Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Marx tra scienza e utopia

Marx tra scienza e utopia

di Alessandro Monchietto - 20/07/2016

Marx tra scienza e utopia

Fonte: Italicum

 

 

 

 

1) Marx, pur avendo preso congedo dalla filosofia di Hegel, in favore di una scienza filosofica, tuttavia nell’elaborare tale "scienza pura" del processo storico materialista, riproduce le categorie filosofiche della dialettica hegeliana applicandole alla totalità sociale. Comunque Marx non accetta da Hegel la concezione della filosofia che considera il presente come "compimento della realtà", definita altrimenti, "filosofia del fatto compiuto". Infatti per Marx la ragion d’essere della filosofia consiste nella trasformazione del presente storico, orientando quindi la filosofia come premessa del futuro, verso cioè un avvenire che determini la conciliazione delle contraddizioni del presente. L’infuturamento della filosofia è però reso possibile qualora si conferisca alla filosofia un telos che corrisponda ad un determinato sviluppo del processo storico. Conferire comunque alla filosofia finalità predeterminate, non conduce a subordinare la filosofia ad un telos fondato su un elemento pre - filosofico (che può essere indifferentemente sia di carattere messianico che meccanicistico), che contraddice i presupposti stessi della filosofia della storia marxiana?

 

 

Il fondamento filosofico del pensiero di Marx consiste in una Idea unificata di storia universale del genere umano, visto come teatro di processi strutturali di perdita, acquisizione, alienazione, conquista ed emancipazione.

Paradossalmente, Marx pretese per tutta la vita di superare Hegel «lasciandoselo alle spalle», senza però mai riuscirci del tutto. Da questo punto di vista, l’intero itinerario marxiano potrebbe essere inteso come una sorta di “parricidio mancato” nei confronti di Hegel e, più in generale, della stessa filosofia: come infatti sosteneva Preve – a cui è dedicato il volume Invito allo straniamento e le cui tesi cercherò in questa riposta di sintetizzare – «non si esce dall’idealismo proclamando di non voler più essere ‘idealisti’».

Una posizione non certo minoritaria nel marxismo novecentesco era solita sostenere che Marx, dopo una prima fase giovanile in cui si era limitato a una critica di tipo prettamente filosofico al capitalismo, avesse abbandonato questo infruttuoso terreno per abbracciare la scienza economica, scelta che gli permise di elaborare una teoria della genesi e dello sviluppo del modo di produzione capitalistico.

In compagnia del nostro comune maestro Costanzo Preve, ritengo al contrario che il filosofo di Treviri non abbia in realtà mai condiviso né l’oggetto né il metodo dell’economia politica. Marx – pubblicando nel 1867 il primo libro del Capitale – non ha inteso portare un “contributo” di sinistra all’economia politica, ma ha voluto impostare una critica complessiva della società capitalistica. In tal senso, la critica dell’economia politica marxiana non è per nulla una “economia” in senso proprio, ma si configura come una teoria generale della società, una vera e propria scienza filosofica nel senso di Ficthe e di Hegel, in quanto interpella criticamente l’insieme olistico della società capitalistica, con i suoi vari aspetti religioso, politico, sociologico, culturale,  organicamente interconnessi.

Come ha evidenziato Preve nelle sue analisi, nel marxismo il termine “scienza” ha costantemente avuto due significati intrecciati ma incompatibili: il primo derivante dalla nozione di “scienza filosofica” (Wissenschaft) elaborata dall’idealismo classico tedesco; il secondo derivante dalla tradizione di Galilei e Newton e confluito nel positivismo ottocentesco.

Nel primo significato, “scientifico” è ciò che è logicamente ed ontologicamente conforme al proprio concetto, sulla base del preventivo riconoscimento dell’esistenza di un fondamento. Nel secondo significato, “scientifico” è ciò che è regolarmente prevedibile, sulla base di un sapere che ha nella matematica e nell’esperimento i propri fondamenti, che in questo caso però sono solo epistemologici, e non logico-ontologici, e non hanno perciò bisogno di nessuna filosofia di riferimento. Questa seconda ipotesi, largamente maggioritaria nel novecento, presuppone una differenza di principio fra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto che appare incompatibile con l’ontologia della prassi marxiana.

La concezione della scienza in Marx, comprendendo costitutivamente il ruolo della prassi del soggetto, non converge infatti né con il punto di vista di Galileo e di Newton sulla autonomizzazione quantitativa integrale della previsione scientifica, né con il punto di vista di Max Weber sulla separazione fra giudizi di fatto e giudizi di valore[1]. Il pensiero di Marx non può quindi dar luogo ad una scienza nel senso “positivistico” del termine, poiché tale scienza si basa appunto sulla separazione funzionale fra soggetto conoscente e oggetto conosciuto, da un lato, e sulla separazione funzionale fra giudizi di fatto e giudizi di valore, dall’altro. La scienza filosofica di Marx, al contrario, comprende al suo interno non solo il concetto, ma anche la realtà della prassi, e si basa su di un giudizio di valore negativo complessivo sulla fusione capitalistica di valore e di alienazione.

Marx quindi resterebbe hegeliano non solo per il “metodo” dialettico a cui egli continua tenacemente a ricorrere nelle proprie opere, ma anche  per l’oggetto delle sue indagini, nella misura in cui applica hegelianamente la dialettica alla totalità storica dei rapporti sociali: proprio perché si sottrae alla presa di qualsivoglia scienza empirica, tale totalità dovrà necessariamente essere oggetto di una scienza filosofica.

 

 

2)  Marx, nell’analisi storica concepita come movimento della totalità dei rapporti sociali, individua come elemento unificante di continuità nel processo storico dialettico, la schiavitù, intesa come coercizione nella divisione del lavoro e quindi nei rapporti di produzione. Dalla schiavitù del mondo antico, in cui dominava la schiavitù come dipendenza personale, nei rapporti di produzione del capitalismo la schiavitù si realizza attraverso lo sfruttamento del lavoro altrui. Ma Marx individua nel capitalismo una alienazione totalizzante, che coinvolge sia il padrone (che non ha coscienza del proprio asservimento alla forma merce perché ne trae profitto), che l’operaio (che invece ha coscienza delle proprie catene). Tale concezione si rivela oggi come totalizzante e globale nel capitalismo assoluto. La produzione capitalista è oggi schiava dell’economia finanziaria, coinvolgendo datori di lavoro e lavoratori, così come sono soggetti alla schiavitù del debito i popoli e gli stati. Dal mondo globalizzato, non emergono allora i soggetti di una nuova contrapposizione classista costituita non dal proletariato e la borghesia, ma dagli stati e le oligarchie del capitalismo finanziario?

 

 

Il primo capoverso del Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels recita: «La storia di ogni società esistita fino a questo momento è stata la storia di lotte di classe». Con tale affermazione i due pensatori tedeschi vogliono evidenziare come ogni analisi della totalità sociale debba necessariamente muovere da un esame sistematico dei rapporti di forza che sussistono, in un determinato momento e in una determinata costellazione relazionale, nell’ambito del conflitto tra i gruppi che articolano la sfera sociale.

Questa lotta è il conflitto per il controllo della produzione e della riproduzione, per la distribuzione della ricchezza e per la ripartizione del potere, ma è tutto questo solo perché è in primo luogo una lotta che avviene attorno alla questione del riconoscimento degli esseri umani e fra gli esseri umani (A. Honneth).

Cerco di chiarire tale asserzione. Agli esordi del modo di produzione capitalistico e per tutta una lunga fase del suo sviluppo, i rapporti di forza erano estremamente squilibrati. Le classi proprietarie dei mezzi di produzione conservavano una supremazia assoluta nella società civile e nelle istituzioni, mentre la forza-lavoro era ancora frantumata, e si trovava esclusa dalla sfera politica e privata dei diritti economico-sociali.

La costituzione in classe sociale di questi soggetti (subordinati da millenni) e la loro organizzazione e unificazione in un movimento prima sindacale e poi politico, ha consentito –  nel corso di un secolo e mezzo e a costo di immense lotte sociali –  un fortissimo riequilibrio di questi rapporti (cfr. S. Azzarà, Democrazia cercasi, Imprimatur 2014).

È stata una fase storica lunga, complessa e tutt’altro che lineare, che ha progressivamente ridotto le distanze tra le classi e ha condotto alla costruzione di ciò che oggi intendiamo con il termine “democrazia moderna”.

Questi processi di democratizzazione approdano in Europa, alla fine della seconda guerra mondiale, a quell’assetto politico, economico e istituzionale che definiamo “compromesso socialdemocratico” o compromesso “fordista-keynesiano” tra il capitale e il lavoro. Dopo il 1945 il capitalismo si era ritrovato sulla difensiva in ogni parte del mondo e doveva puntare a ottenere in tutti i paesi occidentali una proroga della propria licenza sociale (potremmo dire, un rinnovo della capitalistica licenza di caccia al profitto). Al termine del secondo conflitto mondiale le società europee erano infatti sconvolte da cima a fondo e le loro classi dirigenti, nel tentativo di non pagare un tributo ancora superiore o di perdere letteralmente la testa (si pensi a quel che era avvenuto in Russia), furono costrette ad accettare il compromesso e l’inclusione delle classi subalterne.

Ciò si ottenne attraverso notevoli concessioni rese possibili dalla teoria keynesiana: una politica economica guidata dallo stato a discapito del mercato (sino al limite di una vera e propria pianificazione), piena occupazione e sempre più estese garanzie contro l’instabilità dei mercati.

Solo a queste condizioni, ossia mettendo il capitalismo al servizio di finalità sociali stabilite dalla politica, si riuscirono a creare i presupposti per la rinascita dell’economia capitalistica dalle ceneri della guerra, e fu possibile per le classi proprietarie riguadagnare la stanza dei bottoni della società industriale nonostante la cattiva prova di sé data nel periodo tra le due guerre.

Il capitalismo tuttavia non voleva e non poteva soddisfare tali rivendicazioni per sempre: proprio nel momento in cui la classe operaia otteneva tale riconoscimento e sembrava aver raggiunto la propria massima potenza, era già cominciato il suo declino.

Alla fine degli anni sessanta la situazione inizia infatti ad assomigliare sempre più a quello che l’economista Michal Kalecki aveva descritto come il momento in cui il modello keynesiano si sarebbe infranto contro la resistenza del capitale. Kalecki inizia la sua analisi chiedendosi quale obiezione i datori di lavoro potessero rivolgere alla politica economica keynesiana, dal momento che essa assicurava loro una crescita continua e senza fluttuazioni.  La sua risposta era che la piena e costante occupazione avrebbe comportato per il capitale il rischio che gli occupati diventassero arroganti perché – a un certo punto – avrebbero dimenticato le difficoltà connesse alla mancanza di lavoro. In un tale contesto, la disciplina sul luogo di lavoro e nella politica sarebbe potuta saltare e perciò, continuava Kalecki, il capitale avrebbe dovuto favorire una disoccupazione strutturale, una sorta di monito che ricordasse agli occupati ciò che sarebbe potuto accadere se avessero esagerato nelle loro pretese.

Seguendo questa impostazione, è possibile interpretare la vicenda del capitalismo negli ultimi trent’anni come la vittoria delle élite sui tanti vincoli che erano stati imposti al capitalismo dopo il 1945 allo scopo di renderlo sostenibile. La storia del capitalismo dagli anni settanta del ventesimo secolo a oggi, incluse le continue crisi economiche succedutesi in quell’arco temporale, è null’altro che la storia della fuoriuscita del capitale dalla regolamentazione sociale entro cui era stato costretto dopo il 1945.

Una regolamentazione che, in verità, non aveva mai accettato.

 

 

3) Si è spesso definito il marxismo come religione secolarizzata. Attraverso la concezione secondo la quale il riproporsi nella storia dei conflitti di classe condurrebbe ad un processo necessario e progressivo di emancipazione del lavoro dallo sfruttamento capitalista e quindi ad una società comunista senza classi, la storia perverrebbe al suo definitivo compimento. La storia allora non avrebbe il suo inizio, ma perverrebbe alla sua fine, e con essa verrebbero meno anche i suoi fini. Il conferire alla storia finalità necessarie, contraddice i presupposti stessi della filosofia marxiana. L’infuturamento della filosofia, la tensione verso un avvenire in cui si prefigura l’avvento della libera individualità umana, la prassi trasformatrice delle condizioni del presente verrebbero meno, qualora la storia avesse finalità predeterminate e seguisse quindi un processo necessario. Il progressivo decadimento ideale e culturale della sinistra novecentesca, cui ha fatto riscontro l’adeguamento conformista delle sue classi dirigenti al capitalismo, non è la dimostrazione evidente di come una fede acritico - messianica nella necessità storica possa annientare ogni prassi politica di trasformazione rivoluzionaria della realtà?

 

 

L’ipotesi – condivisa da molti commentatori – secondo cui Hegel avrebbe avuto la pretesa di conoscere l’essenza e la totalità del reale, determinando – attraverso una dialettica di compimento (Vollendung) – la “fine della storia”, mi è sempre apparsa inverosimile. Ritengo tuttavia possibile che Hegel teorizzasse non tanto la “fine degli eventi”, ma il fatto che a livello di fantasia politico-sociale non si sarebbe più inventato materiale normativamente migliore di quello di cui la sua epoca disponeva (famiglia, libertà cristiano-germanica, Stato, ecc.). Come se in qualche modo Hegel avesse voluto asserire: «hai tutti gli elementi del puzzle sul tavolo, ma il puzzle non è stato ancora del tutto composto; quello che è certo è che non ti arriveranno più tessere del mosaico nuove. Fai con quello che hai».

Come giustamente notavi, questo tipo di finalismo tende a distruggere la novità e annichila il tempo che, secondo questa lettura, servirebbe soltanto a dispiegare un programma elaborato sin dall’inizio. In realtà, si tratta di un problema più apparente che reale, se solo si considera che lo stesso pensiero hegeliano è ambiguamente in bilico tra una legittimazione adattiva dell’esistente («ciò che è reale è razionale») e una tensione verso una razionalità a venire («ciò che è razionale, è reale»).

Come evidenziarono Adorno e Horkheimer negli anni cinquanta del secolo scorso, la dialettica è infatti l’unico strumento che, creato dal dominio, abbia al tempo stesso in sé la capacità di emanciparsi da esso. Nella dialettica hegeliana vi è infatti una duplice ambiguità: quella tra riconoscimento del negativo e sua neutralizzazione.

Da un lato si potrebbe dire che la dialettica hegeliana (metabolizzata da Marx) sia riducibile a una fantasia di vittoria, rivelandosi come il trionfo di una sintesi che è in realtà un atto di pax romana, una sorta di decreto imperiale che tacita e coopta lo sconfitto in un Nuovo Ordine Superiore («produrre un termine universale in cui sussumere l’opposizione», per utilizzare il gergo della dialettica). Quel che così accade è la reinterpretazione della polemica e il riassunto del conflitto per mano del vincitore, il quale schematizza la storia a mo’ di sviluppo e di progresso verso sé.

Questa dialettica “positiva” – dice Adorno – è un marchingegno repressivo ai danni del secondo: “negazione della negazione” è una formula che può suonare neutrale e giusta solo in termini logici, e solo in quest’ambito può sembrare che all’antitesi sia accaduto quel che era giusto le accadesse.

D’altro lato però, anche per i francofortesi sarà solo e soltanto un pensiero dialettico che potrà farla finita, una buona volta, con la “legittimazione ideologica” di una parte che si presenta quale vincitrice e totalità. QSolo quando questo accadrà, la dialettica non sarà più al servizio di questa o quella prepotenza, non sarà più arma o strumento propagandistico, ma piuttosto si rivelerà un ottimo dispositivo di descrizione della realtà, della storia e dei sui conflitti[2].

La teoria critica francofortese ha dunque rappresentato un tentativo di assumere l’eredità della dialettica senza elaborare fantasie trionfali: si dà voce a chi è stato violentato e battuto, si dispiega per la prima volta, in modo conseguente, l’istanza di una riscrittura della storia in cui gli sciagurati che ne furono le vittime non vi figurino solo come “concime”. La violenza l’ingiustizia dei passati conflitti – scrivono Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’illuminismo – non devono essere ripetute ora, sul piano storiografico, anche nel nostro modo di guardare al passato.

Per procedere a un altro punto da te individuato, effettivamente sia una filosofia della storia teleologica e necessitaristica, che un atteggiamento opposto di tipo cinico-aleatorio permettono la passività e l’indifferenza (il sedersi sulla riva e guardare lo spettacolo).

Come sai, a mio parere solo una filosofia della storia che abbia invece come suo perno la categoria di potenzialità (dynamei on) può permettere una vera prassi modificatrice. Non esiste infatti un autonomismo dalla potenza all’atto: questo meccanicismo può forse funzionare con le scienze della natura, ma sicuramente non nella storia. Si esce dunque da una situazione egoistica di “spettatore di un naufragio” (Lucrezio), e si diventa filosofo solo nel momento in cui si abbandona il fatalismo rassegnato (e l’egoismo di chi si sente al sicuro sulla sponda) non per giungere a un “cinico disincanto”, ma abbracciando una prospettiva che si fondi sull’assunto di un progresso possibile, ma problematico e sempre soggetto battute d’arresto e, non di rado, anche soggetto a macroscopici regressi.

Una ipotesi filosofica – da noi esaminata in una precedente intervista – in cui il progresso non si configuri come una certezza indubitabile (assumendo così – ingiustificatamente – la forma di un automatismo che sembra poter prescindere dai concreti sforzi dell’umanità), ma come una possibilità suscettibile di fallimento, una possibilità che, per verificarsi, richiede sforzi costanti da parte della comunità umana.

 

 

4) Nella filosofia marxiana si affermano due componenti fondamentali: quella della "scienza pura" e quella di carattere messianico - utopico. Una filosofia dialettica imperniata sul futuro e il superamento dello stato di cose del presente storico, non può che contenere in sé un fondamento utopico. Utopia scaturita dall’analisi critica della totalità sociale del presente, che concepisca la storia dell’uomo come un processo volto alla realizzazione di potenzialità presenti nella sua realtà storica, ma non ancora espresse e compiute. Si è definita la filosofia marxiana come "utopia spacciata per scienza". Ravviso tuttavia una contraddizione fondamentale tra la scienza pura e il nucleo utopico marxiano. La scienza attraverso i suoi procedimenti empirici di analisi della storia conduce ad una concezione deterministico - necessaria di una storia dominata da un progresso illimitato, impersonale, immanente. La scienza fa venir meno la stessa ragion d’essere della filosofia, che trae la sua origine dalla incompiutezza della realtà e genera speranza e  volontà di trasformazione del reale. La scienza procede attraverso procedure necessarie prive di finalità, l’utopia invece dà senso e finalità alla realtà del presente. Penso che sia l’elemento utopico a conferire oggi validità ed attualità alla filosofia di Marx. Una filosofia cioè che rimuova le condizioni del presente postulando un dover essere dell’uomo, che prefiguri nuove realtà, alla cui realizzazione l’uomo, inteso come potenzialità ontologica, debba tendere. Occorre su tali presupposti creare nuclei di resistenza alla "desertificazione del futuro" e all’"assolutismo della realtà".      

 

         

Preve definisce quella marxiana un’utopia scientifica (in cui l’apparente ossimoro è intenzionale) nella quale un’ispirazione utopica tardoromantica suscita una specifica critica dell’economia politica, basata sulla coincidenza fra la teoria filosofica dell’alienazione e la teoria economica del valore. Cercherò di esaminare con ordine la questione, per poi concludere con un mia breve riflessione.

Tutta la problematica marxiana del lavoro astratto, come quella del feticismo, risulta inconcepibile senza il riferimento all’opera di Hegel. Il lavoro astratto per Marx non è una generalizzazione mentale, qualcosa che si ottiene facendo astrazione dalle caratteristiche concrete dei singoli lavori utili, bensì è il lavoro alienato stesso. La società capitalistica si presenta perciò come realtà capovolta o rovesciata, dove il soggetto, il lavoro concreto, scade a predicato, esattamente come nella logica di Hegel.

La saldatura – avvenuta negli anni settanta ad opera di Lucio Colletti e Claudio Napoleoni – della teoria del valore e del feticismo, ossia la comprensione che il concetto di “lavoro alienato” che Marx ha utilizzato negli scritti giovanili (per esempio nei Manoscritti del 1844), è equivalente al concetto di “lavoro astratto” della teoria del valore impiegato nell’opera della maturità (per esempio, nel Capitale), ha determinato delle ripercussioni sull’interpretazione del marxismo come sociologia scientifica, che vengono integralmente recepite dallo stesso Preve.

Nella celebre lettura di Lucio Colletti l’alienazione, che secondo la sua ipotesi rimanderebbe al carattere “a testa in giù” ascritto ad una società, implichi che sia già stato surrettiziamente presupposto il futuro necessario rovesciamento (la dis-alienazione) della suddetta realtà, sia stato già presupposto l’esito finalistico di tale processo. Diviene quindi evidente come l’opera marxiana sia non solo un’analisi scientifica della società borghese, ma incarni anche un’ideologia contraddistinta da «concezioni finalistiche».

Partendo da queste importanti riflessioni, nelle sue opere Preve è solito distinguere, in riferimento al tema dell’alienazione (Entfremdung), due interpretazioni. In un primo significato alienazione significa abbandono progressivo di una situazione originaria, per definizione pura ed appunto ancora non “alienata”. Questo significato è caratteristico del “pensiero religioso”, che per definizione è un pensiero dell’Origine, non solo perché Dio come Creatore è all’origine del mondo, ma anche perché la storia umana è una storia per definizione peccaminosa in quanto si “distacca” dalla sua origine, cui si tratterebbe appunto di ritornare per restaurarla in tutta la sua incorrotta purezza.

In quest’ottica, quando si scopre che la teoria dell’alienazione è strettamente intrecciata con la teoria del valore e che, quindi, non è possibile separare un Marx scienziato da un Marx fortemente influenzato dal pensiero hegeliano e dialettico, si è fatalmente portati a considerare il marxismo semplicemente come una secolarizzazione dell’escatologia giudaico-cristiana, situazione che non potrà che concludersi con un congedo definitivo da Marx e dal marxismo in generale.

Preve non nasconde che questa grande-narrazione abbia caratterizzato il marxismo storicamente esistito, «perché – come lui scrive – il marxismo è fondamentalmente stato un’ideologia di una classe profondamente subalterna, e le classi subalterne tendono spontaneamente e con ineluttabilità magnetica ad una concezione religiosa del mondo»[3]; tuttavia a suo parere Marx riteneva l’uomo “alienato” non tanto rispetto ad una sua origine, quanto rispetto alle sue possibilità ontologiche ed antropologiche.

Secondo questa prospettiva, il termine alienazione non deve essere concepito in rapporto a un’origine perduta nel ciclo della peccaminosità umana, ma deve essere invece più sobriamente inteso come estraniazione dalle concrete possibilità ontologiche di una vita sensata. Per Preve, l’alienazione è tale solo in rapporto alle potenzialità immanenti (dynamei on) dell’ente naturale generico (Gattungswesen). Come si può notare, l’interpretazione previana è opposta rispetto alla precedente; invece di legare il pensiero marxiano alla tradizione giudaico-cristiana, Preve segnala l’influenza esercitata dal pensiero greco (ed in particolare aristotelico) su Marx.

Preve afferma a questo proposito che Aristotele, assai più di Platone, è il pensatore antico che ha ispirato maggiormente Marx, il quale viene da lui interpretato come un pensatore aristotelico della possibilità ontologica, e non come un pensatore del determinismo positivistico e della connessa concezione necessitaristica di scienza. Il comunismo viene così reinterpretato come una possibilità ontologica interna agli sviluppi sociali del capitalismo, e non come un “esito necessario” imposto dalle leggi della storia.

Un ultimo breve appunto. Quando Marx contrappone il suo socialismo, in quanto scientifico, al socialismo utopistico di Owen, di Saint-Simon e di Fourier, intende a mio parere sostenere che il suo socialismo, a differenza dei precedenti, è in grado non solo di dire come stanno le cose, sa anche di indicare che necessariamente dovranno andare in un determinato modo, di avere un carattere previsionale.

La proposta di sostituire l’ontologia necessitaristica hegeliana con una ontologia incardinata sulla categoria di possibilità non è quindi assolutamente un’operazione neutrale, ma è un’operazione piuttosto rischiosa, perché può prestare il fianco all’accusa di far “retrocedere” il marxismo dalla scienza all’utopia.

Diviene così necessario indagare se vi può essere una “previsione” non fondata sul concetto di necessità, e se può esistere una filosofia della storia di carattere non teleologico-finalistico: come evidenziavamo in una precedente intervista, una filosofia della storia che sappia abbandonare il concetto di progresso, senza rinunciare al progetto dell’emancipazione dell’umanità.

Un grosso problema cui deve far fronte chi volesse riprendere oggi questo programma filosofico, è che la forza e la fortuna avuta da Marx e dal marxismo nel novecento derivarono precisamente dalla “certezza” che il materialismo storico avesse un carattere scientifico, previsionale: furono tantissimi quelli che cedettero al fascino di un sistema in cui la scienza dimostra che sarà la necessità a eseguire i verdetti della coscienza. D’altra parte non si è mai diventati rivoluzionari dopo aver capito e compreso il meccanismo della teoria del valore di Marx, ma sempre e soltanto per domanda di senso, richiesta di prospettiva e reazione all’ingiustizia, alla diseguaglianza e alla insicurezza.

Se si adotta l’ipotesi di ricerca da me delineata, pur mettendo in discussione alcuni dei presupposti delle cosiddette “teorie scientifiche” di Marx, l’accusa di ricadere in una forma di socialismo romantico-utopistico (per dirla con una battuta, tornare in retromarcia da Marx a Fourier) sarebbe comunque errata; questo perché, a differenza dei filosofi utopisti del passato che hanno da sempre immaginato città fantastiche e soluzione fiabesche destinate a rimanere nel cielo della teoria (poiché totalmente sconnesse dalle possibilità reali), la nostra critica del mondo prenderebbe le mosse da possibilità oggettivamente presenti nella realtà del capitalismo moderno. Come scrisse Marcuse in un testo intitolato Progresso e felicità, «oggi è forse meno irresponsabile tratteggiare un’utopia fondata, che diffamare come utopia condizioni e possibilità che già da molto tempo sono diventate possibilità realizzabili».

 

Intervista ad  a partire dal libro "Invito allo Straniamento" II, Editrice Petite Plaisance, 2016

 



[1] Come scrive Preve in un saggio intitolato Marx der Idealist, «L’idealismo di Marx è una “scienza filosofica” nel senso di Hegel, e non certo una science nel senso dell’empirismo inglese o una science nel senso del positivismo francese, in quanto non consente di distinguere fra ontologia ed assiologia, fatto e valutazione, mentre la science, da Galileo a Newton in poi, si basa proprio sull’isolamento dei fatti dai valori morali. Ma il comunismo di Marx è appunto unità fra preferenza assiologica e contenuto economico dell’evoluzione storica» [C. Preve, Marx der Idealist, Bruchlinien, 18,  Wien 2006].

[2] Per Adorno la dialettica non è solo elemento di unificazione, anzi, proprio in quanto unifica si fa in realtà elemento di contraddizione, cioè di rottura dell'identità. La sua verità non sta nell’esito conciliante hegeliano. Essa è coerente con se stessa solo se si pone come logica della contraddizione universale.

[3] C.Preve, Storia critica del marxismo, La Città del Sole, Napoli 2007, p. 105.