giava).
Nel 1998 egli trovò strumenti litici nel centro di Flores, risalenti a 850 mila anni fa. Furono subito attribuiti a H. erectus , l’unico umano che a quei tempi aveva sicuramente popolato quella regione. Altri reperti simili, risalenti a un milione di anni fa, furono trovati dai suoi collaboratori nella stessa area ma non apparve nessun resto umano che potesse essere a loro collegato.
Si trattava di strane scoperte perché l’isola di Flores si trova oltre la linea di Wallace, ovvero al di là di quella fossa oceanica che anche durante l’era glaciale (quando il mare era 100 metri più basso di quello attuale) separava la fauna di tutte le isole più a oriente (inclusa l’Australia) da quella del sudest asiatico. Fu sapiens , armato di pensiero simbolico, la prima specie umana a navigare e attraversare quella barriera. Tuttavia, anche se Mike non trovò a Flores i resti umani che cercava, né di sapiens né di erectus , si imbatté nei resti della nuova specie di cui abbiamo detto, raggiungendo così la notorietà.
L’occasione per portare finalmente Mike in Italia arrivò con una conferenza internazionale sull’uso della fisica in archeologia, tenutasi presso l’International centre for theoretical physics (Ictp) di Trieste nel 2006. Gli scienziati che vi parteciparono, in compagnia di qualche archeologo e paleoantropologo, pensavano forse di assistere a uno spettacolo fantasy. Sullo schermo della prestigiosa aula Budinich, dove Paul Dirac faceva lezioni di fisica teorica e Abdus Salam presentò la sua teoria dell’unificazione delle forze, passavano immagini di gnomi con un cervello minuscolo che usavano strumenti di pietra per cacciare elefanti nani, topi giganteschi e dragoni di Komodo. Mike sosteneva che gli Hobbit si erano evoluti da Homo erectus , ma andava dimostrato. Si sarebbe trattato di un noto fenomeno evolutivo: dove le risorse sono più scarse (come su una piccola isola) la selezione naturale favorisce un processo di rimpicciolimento. Questo fenomeno ci fa trovare resti fossili di elefanti nani in Sicilia e di piccolissimi mammut in Sardegna.
Sfortunatamente Mike ci lasciò nel 2013, prima di poter provare le sue idee, ma le ricerche da lui iniziate sono continuate. Alcuni mesi fa si è dimostrato che gli Hobbit si estinsero 50 mila anni fa, in coincidenza con l’arrivo di noi sapiens sulla loro piccola isola («la Lettura», 10 aprile 2016). Ma restava un mistero: chi erano gli antenati di H. floresiensis e da dove venivano? Sembra ora che l’archeologo australiano avesse proprio ragione. In un articolo pubblicato tre settimane fa su «Nature», in cui Morwood è giustamente incluso nella lista degli autori, si parla di quanto appena trovato nel sito di Mata Menge, a circa 70 chilometri da dove era stato trovato il primo Hobbit. Sotto alcuni metri di argilla e materiale vulcanico sono stati rinvenuti un frammento di mandibola e sei denti che appartengono ad almeno tre piccoli esseri umani, molto simili a quelli di Liang Bua.
La cosa interessante è che essi risalgono a 700 mila anni fa. Secondo i ricercatori australiani, giapponesi e indonesiani che hanno condotto la ricerca, il ritrovamento conferma che H. floresiensis fosse proprio un prodotto del cosiddetto «nanismo insulare». Gli strumenti litici di un milione di anni fa, scoperti da Morwood e collaboratori nel centro di Flores, appartenevano a degli erectus che potevano essere finiti sulle spiagge di Flores aggrappati a tronchi d’albero sull’onda di uno tsunami, fenomeno non raro in quella parte del mondo. La trasformazione evolutiva da umani del tipo erectus , alti un metro e settanta e con un cervello di nove etti, a piccoli gnomi, alti meno di un metro con un cervello di quattro etti o poco più, avvenne quindi in tempi relativamente rapidi: 300 mila anni, un fenomeno non nuovo in natura. Circa 100 mila anni fa, nell’isola di Jersey esisteva un cervo le cui dimensioni si ridussero, in soli 6 mila anni, a un sesto di quelle originarie dei suoi antenati comparsi sull’isola.
Ci si chiede quali altri esperimenti evolutivi riguardanti la specie umana siano avvenuti nel laboratorio delle migliaia di isole dell’arcipelago indonesiano nel passato, quando cambiavano rapidamente sia il clima che la biogeografia. Non è detto, infatti, che la storia umana possa essere raccontata tutta in base ai reperti rinvenuti in Africa. L’idea che vi sia stato un progresso lineare, capace di trasformarci da scimmie bipedi in uomini dotati di strumenti litici e poi in umani moderni, dotati di pensiero simbolico, può essere fuorviante o comunque ammettere numerose eccezioni.
I resti umani di Flores suggeriscono che non esiste una direzione evolutiva preordinata, legata alla crescita del corpo e del cervello, per descrivere la nostra storia, e che anche per gli umani ci può essere un «rovesciamento evolutivo», rispetto a quello dominante, che ammette varianti inattese e contribuisce alla biodiversità.