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Una classe dirigente immemore e arrogante sta costruendo una società senz’anima

di Francesco Lamendola - 24/07/2016

Una classe dirigente immemore e arrogante sta costruendo una società senz’anima

Fonte: Il Corriere delle regioni

Sindaci, assessori e urbanisti, immemori e arroganti, pianificano la distruzione sistematica dei vecchi quartieri, mandano avanti le ruspe come fossero carri armati e, al posto dei vecchi edifici, cari al cuore dei cittadini, perché carichi di ricordi, tirano su edifici verticali mozzafiato high-tech, sfavillanti nelle loro linee ultramoderne, da esporre come biglietti da visita delle loro politiche urbane “illuminate” e della loro voglia di fare “guardando in avanti”. Un esempio fra mille: a Udine, in Via Generale Carlo Caneva (all’interno del centro storico), nel 2011 sono state abbattute delle casette del 1700, peraltro in buono stato, care a tutti i cittadini perché, tra gli anni ’50 e ’70 del Novecento, ospitavano una notissima gelateria familiare; al loro posto, è stato eretto un palazzone di sette piani (più due interrati, adibiti a parcheggio) ad alta tecnologia. Ora toccherà a una chiesetta, anch’essa storica, posta all’interno dell’ex Istituto Femminile Renati, passato all’Ateneo udinese, che ne ha autorizzato la demolizione. Alla faccia delle obiezioni di chi non è d’accordo.

Uomini e donne politici, immemori e arroganti, portano avanti i loro disegni di legge che calpestano il comune sentire di oltre metà dei loro concittadini, per puntiglio ideologico, per smania d’imporre a tutti la loro concezione di vita “progressista” e “libertaria”, mentre è solo giacobina e stalinista, nel senso più banale della parola, cioè totalitaria e forcaiola (nei confronti di chi non è d’accordo). Valga per tutti l’ex ministra Melandri, evidentemente indispettita per l’esito del referendum sulla Brexit, che re-twitta: Invece di negare il voto ai minori di 18 anni, perché non toglierlo a chi ne ha ancora meno 18 da vivere? Ora, il partito politico della signora Melandri si è sempre qualificato come il difensore dei più deboli, dei più indifesi; domandiamo: parlare in questi termini dei vecchi, è logico e coerente con una simile pretesa?

Teologi, vescovi e sacerdoti, immemori e arroganti, sostengono che la Chiesa dovrebbe chiedere scusa ai gay (non agli omosessuali; ai gay, perché le parole da usare le decidono le minoranze che rivendicano i loro presunti diritti: e quei tali cattolici son d’accordo anche su questo), non si sa bene perché, pare per averli “discriminati”: così dice, e da tempo, il cardinale Reinhard Marx, e adesso lo ha detto anche papa Francesco. Il fatto è che la Chiesa ha sempre considerato il “vizio impuro contro natura” come un peccato gravissimo; secondo il Catechismo di Pio X, uno dei quattro che gridano vendetta al cospetto di Dio; secondo San Paolo (nella Lettera ai Romani), uno dei segni dell’accecamento e dell’abbrutimento dell’uomo che si allontana dalla verità divina. Ha sbagliato la Chiesa per 2000 anni, o stanno delirando i teologi e i preti odierni?

Una classe dirigente arrogante e smemorata sta stravolgendo il paesaggio fisico e, insieme ad esso, il paesaggio civile e morale della nostra società: costoro vogliono ridurre a zero la memoria del passato, il senso d’identità e di appartenenza, in nome di un “mondialismo” efficientista e tecnologico e di una “globalizzazione” caotica e omologante; vogliono strappare quel poco che resta dell’anima della civiltà dei nostri padri, e sostituirla con un deserto esistenziale, dove né l’occhio possa trovare dei luoghi noti ed affettivamente significativi, né la mente trovi dei concetti, dei valori e delle pratiche di vita fondate sulla tradizione, ma soltanto realtà nuove, incomprensibili, scioccanti, che negano e contraddicono tutto quello che generazioni e generazioni hanno faticosamente conquistato, elaborato, trasmesso, facendone tabula rasa.

È come se questa nuova classe dirigente (nuova, relativamente parlando: la signora Melandri, che vagheggia la proibizione di votare per chi ha meno di 18 anni da vivere, è del 1962 e, dunque, ha compiuto 54 anni: si vede che pensa di camparne almeno 100; il cardinale Marx, poi, è del 1953, e dunque, di anni ne ha 63) avesse concertato un piano per la distruzione sistematica e concentrica del passato; e, più precisamente, di quegli elementi del passato che fornivano la malta per tenere unita e coesa la società. È come se ci fosse stato un passaparola: via le fondamenta, via la memoria, via la tradizione. Marco Porcio Catone concludeva ogni suo discorso, in Senato, con la frase: Carthago delenda est, sia che c’entrasse, sia che non c’entrasse affatto con la questione di cui si stava discutendo: per lui, la distruzione di Cartagine era sempre all’ordine del giorno. Pare che i membri della odierna classe dirigente siano dominati da una analoga fissazione: Traditio delenda est!, la tradizione deve essere distrutta. Punto e basta.

Sono uomini del Progresso, loro, non miseri omuncoli del passato. Tutto ciò che ha più di 10 anni, per essi, appartiene al passato, e non merita di sopravvivere: va eliminato per fare posto al nuovo. I sogni più spinti del Manifesto del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti si stanno facendo realtà: in nome della velocità e della tecnica, si sta demolendo tutto ciò che appartiene alla tradizione. La tradizione è il Male, il progresso è il Bene. Ma i futuristi non erano poi così originali, magnificando il progresso, come credevano di essere: anzi, giungevano con due secoli di ritardo, o poco meno, rispetto agli illuministi del XVIII secolo. E la loro arroganza non è per niente originale, neanche quella: è sempre la vecchia arroganza scientista e galileiana, vecchia di 400 anni. Quando l’astronauta russo (pardon, sovietico) Jurij Gagarin disse di non aver visto Dio dall’oblò del suo veicolo spaziale, usava i toni e i modi di ragionare di messer Galilei, che sosteneva di poter comprendere una proposizione matematica con la stessa chiarezza di Dio.

La corsa alla modernità è una macchina infernale che divora i suoi figli. Chi era, o pensava di essere, un progressista 25 anni fa, ora, se non ha radicalmente cambiato le sue opinioni, rischia di passare per un terribile conservatore, per un irriducibile “nemico” dei suoi ex compagni. In tutti gli ambiti possibili e immaginabili, dall’architettura alla teologia, dall’urbanistica alla politica, “nuovo” è bello: il guaio è che “nuovo” non indica un concetto stabile, ma, per definizione, in perenne mutamento: per essere “nuova”, una cosa deve essere sempre più giovane; bastano pochi anni, talvolta pochi mesi, a renderla “vecchia” (il ritmo, lo stabiliscono gli sviluppi della tecnica) e, con ciò, obsoleta, impresentabile e inservibile. Da rottamare senza pietà. È una spirale autodistruttiva che esige sempre nuove vittime da immolare, sempre nuove piramidi di teschi (come si dice abbia fatto Tamerlano nel 1401, dopo aver preso e distrutto Baghdad) per costruire le magnifiche sorti e progressive. Ed è un’auto-distruttività annunciata e fatale, insita nella filosofia del Progresso, qualora non le vengano affiancati gli opportuni correttivi.

Tutti coloro i quali celebrano la filosofia del Progresso – ma sarebbe più esatto dire: la mitologia del Progresso -, e la brandiscono come un’ascia per tagliare i ponti dietro a sé, mano a mano che la società viene sospinta sempre avanti (con lo slogan minaccioso: Indietro non si torna!), è come se dichiarassero la guerra civile permanente. Vedono dei nemici in chiunque ostacoli, o anche solo ritardi minimamente, la loro trionfale avanzata. I vecchi, è inutile dirlo, sono il nemico numero uno, il Nemico per antonomasia: quanto sarebbe bello se non ci fossero, se sparissero a un tratto, se si auto-eliminassero! La loro stessa esistenza è un attentato contro il Progresso; le loro opinioni sono un furto nei confronti del futuro dei giovani, uno stupro del loro avvenire immacolato: lo si è visto con la Brexit, ma è storia vecchia (appunto), storia di sempre. Il solo vecchio buono è il vecchio morto (beninteso, dopo aver mantenuto, con la sua pensione, figli e nipoti; e a patto che abbia avuto la decenza di lasciar loro qualcosa per testamento, un gruzzoletto che rimanga, una volta detratte le spese per le esequie e per le tasse di successione.

Al Vae victis di un tempo (risalente ad una civiltà che teneva in gran conto le persone con i capelli bianchi) bisognerà sostituire il Vae senibus: ancora pochi anni, e il fatto di avere più di 70 anni sarà considerato una sconcezza, un’assoluta mancanza di buon gusto e discrezione. Insomma, una cosa da non fare. Allora ci sarà un boom nella vendita di prodotti e servizi capaci di assicurare almeno le apparenze della giovinezza; forse ci sarà anche un’impennata del tasso di corruzione nelle amministrazioni pubbliche, perché molti anziani offriranno consistenti bustarelle per ritoccare verso l’alto le rispettive date di nascita, togliendosi almeno qualche annetto e rinviando, così, l’ineluttabile redde rationem: con la società; cosa avevate immaginato, con Dio? Che ingenui: eppure è cosa nota che Dio perdona, il giovanilismo no. La signora Melandri, tanto giovane non è: ma l’importante è tifare per i giovani, non esserlo. Almeno fino a un certo punto. Almeno finché si hanno davanti ancora più di diciotto anni di vita (come dite? chi può sapere quanto ci resta da vivere? via, non fate i pignoli: basta guardare le statistiche demografiche).

Assisteremo a scene pietose, come quella descritta ne La morte a Venezia di Thomas Mann, quando il professor Aschenbach, osservando le chiassate d’un gruppo di giovanotti, si accorge, a un certo punto, con autentico raccapriccio, che il più sguaiato, il più indiavolato, il più sfacciato di tutti, è, in realtà, un vecchio: con i capelli tinti, con la pelle grinzosa: un vecchio travestito da bellimbusto, che si accompagna ai giovani e cerca di sorpassarli in esuberanza e incontrollabile vitalità; un vecchio disgustoso, che cerca di farsi perdonare la sua decrepitezza moltiplicando le buffonate e le sconcezze, come per ammansirli e strappar loro un po’ di benevolenza.

Chi lo sa, forse questo sarà il destino dei vecchi nel terzo millennio, almeno nelle società evolute, progredite e democratiche: quelle ove impera il giovanilismo come ideologia permanente. Questo, oppure nascondesi nella cuccia e trattenere il fiato, sperando che gli altri non si accorgano della loro presenza. Così, saranno in tanti a morire soli e dimenticati: se ne accorgeranno i condomini, solo quando, da sotto la porta, comincerà a filtrare l’odore di decomposizione. Cose che già accadono, peraltro: non stiamo inventando nulla. Solo che diverranno frequentissime; al punto che i proprietari di case e gli amministratori di condominio, per evitare simili inconvenienti (il fastidio e la spesa per far venire il fabbro e chiamare chi di dovere, senza contare la cattiva pubblicità) rifiuteranno di vendere o affittare appartamenti a chi abbia superato i 70 anni; e, a quelli che già li hanno, verrà notificato lo sfratto. Che se ne vadano a consumare gli ultimi anni da qualche altra parte: l’importante è che non abbiano il cattivo gusto di crepare qui, dove abita tanta gente per bene e ci sono pure dei bambini, povere creature innocenti.

Comunque, il fatto che si sia sviluppata una classe dirigente immemore e arrogante ha, come inevitabile risultato, la costruzione – o meglio, la decostruzione – di una società senz’anima, senza passato, senza saggezza, senza lungimiranza: perché la lungimiranza è il frutto dell’accordo fra ciò che è stato, ciò che è e ciò che potrebbe essere. Una società senza lungimiranza, che si affida al tecnicismo per risolvere i suoi problemi, che delega ai tecnici la gestione dell’esistente, e ancora ad altri tecnici la progettazione del futuro, è una società che cammina letteralmente sul vuoto, e che farà naufragio al primo colpo di vento. La tecnica è un mezzo e non un fine; il fine della società deve essere il bene comune e la sua realizzazione va pensata non in maniera tecnica, ma in maniera umana, cioè creativa. Essere creativi non significa gettare nel cestino della carta straccia tutte le idee che abbiano più di 10 anni, né abbattere tutte le case che ne abbiano più di 70; e nemmeno mettere i vecchi in un angolo e fare spazio ai giovani, solo perché sono giovani, indipendentemente dal merito. Il merito non ha età, e la società non può permettersi il lusso di trascurare i meritevoli; allo stesso tempo, però, il merito deve essere al servizio dei valori, e il valore che fonda e giustifica tutti gli altri è, ancora e sempre, la ricerca del bene comune.

Bisogna poi mettersi d’accordo anche su quest’ultimo concetto, che pare auto-evidente, e non lo è. Il bene comune è il bene di tutti: ma che cos’è il bene? Secondo noi, non è qualcosa che si possa misurare unicamente in base al Prodotto interno lordo, al numero di automobili e computer, alla durata media della vita, e così via; il bene è innanzitutto il bene dell’anima. Lo spirituale comprende il materiale, e non viceversa: dunque, è lo spirituale ad avere la priorità. Bisogna puntare in primo luogo al bene spirituale: senza disprezzare quello materiale, ma senza pensare che esso possa realizzarsi da se stesso, e che l’uomo non abbia bisogno di null’altro. Si può avere un discreto conto in banca, possedere due automobili e quattro computer a testa, e poter contare su una prospettiva di vita di 80 anni e più, ma essere privi della cosa essenziale: il benessere interiore. Si può disporre di molte cose e di molta tecnologia, ma essere schiavi delle passioni, prostrati dalla depressione, tentati dall’idea del suicidio. E questa non è retorica, ma pura e semplice verità.

Ora, la classe dirigente attuale sembra proprio ignorare questo aspetto del reale. Persegue la crescita del P.I.L., l’aumento del benessere materiale e l’allungamento della vita media, come se ciò fosse tutto. Nella sua ignoranza, non sa chi sia l’uomo: una creatura che ha sete di Assoluto, cioè di Dio...