E’ sufficiente il diritto penale di pace per affrontare il terrorismo internazionale? Nella “guerra”, in corso, contro il fondamentalismo islamico, può essere necessaria una sospensione dello stato di diritto? Un terrorista, “che sa” e non vuole parlare, può essere torturato? Si tratta di interrogativi non da poco. Che Angelo Panebianco, favorevole alla linea dura (ma non alle torture), si è posto sulle pagine del Corriere della Sera nel cuore di agosto, attirando più dissensi che consensi. Solo per fare qualche nome, tra i più critici, ricordiamo Scalfari, Cordero, Caselli, Robecchi, ma anche Magris e Filippo Andreatta.
Quel che ne viene fuori è una poco ricomponibile controversia tra realisti e moralisti della politica. Da un lato il realismo di Panebianco, che scorge nei terroristi non dei gangster (come invece ritengono i suoi critici) ma soldati di un esercito transnazionale. Di qui la necessità di replicare colpo su colpo, affidandosi alle forze armate e ai servizi segreti. Dall’altro lato, l’irrealismo morale dei grandi principi, che rischia di tradursi nell’eccesso di garantismo e nel primato della magistratura. Se, ci si passa la battuta: il brillante politologo liberale vuole combattere il terrorismo a colpi di cannone, i suoi critici a colpi di pandette.
Panebianco, insomma, ritiene che la democrazia occidentale, debba essere difesa, a ogni costo, anche a prezzo di ricorrere, allo stato di eccezione: alla sospensione per alcuni individui, particolarmente pericolosi, e in determinate circostanze (come una guerra appunto), dell’applicazione regole dello stato di diritto. Per i suo avversari, vale invece il contrario, la democrazia occidentale può essere difesa, solo rivendicando, le regole dello stato di diritto, proprio contro coloro, che come i terroristi, vogliono distruggerle, o usarle strumentalmente contro le istituzioni democratiche.
Ma a dire il vero, questo dibattito ha pure evidenziato un convitato di pietra: Carl Schmitt. Il grande giurista tedesco riteneva infatti che “sovrano è colui che decide [lo stato di] eccezione”. Ma, chi deve decidere lo stato di eccezione nell’attuale guerra al terrorismo? La politica (nel senso del governo in carica) o la magistratura? Schmitt e Panebianco risponderebbero, di getto, la politica. Scalfari invece, la magistratura. E qui lasciamo libero il lettore di riflettere e rispondere, secondo sensibilità…
Comunque sia, una buona guida in argomento è rappresentata dal libro di Michael Ignatieff, Il male minore. L’etica politica nell’era del terrorismo globale (Vita & Pensiero, Milano 2006, pp. 240, euro 18,00). Il suo autore, largamente tradotto e commentato in Italia, è direttore del Carr Center for Human Rights Policy alla Kennedy School of Government di Harvard. Il volume esce nella prestigiosa collana “Relazioni Internazionali e Scienza Politica”, dell’ASERI (presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano), diretta da Vittorio Emanuele Parsi.
Diciamo subito, che questo volume si colloca, rispetto alle polemiche italiane, a un livello filosofico-politico più elevato, e per questo è interessante leggerlo. Ignatieff introduce subito il concetto di “male minore”. Non si interroga, insomma, sul chi ( debba decidere) ma sul come e perché si debba decidere lo stato di eccezione. Iniziamo dal perché.
“Nella guerra contro il terrore, scrive l’autore, il punto essenziale non è se noi possiamo evitare atti malvagi in quanto tali, ma se siamo capaci di scegliere i mali minori evitando che diventino maggiori” (p. 45). E in questo senso, per Ignatieff, lo stato di eccezione rappresenta il male minore perché il terrorismo è il male maggiore, dal momento che minaccia il nostro sistema democratico di vita: “Il terrorismo non è solo un crimine contro la vita e la libertà delle sue vittime, ma anche contro la politica in sé, contro la pratica della deliberazione pubblica, del compromesso e della ricerca di strumenti non violenti e di soluzioni ragionevoli” (p. 167). Con una avvertenza: “La mia tesi è che dovremmo farlo ponendoci alcuni obiettivi di base - il principio di conservazione (mantenere libere le nostre istituzioni) e il principio di dignità (tutelare gli individui dai danni irreparabili) - per poi ragionare sulle conseguenze delle diverse strategie d’azione prevedendo, per quanto possibile i danni e giungendo a formulare un giudizio razionale su quale sia la linea di condotta capace di produrre i danni minori ai due principi di cui sopra” (45-46).
Quanto al come decidere lo stato di eccezione, Ignatieff propende per il “massimo della pubblicità”. Ogni decisione deve essere presa pubblicamente e nelle sedi politiche preposte: “Prima di procedere con le misure più estreme, sono state battute senza successo tutte le altre? Vi è poi, - aggiunge - l’importante questione dell’esame della pubblicità, legato al fatto che le politiche intraprese abbiano passato una revisione dibattimentale pubblica presso le assemblee legislative o a cura delle autorità giudiziarie (…). Infine un ‘conveniente rispetto per le opinioni dell’umanità’, insieme alla necessità più pragmatica di assicurarsi l’appoggio di altre nazioni nella guerra contro il terrorismo globale, richiede che tutti gli stati che combattono il terrorismo passino gli “esami degli obblighi internazionali (…), rispettando gli impegni assunti e tributando la necessaria attenzione ai propri alleati e amici. Se tutto questo, conclude Ignatieff, si concretizza in una serie di limiti che legano le mani ai nostri governi, così sia. E’ nella natura stessa della democrazia, che essa debba combattere con un braccio legato dietro la schiena. Ma è altrettanto nella natura della democrazia che vinca contro i propri nemici precisamente per questa ragione” (pp. 52-53).
Il che include, ovviamente, il rifiuto di qualsiasi forma di pressione psicologia e fisica nei riguardi di eventuali “terroristi” catturati (le famigerate torture…). In quanto titolari, anche questi ultimi, di “indivisibili” diritti umani. Il cui godimento deve accomunare, nel rispetto dell’habeas corpus, tutti i combattenti in campo.
Su quest’ultimo punto, proprio a cause delle tragedie provocate dal mancato rispetti dei diritti umani nelle due terribili guerre novecentesche (per non parlare di quelle venute dopo…), non si può non essere d’accordo.
Tuttavia il discorso di Ignatieff non convince fino in fondo. Per due ragioni.
In primo luogo, il concetto di “male minore”, non è concretamente misurabile. Certo, la distruzione di un piccolo stato (magari “canaglia”) rispetto alla scomparsa dell’intero pianeta, può essere giudicata un male minore. Ma come valutare i casi intermedi? Tra due potenze regionali in conflitto, il “male minore” può essere rappresentato dalla distruzione di quella più piccola (magari civili inclusi)? Soprattutto se a deciderlo è qualche superpotenza che si schiera, per ragioni non sempre limpide, a fianco di uno dei due paesi contendenti?
In secondo luogo, il problema delle pubblicità delle procedure, viene trattato da Ignatieff, in termini troppo astratti. Di solito le guerre moderne, come la sociologia insegna, producono un colossale accentramento di potere politico ed economico nelle mani dello stato. Di qui la difficoltà di garantire quella pubblicità delle decisioni, sui cui Ignatieff, fa filosoficamente, grande affidamento. Si pensi solo, e per citare un caso minore, alla figura del giornalista “embedded”, molto criticata per il suo conformismo politico durante l’ultimo conflitto in Iraq.
Come si può notare, non sono questioni di secondaria importanza. Probabilmente irrisolvibili, o comunque che vanno affrontate nella concretezza degli eventi reali, caso per caso.
Ma, oggi, c’è in Europa, la volontà politica di affrontarli?
Quel che ne viene fuori è una poco ricomponibile controversia tra realisti e moralisti della politica. Da un lato il realismo di Panebianco, che scorge nei terroristi non dei gangster (come invece ritengono i suoi critici) ma soldati di un esercito transnazionale. Di qui la necessità di replicare colpo su colpo, affidandosi alle forze armate e ai servizi segreti. Dall’altro lato, l’irrealismo morale dei grandi principi, che rischia di tradursi nell’eccesso di garantismo e nel primato della magistratura. Se, ci si passa la battuta: il brillante politologo liberale vuole combattere il terrorismo a colpi di cannone, i suoi critici a colpi di pandette.
Panebianco, insomma, ritiene che la democrazia occidentale, debba essere difesa, a ogni costo, anche a prezzo di ricorrere, allo stato di eccezione: alla sospensione per alcuni individui, particolarmente pericolosi, e in determinate circostanze (come una guerra appunto), dell’applicazione regole dello stato di diritto. Per i suo avversari, vale invece il contrario, la democrazia occidentale può essere difesa, solo rivendicando, le regole dello stato di diritto, proprio contro coloro, che come i terroristi, vogliono distruggerle, o usarle strumentalmente contro le istituzioni democratiche.
Ma a dire il vero, questo dibattito ha pure evidenziato un convitato di pietra: Carl Schmitt. Il grande giurista tedesco riteneva infatti che “sovrano è colui che decide [lo stato di] eccezione”. Ma, chi deve decidere lo stato di eccezione nell’attuale guerra al terrorismo? La politica (nel senso del governo in carica) o la magistratura? Schmitt e Panebianco risponderebbero, di getto, la politica. Scalfari invece, la magistratura. E qui lasciamo libero il lettore di riflettere e rispondere, secondo sensibilità…
Comunque sia, una buona guida in argomento è rappresentata dal libro di Michael Ignatieff, Il male minore. L’etica politica nell’era del terrorismo globale (Vita & Pensiero, Milano 2006, pp. 240, euro 18,00). Il suo autore, largamente tradotto e commentato in Italia, è direttore del Carr Center for Human Rights Policy alla Kennedy School of Government di Harvard. Il volume esce nella prestigiosa collana “Relazioni Internazionali e Scienza Politica”, dell’ASERI (presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano), diretta da Vittorio Emanuele Parsi.
Diciamo subito, che questo volume si colloca, rispetto alle polemiche italiane, a un livello filosofico-politico più elevato, e per questo è interessante leggerlo. Ignatieff introduce subito il concetto di “male minore”. Non si interroga, insomma, sul chi ( debba decidere) ma sul come e perché si debba decidere lo stato di eccezione. Iniziamo dal perché.
“Nella guerra contro il terrore, scrive l’autore, il punto essenziale non è se noi possiamo evitare atti malvagi in quanto tali, ma se siamo capaci di scegliere i mali minori evitando che diventino maggiori” (p. 45). E in questo senso, per Ignatieff, lo stato di eccezione rappresenta il male minore perché il terrorismo è il male maggiore, dal momento che minaccia il nostro sistema democratico di vita: “Il terrorismo non è solo un crimine contro la vita e la libertà delle sue vittime, ma anche contro la politica in sé, contro la pratica della deliberazione pubblica, del compromesso e della ricerca di strumenti non violenti e di soluzioni ragionevoli” (p. 167). Con una avvertenza: “La mia tesi è che dovremmo farlo ponendoci alcuni obiettivi di base - il principio di conservazione (mantenere libere le nostre istituzioni) e il principio di dignità (tutelare gli individui dai danni irreparabili) - per poi ragionare sulle conseguenze delle diverse strategie d’azione prevedendo, per quanto possibile i danni e giungendo a formulare un giudizio razionale su quale sia la linea di condotta capace di produrre i danni minori ai due principi di cui sopra” (45-46).
Quanto al come decidere lo stato di eccezione, Ignatieff propende per il “massimo della pubblicità”. Ogni decisione deve essere presa pubblicamente e nelle sedi politiche preposte: “Prima di procedere con le misure più estreme, sono state battute senza successo tutte le altre? Vi è poi, - aggiunge - l’importante questione dell’esame della pubblicità, legato al fatto che le politiche intraprese abbiano passato una revisione dibattimentale pubblica presso le assemblee legislative o a cura delle autorità giudiziarie (…). Infine un ‘conveniente rispetto per le opinioni dell’umanità’, insieme alla necessità più pragmatica di assicurarsi l’appoggio di altre nazioni nella guerra contro il terrorismo globale, richiede che tutti gli stati che combattono il terrorismo passino gli “esami degli obblighi internazionali (…), rispettando gli impegni assunti e tributando la necessaria attenzione ai propri alleati e amici. Se tutto questo, conclude Ignatieff, si concretizza in una serie di limiti che legano le mani ai nostri governi, così sia. E’ nella natura stessa della democrazia, che essa debba combattere con un braccio legato dietro la schiena. Ma è altrettanto nella natura della democrazia che vinca contro i propri nemici precisamente per questa ragione” (pp. 52-53).
Il che include, ovviamente, il rifiuto di qualsiasi forma di pressione psicologia e fisica nei riguardi di eventuali “terroristi” catturati (le famigerate torture…). In quanto titolari, anche questi ultimi, di “indivisibili” diritti umani. Il cui godimento deve accomunare, nel rispetto dell’habeas corpus, tutti i combattenti in campo.
Su quest’ultimo punto, proprio a cause delle tragedie provocate dal mancato rispetti dei diritti umani nelle due terribili guerre novecentesche (per non parlare di quelle venute dopo…), non si può non essere d’accordo.
Tuttavia il discorso di Ignatieff non convince fino in fondo. Per due ragioni.
In primo luogo, il concetto di “male minore”, non è concretamente misurabile. Certo, la distruzione di un piccolo stato (magari “canaglia”) rispetto alla scomparsa dell’intero pianeta, può essere giudicata un male minore. Ma come valutare i casi intermedi? Tra due potenze regionali in conflitto, il “male minore” può essere rappresentato dalla distruzione di quella più piccola (magari civili inclusi)? Soprattutto se a deciderlo è qualche superpotenza che si schiera, per ragioni non sempre limpide, a fianco di uno dei due paesi contendenti?
In secondo luogo, il problema delle pubblicità delle procedure, viene trattato da Ignatieff, in termini troppo astratti. Di solito le guerre moderne, come la sociologia insegna, producono un colossale accentramento di potere politico ed economico nelle mani dello stato. Di qui la difficoltà di garantire quella pubblicità delle decisioni, sui cui Ignatieff, fa filosoficamente, grande affidamento. Si pensi solo, e per citare un caso minore, alla figura del giornalista “embedded”, molto criticata per il suo conformismo politico durante l’ultimo conflitto in Iraq.
Come si può notare, non sono questioni di secondaria importanza. Probabilmente irrisolvibili, o comunque che vanno affrontate nella concretezza degli eventi reali, caso per caso.
Ma, oggi, c’è in Europa, la volontà politica di affrontarli?