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Illuminismo, il maggior bluff filosofico della storia

di Francesco Lamendola - 21/07/2016

Illuminismo, il maggior bluff filosofico della storia

Fonte: Il Corriere delle regioni

L’uomo è nato libero, ma dappertutto è in catene: con questa bestialità filosofica, con questa assurdità logica – se l’uomo nasce libero, com’è possibile che sia, ovunque, in catene? – si apre Il contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau e si istituzionalizza, per così dire, la caratteristica fondamentale della filosofia del XVIII secolo, che poi è stata trasmessa ai secoli seguenti, fino ai giorni nostri: il suo essere esasperatamente ideologica, cioè il partire non dall’osservazione del reale -  che, anzi, viene criticato e rifiutato – ma da una serie di preconcetti non dimostrati e, quel che è peggio, indimostrabili.

In altre parole, la filosofia dell’illuminismo porta a livelli mai visti prima la tendenza ad imporre al reale le categorie del pensiero umano; più precisamente, le categorie del pensiero illuminista, divinizzando l’uomo e assolutizzando la ragione, la scienza e il progresso. Soprattutto, costruendo una  “nuova” idea di ragione: quella di una ragione contro, cioè totalmente “libera” e spregiudicata, una ragione che serve a demolire la tradizione ma che si rivela meno interessata a costruire delle nuove certezze. Per quelle, si affida alla scienza e alla tecnica; lei, ha cose più importanti da fare: bandire ovunque la nuova religione della libertà, spezzare le catene dell’oscurantismo e della superstizione, che tengono l’uomo asservito e abbrutito, e riaccendere alta nel cielo della storia la fiamma di una ragione siffatta, che rischiari le menti degli uomini e li guidi verso la felicità e verso il bene (visti, come li vedeva Socrate, come una cosa sola).

Gli illuministi, che si sono autodefiniti philosophes, come se loro soltanto avessero fatto professione di filosofia, hanno così fondato un nuovo paradigma, letteralmente forzando le tappe e imponendo una nuova concezione del mondo, sotto la spinta poderosa delle società segrete, e specialmente della Massoneria: senza prendersi la briga di dimostrare le loro “verità”, hanno asserito che la natura è buona e che l’uomo è naturalmente libero; per cui si tratta solo di assecondare la natura, sempre e comunque, combattendo, allo stesso tempo, ciò che limita o impedisce la libertà dell’uomo, e ogni cosa andrà nel migliore dei modi, senza bisogno di null’altro. Infatti la natura è un sistema perfettamente autosufficiente, che basta a se stesso, e l’uomo è un piccolo dio che non deve temere nulla e nessuno, se non la triste abitudine, insegnatagli da secoli d’ignobile servaggio, a non credere più in se stesso e a rinunciare volontariamente, per stanchezza e ignoranza, al bene inestimabile della sua libertà naturale.

È quasi incredibile quale vuoto macroscopico si nasconda, a livello propriamente speculativo, dietro le formule accattivanti e ben studiate di quei signori; come e più dei sofisti greci - anche perché avevano alle spalle forze oscure e potenti, a cominciare dalla finanza -, essi sono riusciti ad accreditarsi come i “veri” pensatori del loro tempo e, addirittura, ad imporre all’Europa e al mondo, per le generazioni successive, la loro idea di quel che la filosofia è. Il furore antimetafisico di Hume e quello, solo in apparenza più raffinato, di Kant; il delirante solipsismo di Fichte e di Hegel; il materialismo e l’economicismo brutali di Marx, il positivismo, il darwinismo, la psicanalisi, tutte queste tappe della coerente, rigorosa distruzione del pensiero moderno, del suicidio della filosofia come ricerca della verità perenne, hanno origine da lì. In pratica, si è trattato del più grande bluff, della più grande “montatura” nella storia del pensiero.

Vale la pena di rileggersi una pagina del capolavoro di Augustin Cochin (1876-1916), genio emarginato e dimenticato – forse perché aveva puntato il dito in maniera troppo esplicita contro la Massoneria, e aveva rifiutato d’inchinarsi davanti ai luoghi comuni della mitologia illuminista -, La Révolution et la libre-pensée. La socialisation de la pensée (1750-1789) (Paris, Plon-Nourrit et C.ie, 1924; titolo della traduzione italiana di Carmen Montesano: Meccanica della rivoluzione, Milano, Rusconi, 1971, pp. 150-154;  155-156):

 

Dio è; noi diveniamo. È esattamente il contrario di quel che pensava Renan, che fu l’ultimo dei filosofi nel senso  che il diciottesimo secolo attribuiva a questo nome. Questi filosofi si sono chiesti: perché l’uomo non potrebbe essere come Dio? Possiede una natura buona, una coscienza assoluta,  una scienza generale: è dunque libero; potrebbe chiedere la forza alla natura, l’obbligo alla coscienza, la legge alla ragione. Ora, se è vero che la coscienza ci dà l’obbligo assoluto è vero anche che né la natura ci dà una forza infinita, né la ragione una legge certa e perfetta. E perché non identificarla spinta della coscienza con l’oggetto dell’esperienza, il mondo? Perché non collegare l’obbligo della coscienza alla legge generale della scienza? La spinta della coscienza non è forse assoluta? Certamente; ma il mondo non è infinito; è la cosa più grande che io conosca.  dovere è assoluto; il diritto è relativo, giacché l’essere che conosco e al quale l’applicherò è finito.

Abbiamo dunque di fronte un dovere assoluto ma una legge imperfetta; sentiamo la necessità di obbedire, e la nostra conoscenza non ci dà una regola sicura. Da ciò il carattere della morale e delle leggi umane, assolute e universali quanto all’obbligo che impongono, relative e variabili quanto alla forma che assumono; una coscienza e mille morali. Affinché possa essere stabilita la legge morale assoluta, occorre che un’intelligenza adeguata all’Essere ci consenta di fondarla: questo è il cardine della legge della Chiesa, sulla quale il mondo vive da duemila anni, cioè più o meno da quando ha cominciato a pensare.

Su questo punto i filosofi divergono dalla pratica generale e dall’opinione comune. Non cambiano nulla alla forma del principio, ma pretendono di trarre da esso una legge ad un tempo generale ed assoluta, di fondare un diritto alla libertà, determinabile, immediato e applicabile. Non pretendono certamente di possedere ogni verità; ma credono che questo possesso, essendo le cose quelle che sono, non sia altro che questione di fatica e di tempo; che il mondo sia fatto per bastare a se stesso e che possieda in sé  gli elementi necessari per essere autosufficiente: la verità, cioè l’intelligibile, e la ragione. Si tratta soltanto di mettere d’accordo la ragione inconsapevole delle cose e la ragione cosciente dell’uomo. 

Nasce così una nuova interpretazione delle leggi scientifiche: esse sono NECESSARIE, in senso assoluto. Ma questa non è altro che un’ipotesi metafisica; ed è un’idea grossolana. Il punto di partenza della scuola filosofica del diciottesimo secolo è dunque un atto e non una scoperta nuova; è un partito preso intellettuale, e non una realtà di fatto. Nell’ordine intellettuale non aggiunge nulla alle idee comuni: la sua ultima parola è un rifiuto.

Ogni sistema filosofico può vantarsi di alcuni meriti. I panteisti fanno astrazione dal relativo, ma almeno prendono in esame Dio. I sensisti negano la ragione e la volontà, ma analizzano l’esperienza. Dalla “filosofia” senza attribuiti, la ragione non ha nulla da guadagnare: essa infatti consiste nell’applicare le leggi dell’oggetto della conoscenza al solo oggetto che sia interamente fuori del dominio di queste leggi, l’obbligo morale; nell’unire il generale e l’assoluto nel relativo. Ora, attribuire un valore assoluto a certe leggi, ed erigere questo valore a metafisica, non significa affatto far progredire la scienza. In questo senso si può dire che la filosofia abbia divinizzato l’uomo. Si potrebbe altrettanto giustamente dire che i filosofi hanno annientato l’uomo. Lo dichiarano completo, perfetto così com’è; il male è solo un malinteso. Tutti gli elementi del bene, la forza per raggiungerlo, la ragione per mostrarlo, sono “in proximo”, sottomano. Si tratta ormai soltanto di conciliare, di intendersi, di arrangiarsi è una dottrina che segna una pausa, è una dottrina di rifinitura: di perfezione, sostiene l’intelligenza; di morte, risponde l’esperienza. È una dottrina adatta a un tempo di benessere materiale ma anche di corruzione, di miseria morale: le sorgenti profonde della fede e della vita si inaridiscono; lo slancio cessa. È una dottrina non vecchia ma debole. Soltanto l’atto divino è insieme buono secondo il bene naturale, la felicità,  e buono secondo il bene morale, il dovere; perfettamente libero, nel senso oggettivo, e perfettamente cosciente e intelligibile. In Dio solo, intelligenza e volontà, verità e bene procedono affiancati e di pari passo.

Viene dato il nome di “filosofi” non solo ai fondatori, ma anche ai più umili seguaci della filosofia dei lumi: non perché costoro siano i filosofi per eccellenza, ma perché fanno della filosofia là dove la filosofia non c’entra. Infatti l’applicano al di fuori della sua sfera specifica, alla morale. Impresa estremamente audace e tentata soltanto da loro. […]

La legge di libertà è l’idea fondamentale, la chiave di volta della “filosofia” del diciottesimo secolo. La si può enunciare nel modo seguente. La natura è buona, tende al bene. La volontà cerca il bene: quale essere vuole la sua distruzione? La ragione lo scopre. Così l’uomo essere naturale, dotato di ragione, raggiungerà necessariamente il suo fine, il bene, ed il suo scopo, la felicità, ad una sola condizione: che lo si lasci libero. La libertà è il mezzo per conseguire ogni bene, ed è il primo di tutti i beni. Ma la ricerca del bene è un dovere, dunque la libertà, condizione necessaria per il raggiungimento di ogni bene, è il primo dovere. E la volontà buona ha diritto al bene: quindi la libertà è il primo fra tutti i diritti.

 

Ecco, quest’ultimo punto, è il punto centrale; e oggi, più che mai, ne vediamo le conseguenze e le applicazioni pratiche: se la ricerca del bene è un dovere, e se la condizione prima per espletare tale dovere è la libertà, allora ne deriva che la libertà è un diritto, il primo di tutti i diritti. Le filosofie moderne sono tutte, quale più, quale meno, filosofie della libertà: filosofie che proclamano i diritti, ma parlano poco o punto dei doveri. Il discorso sui doveri non piace; e infatti, quei pochi che lo fanno, a parte i pensatori d’ispirazione cristiana, sono immediatamente accusati di fideismo e oscurantismo: si pensi alla definizione data da Bakunin di Giuseppe Mazzini: ultimo gran prete dell’idealismo metafisico, religioso e politico. Quello sui diritti, invece, sembra fatto apposta per stuzzicare gli appetiti di tutti, e specialmente di coloro i quali nutrono appetiti torbidi, vergognosi, inconfessabili: si pensi alla filosofia del boudoir di F. A. De Sade, forma estrema di libertinismo sadico, fecale e necrofilo, che uscirà circonfuso dall’aura del martirio per essere stato detenuto alla Bastiglia proprio alla vigilia della Rivoluzione (anche se per delle ragioni che nulla avevano a che fare con la politica o con l’ideologia).

Si noti la tremenda, e certo non casuale, confusione dei piani. La libertà è il presupposto della condizione umana, nonché il mezzo per conseguire il bene, ma anche il premio che spetta al bene (confusione tra cause, mezzi e fini); l’uomo, essere dotato di ragione, vede naturalmente quale sia il suo bene e mira a realizzarlo; del resto, la natura tutta tende al bene, perché la natura tutta è regolata secondo ragione (dal Grande Architetto dell’universo, è chiaro). A questo punto, non si capisce da dove sorga il male e da dove si origini la servitù universale di cui è vittima l’uomo: infatti il male, in se stesso, è negato, è solo un equivoco, un fastidioso contrattempo. Negato, però, il male si vendica: per estirparlo, per distruggerlo, l’uomo è costretto a impegnarsi con tutte le sue forze: si scalda, si adira, si getta a testa bassa nella crociata: in nome del diritto alla libertà, bisogna spazzar via tutto ciò che vi si oppone. La filosofia della ghigliottina, dello sterminio (come sarà in Vandea), nasce da qui: dal doversi impegnare duramente contro un avversario che era stato sottovalutato, disprezzato, negato, e al quale non si riconosce neppure il diritto di cittadinanza. Come si permette di esserci, il male, in un mondo così bello e ordinato? No, non avrebbe neppure il diritto di esistere: non rientra nelle categorie di Rousseau e dei philosophes (e Robespierre, nella sua biblioteca, possiede solo libri di Rousseau). E tuttavia, esso c’è: dunque, bisogna farlo sparire, ma farlo sparire senza riconoscergli la dignità d’un vero nemico, senza attribuirgli lo status di legittimo avversario. I philospohes combattono contro il male, come i combattenti della libertà, nella guerra civile europea degli anni fra il 1939 e il 1945, combatteranno contro il “mostro” fascista: negandogli il diritto d’esistere, rifiutandosi di prendere in considerazione ciò che esso rappresenta, al di là dei facili schematismi retorici in funzione auto-celebrativa.

È questo che rende crudele la filosofia dell’illuminismo: essa nega la realtà (perché il male fa parte della realtà) e, in nome del bene (che i vari Robespierre amano chiamare “virtù”) intende sradicare tutto ciò che gli si oppone. Eppure, anche un bambino vedrebbe che, se esiste il bene, ciò significa che esiste anche il male (che esiste già in natura, vogliamo dire); e che, se l’uomo ha diritto alla libertà, non resta altro da fare che rimboccarsi le maniche e cominciare a tagliare le teste. E anche un bambino comprenderebbe che il bene, realizzato in una tale maniera, cessa d’essere il bene e si rovescia nel suo contrario: e infatti è così, in maniera del tutto logica e coerente, che, dalla predicazione della Virtù, la Convenzione passerà all’instaurazione del Terrore. Il Terrore è il braccio armato della Virtù, intesa come il dovere d’instaurare la libertà e di esportarla a tutti i popoli, per amore o per forza.

Il resto, filosoficamente parlando, è sbadiglio. Le opere di Voltaire, filosoficamente parlando, fanno ridere, quando non annoiano a morte. Il Candide è un noioso, saccente sproloquio pseudofilosofico, buono per i palati grossi; lo stesso vale per Micromega; il Dizionario filosofico, poi, a parte il brio dello stile, è addirittura imbarazzante per la povertà e la piattezza dei contenuti. Di Rousseau, Il contratto sociale è astruso e velleitario; l’Emilio, è penosamente, goffamente  ideologico; la Nouvelle Eloise è noiosa e basta. Diderot non è certo meglio; d’Holbach e La Mettrie, se possibile, ancora peggio. Filosoficamente parlando, tutti quei signori stanno a zero. Non sanno sostenere un solo ragionamento; non sanno neppure che cosa voglia dire argomentare: e, del resto, non gliene importa neppure. Loro sanno già che cos’è la realtà: tutto quel che desiderano, è un pubblico da catechizzare, da incivilire, da convertire. Hanno bisogno di dame che si commuovano e si sentano acute e spiritose leggendo le Lettere persiane di Montesquieu, o che s’interessino alla fisica di Newton, per avere il sesso femminile alleato nella loro battaglia: se, poi, si riesce anche a farle piangere, come avviene con le lettrici di Paul et Virginie di Bernardin de Saint Pierre, tanto meglio. Non è all’intelligenza dei lettori ch’essi puntano, ma alle viscere.

In ogni caso, essi hanno un grosso vantaggio sui veri filosofi: quel ghigno sprezzante, quel sorriso beffardo che aleggia loro sulle labbra; quella luce d’irrisione, di superiorità ironica, che brilla nei loro sguardi. Si osservi un ritratto di Voltaire, oppure di La Mettrie: sorridono, sorridono sempre, guardando e ammiccando verso l’osservatore. Ma non è, il loro, un sorriso bonario, pacifico, pieno di comprensione: è un sorriso strafottente, aristocratico nel senso peggiore del termine; è come se dicessero: Come siete buffi, poveri uomini del passato! Noi, che rappresentiamo l’avvenire, vi guardiamo dall’alto in basso; noi sappiamo quel che voi non sapete; noi siamo nel vero, e per questo verremo ricordati per sempre; voi brancolate nell’errore, e il vostro destino sarà quello di finire dimenticati nel giro di qualche anno appena. Chi sfoggia un tale sogghigno, appare molto intelligente e spiritoso, molto sicuro di sé: chi non lo invidierebbe? E quale dama aggiornata e sensibile non finirebbe, prima o dopo, per innamorarsene? Via: per secoli e secoli, la filosofia è stata un fardello pesantissimo, riservato a pochi iniziati; ora, finalmente, è un passatempo leggero come una piuma, e frizzante come uno spumante. I filosofi non sono più degli individui arcigni e stralunati: sono gente simpatica, animata dalle migliori intenzioni, i quali se ne vanno attorno in continuazione, per portare un po’ di bene all’umanità.

Meglio di così! Poter indossare l’apparenza di filosofi, senza dover fare veramente la fatica di pensare. I signori e le signore sì, che se ne intendono. Altro che secolo dei lumi: il 1700 è il secolo dei furbi, i quali hanno capito come va il mondo…