Capitalismo Zelig: il consumo collaborativo o sharing economy
di Roberto Pecchioli - 27/07/2016
Fonte: Ereticamente
“Ho dodici anni. Vado alla sinagoga. Chiedo al rabbino qual è il significato della vita. Lui mi dice qual è il significato della vita. Ma me lo dice in ebraico. Io non lo capisco, l’ebraico. Lui chiede 600 dollari per darmi lezioni di ebraico”.
Questa è forse il passaggio più significativo del film di Woody Allen Zelig. Il protagonista, Leonard Zelig, che in lingua yiddish significa benedetto, soffre di un’ignota malattia che induce profonde trasformazioni psicosomatiche dinanzi ai suoi interlocutori. In pratica, Leonard si trasforma nella persona che ha di fronte, assumendone la personalità e l’aspetto. L’autentico Zelig del nostro tempo è il liberal capitalismo, e con il raffinato umorismo intriso di intelligenza degli ebrei colti, Woody Allen ne ha forse centrato l’essenza in quella frase messa in bocca al suo personaggio, sin da bambino consapevole che il senso della vita, se ne esiste uno, ha una tariffa precisa.
Non vi è fenomeno della contemporaneità che non confermi tale convinzione. Il successo più clamoroso fu l’aver ricondotto le convulsioni del 1968 ad una trasformazione interna a se stesso: un nuovo capitalismo libertario, antiborghese e globalista. Lo stesso crollo del comunismo ha tra le cause il desiderio di consumo e di libertà negativa (libertà “da”) delle masse ex socialiste dell’Europa Orientale, cui il capitalismo ha offerto il proprio modello di centro commerciale onnipervasivo, caos organizzato, disordine finalizzato alla rapida realizzazione dei desideri e dei capricci. George Orwell ne intuì il carattere nel personaggio di Mary in 1984, l’amante del protagonista che odia il “Partito” perché vuole vivere i propri istinti e “consumare”, felice quando trova trucchi e rossetti, vero caffè e vero zucchero, tutte cose che desidera condividere con Winston.
Negli ultimi anni, una ulteriore forma delle straordinarie capacità adattive del sistema è quello della cosiddetta “sharing economy”, ossia del consumo collaborativo. Il termine definisce un modello economico fondato su pratiche di scambio e condivisione di beni, servizi o conoscenze. Nulla di più lontano, in apparenza, dal modello societale dello scambio “economico” di mercato. Con un colpo di reni dinanzi al quale si resta ammirati pur nella radicale opposizione, il capitalismo non solo si è appropriato di un meccanismo che avrebbe dovuto essere il contrario del mercato, ma lo sta rendendo una lucrosa espressione della “new economy”. In realtà, non vi è alcunché di nuovo: da che mondo è mondo l’uomo baratta o condivide ciò che possiede o sa fare.
Una massaia ha dimenticato di comprare le uova per una torta: le chiede alla vicina, cui offre una o più fette di quella torta. Io conosco le lingue, e posso tradurre un libro o una conversazione a beneficio di qualcuno che dispone di un appartamento in montagna in cui trascorrerò le ferie. La disponibilità di un autoveicolo mi permette di aiutare un vicino non motorizzato a fare la spesa al supermercato preferito. Voglio disfarmi di vecchi dischi di vinile: un collezionista sarà felice di ritirarli, ed in cambio, ad esempio, potrà trascorrere qualche ora con una parente che non posso lasciare sola (banca del tempo). Sono solo alcune delle possibilità, infinite davvero, di un’economia collaborativa, non legata esclusivamente al denaro misura di tutte le cose: baratto, prestito senza interesse, donazione, scambio, noleggio, autoproduzione, commercio “vernacolare”, nel senso di condotto fuori dalla logica del profitto economico monetario.
Si tratta della concretizzazione delle idee di pensatori come Ivan Illich o Castoriadis, l’idea di convivialità, di rapporti estranei alla ragione economica, fondati sulla prossimità e sul senso di appartenenza comunitaria. Nel consumo collaborativo si può altresì apprezzare la distinzione proposta da intellettuali come Maurizio Pallante o lo stesso Serge Latouche tra beni e merci, gli uni essendo ciò che è utile alla nostra vita, le altre solo “cose” fungibili. Potremmo anche ricorrere all’idea di beni comuni, o rilevare l’importanza del riutilizzo e del riciclo, dunque di un sistema a bassa entropia, secondo le acquisizioni della bioeconomia da Georgescu Roegen in poi, o addirittura declinare in chiave economica/ecologica il concetto di strutture dissipative di Ilya Prigogine (sistemi termodinamici aperti tendenti a diminuire la propria entropia).
Ma, fuori dalle complicazioni intellettualistiche o teoriche, un’economia collaborativa sembra, ed è, una buona soluzione per attutire l’impatto devastante della mercificazione di stampo liberista e capitalista e riportare l’uomo, la persona, la sua rete di rapporti, capacità, saperi, disponibilità al centro della vita pubblica. Questo nelle premesse e nelle aspettative di chi ne ha disegnato i contorni. Quanto ai fatti, le cose stanno ben diversamente, e rimandano al concetto di eterogenesi dei fini descritto da Giovanni Battista Vico, cioè lo sviluppo di qualcosa in una direzione diversa, opposta a quella per cui era nato.
Il capitalismo sa volgere tutto in tornaconto, denaro, merce: reifica, ovvero fa diventare tutto “cosa”, attribuendogli un prezzo in denaro, spingendo verso il basso persino i più nobili ideali, sovrastrutture al servizio dell’unica struttura che riconosce, la ragione strumentale ed economica. Siamo ben oltre il feticismo delle merci; Marx aveva la vista lunga, ma era pur sempre un uomo dell’Ottocento. Voltaire inventò il personaggio di Pangloss, il precettore di Candido, il cui compito era dimostrare che viviamo nel migliore dei mondi possibili; da almeno un quarto di secolo, siamo oltre. Il mondo del capitalismo totale è “l’unico”, il definitivo, e sa trarre a sé anche ciò che sembra contrastarne la marcia trionfale.
Il caso di cui parliamo è paradigmatico. Intanto, abbiamo la nostra definizione in anglo-tecno lingua, sharing economy, ed è il primo passo per abbindolare i gonzi. Il secondo è ancora migliore: sharing economy, secondo il mainstream economico liberale, è “un modo nuovo di scambiare beni e servizi”. Come è evidente, lo scambio è antico quanto l’uomo, e il termine collaborativo, partecipativo che è il significato di “sharing” è la realtà concreta di tutte le comunità umane di ogni tempo. Nuovo è l’apparato informatico che lo sostiene. Si tratta di organizzare una “piattaforma”, cioè mettere in piedi software in cui inserire e sviluppare “applicazioni” che consentono di mettere a contatto la domanda e l’offerta di qualcosa, di qualunque cosa, e gestirne da remoto il funzionamento.
Prima stazione della Via Crucis: costituire una piattaforma sufficientemente articolata non è da tutti, ovviamente, ma soprattutto richiede investimenti e competenze. Si può definire esternalità di rete, ma la condivisione è iniziale e teorica: immaginiamo di voler organizzare un servizio di condivisione di brani musicali, come il famosissimo Spotyfy. Difficilmente potremo superare lo sbarramento del famoso gigante del servizio di “streaming” musicale, che lavora su milioni di brani offerti. Ecco che ritorna dalla finestra il monopolio che l’economia della condivisione intendeva far uscire dalla porta; i gestori di piattaforma non hanno certo interesse a “condividere”, ma a tessere la ragnatela del monopolio, o dell’oligopolio anche nel nuovo ambito.
L’idea forza della sharing economy è quella di abbattere l’intermediazione, ponendo a contatto diretto produttori, consumatori e scambiatori di beni o servizi. Basta una comune connessione Internet, ed il gioco è fatto. Il punto è che chi gestisce la piattaforma è lui stesso un intermediario, e pretende per sé una percentuale. Il sistema Uber, che in Italia ed altrove ha scatenato la giusta reazione dei tassisti, ad esempio, trattiene per sé il 20 per cento di ogni transazione. Doppio effetto negativo: la diminuzione dei costi avvantaggia solo apparentemente il consumatore, poiché, in prospettiva macroeconomica si genera una concorrenza al ribasso che rende chi offre lavoro sempre più povero, e si concentrano in pochissime mani quegli stessi costi di intermediazione di cui si pretende l’abbattimento.
Nel caso di Uber, inoltre, la concorrenza nuoce allo stesso consumatore, giacché si disperdono le garanzie di un servizio su cui vigila il potere pubblico, a cominciare dal sistema assicurativo e dalla qualità generale. Chi offre la propria automobile, non di rado, è un disoccupato o un sottooccupato che si accontenta di integrare un magro reddito, alimentando la guerra tra poveri su cui prospera il sistema capitalistico. Quanto a Spotyfy, ha comunicato che venderà informazioni degli e sugli utenti agli inserzionisti. Il sistema di controllo informatico panottico guadagnerà una volta di più su di noi, utilizzando informazioni fornite spontaneamente. Tombola, anzi Bingo, per gli amerikani di casa nostra!
Mentre vendono i fatti nostri agli inserzionisti, definizione assai generica, dietro la quale potrebbero celarsi forme di delazione politica o centrali di ricatto, i promotori delle piattaforme scaricano rischi e costi sui fornitori dei servizi. Pensiamo chi offre case in affitto, come Airbnb, o la più vecchia Homelink, che consente scambi di casa, specie per vacanze e brevi periodi. I contenziosi, le conflittualità, gli inevitabili contrasti tra le parti riguardano chi si è affidato al gestore. La percentuale della mediazione o del servizio tecnologico reso assomiglia sinistramente al pizzo mafioso, o ad una forma nuova di signoraggio. Ghino di Tacco, nella Radicofani medioevale, rispondeva alla medesima logica, pretendendo una somma, o passando a fil di spada chi transitava dalle sue parti, lungo la Via Cassia, sull’alto colle a dominio delle terre senesi in vista della Tuscia.
Quanto all’aspetto fiscale della faccenda, è chiaro il carattere di evasione tributaria di molte delle transazioni che passano attraverso le piattaforme. Ad essere precisi, si tratta soprattutto di un ambito in cui il potere pubblico è in ritardo, e nelle fenditure offerte da normative che non tengono il passo del mondo che cambia pelle attraverso l’impianto della tecnologia informatica, i profitti sono immensi, e non vanno certo agli inserzionisti. Pensiamo ad esempio a Vayable, una specie di repertorio di guide turistiche di varia natura, o a Friend of Friend Travel, che propone “amici” in ogni angolo del globo, che potranno offrire ospitalità, organizzare pranzi, custodire bagagli o altro.
Tutto bellissimo, basato sulla fiducia, ispirata dal “marchio”- piattaforma, ma non privo di pericoli e di autentiche illegalità. Ci sono piattaforme per preventivi relativi a lavori o progetti, competenze personali: Voulez vous diner offre cuochi e gourmet, al prezzo di dieci euro a commensale, Waze è un’applicazione GPS attraverso cui si scambiano informazioni su strade e traffico. Di recente, è stato acquistato da Google, e questo già dice tutto sulla falsa bandiera della condivisione.
Molto profittevole sembra il futuro del “carpooling” e del “carsharing”, che permetteranno di noleggiare automobili o moto, abbattendo i costi di assicurazione, meccanica e le tasse automobilistiche. Si ha certezza che le case automobilistiche stanno riflettendo se entrare con tutta la loro forza in questo mercato, che costituirebbe una rivoluzione enorme, con ricadute sull’intera filiera economica legata al mondo dell’ auto. Capiamo quindi che l’economia collaborativa, della condivisione o comunque la si chiami ha una maschera virginale ed accattivante ed un volto sinistro di rivoluzione non certo a favore dei consumatori, ma anche di artigiani, piccoli e medi imprenditori, e, innanzitutto, si pone l’obiettivo di scardinare qualsiasi superstite regola tributaria o sociale.
Navigando in rete, un sito nella nostra lingua enfatizza i vantaggi della sharing economy, descrivendola come un eldorado del consumatore, un provvidenziale meccanismo che travolge regole rigide poiché “ogni irreggimentazione è da scardinare”. Liberismo tossico in pillole ad uso degli sciocchi, sempre disposti ad abboccare all’amo dei grandi pescatori globali, che possiedono, controllano, orientano le reti e, ahimè, sempre più, le menti. Una conseguenza tra le tante è lo sviluppo di un mercato in cui tutti comunicano con tutti, ma attraverso un mediatore occhiuto, aggressivo ed invisibile, il Mercato Zelig nella forma reticolare, sottratto ai radar, sempre meno vigili delle istituzioni elettive, cui spetterebbe assicurare il bene comune.
Gli osservatori più entusiasti parlano di economia 4.0, sottolineando che le reti digitali organizzate in piattaforme diventeranno la forma prevalente dei mercati del futuro. E’ proprio così, e per questo vanno individuati i rischi che corrono utenti e consumatori in un quadro di vuoto legislativo e di apparente risparmio per la disintermediazione che, in realtà, concentra il profitto su un unico soggetto, il gestore di piattaforme, figura che tenderà ad essere un semplice terminale delle grande entità multinazionali, a loro volta emanazioni del potere finanziario. Questo per quanto riguarda pericoli e criticità del nuovo paradigma economico che cresce.
Dall’altro lato, tuttavia, resta il grande elemento positivo che dobbiamo riconoscere ed utilizzare. ll consumo collaborativo ha diversi punti importanti: stravolge infatti il consumismo classico e restituisce valore alla condivisione comunitaria, intacca il principio secondo cui il nuovo – nelle idee, nelle merci, nei comportamenti – è sempre meglio del vecchio e respinge la convinzione che l’unico mezzo di scambio sia il denaro, misura di tutte le cose e desiderio esso stesso.
Attraverso forme varie di convivialità comunitaria, io posso cedere ciò che non mi serve o non mi interessa più, rimandando il suo destino di rifiuto ; sono in grado di annodare rapporti personali nuovi, di tipo non esclusivamente strumentale; riscopro il piacere di dare, offrire, perfino donare sapendo che dall’altra parte si svilupperà il medesimo senso di reciprocità; scopro forme “vernacolari “nuove di scambio, giacché qualche ora del mio tempo, un servizio alla persona altrui, un baratto nel quale non si misura dare e avere con il bilancio dell’orafo mi proiettano in una dimensione nuova, nella quale un giusto tornaconto non è l’unico elemento, spesso neppure il più importante. Senza scomodare antichi comportamenti scoperti dagli antropologi culturali come il “poltlach” (dono, controdono, obbligo morale di accettazione e restituzione), si può uscire dall’irrespirabile dimensione del calcolo, magari apprezzando sino in fondo l’aforisma di Oscar Wilde secondo cui dove tutto ha un prezzo, niente ha valore.
E’ forse il recupero dell’idea di “valore” la cifra essenziale della “sharing economy”, a patto, naturalmente, di sganciarla dalla strumentalità individuale. Nell’economia collaborativa, si pone l’accento sulla categoria di “peer-to-peer”. In informatica, si tratta di una rete locale in cui ognuno dei computer collegati ha al pari di tutti gli altri accesso alle risorse comuni, senza che vi sia un’unità di controllo dedicata come server, o di un software che permette di scambiarsi file fra utenti collegati a Internet. Il significato iniziale è da pari a pari. Non c’è dubbio che le grandi piattaforme siano la negazione di ciò che affermano: non vi può essere parità tra chi intende realizzare grandi profitti dal proprio ruolo centrale ed è in grado di controllare accessi, utenti, dettare regole, accettare od escludere.
Tuttavia, in una dimensione comunitaria, il recupero di questa orizzontalità ha un significato alto, che può reinventare, o almeno superare il consumismo compulsivo ed insensato che ci è imposto, ripristinando spazi di riflessione, giudizio, discussione intorno a ciò che dà senso alla vita, lontani dal tariffario del rabbino di Leonard Zelig. Si pone preliminarmente una questione basica: la nostra è la civiltà delle reti, all’interno della quale la prima decisiva distinzione è tra chi può accedere e chi è escluso da questa possibilità. Dunque, tra mille finti diritti futili o negativi, sorge un diritto nuovo, ma di grande rilevo, accedere alle reti non come atto di consumo o come misera autocertificazione di essere al mondo, ma come modalità privilegiata per intrattenere rapporti che escano dal virtuale, dal falso, dallo strumentale.
Ecco perché vanno incoraggiata la nascita di molte piattaforme, anche piccole e locali, che creino circuiti di conoscenza diretta, stili di vita collaborativi, insieme con la ridistribuzione di cose, servizi e risorse. Un esempio è Swaptree (albero di scambio), un sistema che non è nato per beneficienza, ma per guadagno, il quale consente di barattare senza uso di denaro beni, servizi, conoscenze, tempo. Oltre ed al di là della rete, è esigenza primaria diffondere fiducia nella propria comunità, ridefinire i concetti di prossimità, amicizia, vicinato. Per realizzare un obiettivo del genere, anche le reti informatiche possono essere utili, a patto di considerarle come un mezzo, uno strumento operativo, utilizzandole a supporto di un umanesimo nuovo, non autistico o chiuso, o peggio surrogato dei rapporti umani diretti.
Infine, quello è l’obiettivo iniziale di una visione della vita collaborativa, in cui gli individui divengono persone e ricominciano a contare. Anche lo strumento informatico, non più “impianto” del potere, ma meccanismo per vivere in modo più completo ed umano, può essere qualcosa di cui si può dire, come nella sentenza di uno che il mondo lo ha cambiato sul serio, il figlio del falegname di Nazaret, che il sabato è stato fatto per l’uomo, e non l’uomo per il sabato. In fondo, per molti, l’accesso alla rete alla rete resta una sorta di gioco, ed il gioco è fondamento di ogni cultura dell’organizzazione sociale. Un modello positivo può essere l’ ”homo ludens” descritto da Johann Huizinga negli anni trenta del Novecento. Il gioco è superfluo, ma irrinunciabile; il bisogno di esso è urgente solo in quanto il desiderio lo rende tale. Non è imposto da una necessità fisica, e tanto meno da un dovere morale. Non è un compito. Il gioco vive di libertà, esso stesso è libertà, e sa innalzarsi a vette di bellezza e di santità che la serietà non raggiunge.
Forse, i padroni del mondo lo hanno capito meglio di chiunque altro, e stanno organizzando le nostre vite come giochi d’azzardo insensati e compulsivi, e dell’homo ludens hanno fatto un meccanico consumens, anche utilizzando concetti nobili quali l’economia di collaborazione e condivisione. Riconoscere il pericolo è la prima condizione per evitarlo, ma il liberal capitalismo, il grande Zelig, fa diventare ciascuno di noi imitatori desideranti. E’ un imbroglio, uno in più.