Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il segreto di Pulcinella del dibattito culturale politicamente corretto

Il segreto di Pulcinella del dibattito culturale politicamente corretto

di Francesco Lamendola - 05/08/2016

Il segreto di Pulcinella del dibattito culturale politicamente corretto

Fonte: Il Corriere delle regioni

 

 

 

 

C’è un segreto, che non è veramente tale, perché tutti lo conoscono, ma nessuno ne parla, e dunque è il classico segreto di Pulcinella: ed è un segreto che pesa come un macigno sul dibattito culturale, sia in Italia, sia in Europa e nel resto del mondo; ma proprio perché pesa troppo, il tabù ne viene ulteriormente rafforzato, e più esso incombe, meno che mai si trova qualcuno che abbia il coraggio di prendere, come si dice, il toro per le corna, e dire apertamente le cose come stanno, chiamandole con il loro vero nome: pane al pane e vino al vino.

Cominciamo con una constatazione di carattere generale, quasi ovvia, se si vuole, ma fondamentale per capire tutto il resto. Il dibattito culturale, sia nel nostro Paese, sia nel resto del mondo, o, almeno, nel resto del mondo che si autodefinisce “democratico”, non è affatto bilanciato ed equilibrato: è sbilanciatissimo e squilibratissimo. Non vi sono due schieramenti ideologici, due visioni del mondo (diciamo, le due principali, ma certo non le sole) che si fronteggiano, più o meno con forze pari, o, cosa più importante della semplice parità numerica, con pari dignità e diritto al riconoscimento reciproco. Da una parte c’è la cultura politically correct, erede dell’illuminismo, della Rivoluzione francese, dei diritti dell’uomo, della ragione, del laicismo, nonché banditrice della tolleranza (a senso unico), del democraticismo, dello scientismo, del femminismo, del multiculturalismo, del mondialismo, della tecnocrazia, dello gnosticismo massonico propagandato e finanziato dalla grande finanza: in una parola, i giovani, i belli, quelli che hanno diritto al futuro. Dall’altra parte ci sono i biechi nemici del progresso, i reazionari, i “tradizionalisti”, i cattolici (quelli veri, non quelli modernisti e semi-protestanti), i nemici della scienza e della tecnica, i difensori delle “piccole patrie”, i localisti, i campanilisti, i populisti, i razzisti, gli egoisti, i rimbambiti, quelli che non hanno capito niente del mondo d’oggi, quelli che non apprezzano le magnifiche sorti e progressive: insomma, i brutti e i vecchi mezzi scemi (o, se pure non sono vecchi in senso anagrafico, quelli che son tali in senso spirituale).

Il dibattito culturale, peraltro, non è squilibrato solamente perché i progressisti hanno dalla loro la forza intrinseca della loro idea centrale, cioè il progresso, che, presto o tardi, vince tutti gli ostacoli e travolge tutte le opposizioni, mentre i conservatori sono costituzionalmente votati alla sconfitta finale, dato che sanno solo aggrapparsi a ciò che sta finendo e sanno solo rimpiangere ciò che è destinato a scomparire. Se fosse solo questo, ci troveremmo pur sempre in un ambito, diciamo così, di “squilibrio fisiologico”: da che mondo è mondo, o, almeno, da che è sorta l’idea di progresso, le cose vanno così: da una parte i giovani, forti della simpatia che ispirano e della coscienza di rappresentare il domani; dall’altra i “rusteghi”, di goldoniana memoria, retrivi, antipatici, buffi, se non grotteschi, nella loro assurda pretesa di fermare o ritardare la marcia del progresso. Non si tratta, però, solo di questo: lo squilibrio è molto più profondo, il dibattito è molto più condizionato e le forze in campo sono molto più asimmetriche di quel che appaia. Questo accade perché, dal XVII e dal XVIII secolo in poi, si è affermata gradualmente, in Europa e nel mondo, una ideologia che, del progresso, ha fatto la sua quintessenza, e che permea integralmente tutta la sua visione del reale, la sua Weltaschauung, come direbbero i Tedeschi. pertanto, all’interno di un paradigma culturale progressista, chi è in linea col paradigma culturale stesso, automaticamente beneficia di tutte le opportunità, di tutti i sostegni, di tutte le agevolazioni possibili e immaginabili, le occasioni di carriera, i riconoscimenti accademici, le  occasioni professionali, la visibilità mediatica, eccetera. Chi non è in linea, fa la figura di Simplicio nel galileiano Dialogo sui due massimi sistemi: fa la figura, squalificata a priori - cioè prima ancora che dica qualsiasi cosa, fosse pure la cosa più giusta e ragionevole del mondo - del borioso e irragionevole difensore dell’aristotelismo, che si rifiuta di inchinarsi al nuovo astro nascente del metodo scientifico sperimentale, e resta legato ai suoi libri e al suo sapere di seconda scelta, perché puramente teorico e congetturale. Quel che vogliamo dire, è che l’intero sistema culturale nel quale ci muoviamo, e del quale siamo parte, che ci piaccia o no, spinge in una determinata direzione, che è quella indicata dall’idea illuminista del Progresso: per cui il dibattito culturale non si svolge in una ambiente “neutro”, ove si confrontano due (o più) concezioni, aventi pari dignità intrinseca, ma si ha solo l’apparenza, o, se si preferisce, la vuota e teatrale messa in scena di un dibattuto culturale, mentre l’esito è già scontato in partenza. Infatti, non si tratta di dimostrare che una parte è nel giusto, e l’altra nel torto; si tratta, senza entrare veramente nel merito dei problemi, di ridicolizzare, o calunniare, o deformare a bella posta, l’idea che si oppone alla “modernità”, in modo da poterla liquidare politicamente. Nient’altro.

Si osservi come vanno le cose, secondo copione, in un qualsiasi dibattito televisivo a proposito di un argomento caratterizzante la modernità e il progresso: che si tratti di immigrazione, o di diritti delle minoranze, o di bioetica, o di famiglia, o di sessualità, o di eutanasia, o di esportazione del modello democratico nel mondo. Non solo il dibattito è materialmente squilibrato, perché le tesi progressiste sono difese da un numero maggiore di ospiti del programma; ma anche il moderatore,o i moderatori, a un certo punto, non si fanno scrupolo di entrare a gamba tesa nel merito del dibattito, per dare man forte ai progressisti e per zittire o ridicolizzare i conservatori. Il pubblico, ampiamente selezionato e istruito, è tutto dalla parte dei progressisti (o, almeno, lo sono gli applausi registrati). Se non basta, a sottolineare quanto siano meschine le ragioni dei conservatori, e quanto encomiabili quelle dei progressisti, ci si mette, poi, anche il direttore di quel canale televisivo: ovviamente senza dibattito e senza possibilità di replica. E lo squilibrio, la pressione a favore di una parte contro l’altra, crescono con il crescere dell’importanza della questione trattata: quanto più l’argomento è sensibile rispetto alla politica delle lobby mondialiste, femministe, progressiste, tanto più ci si assicura in anticipo una superiorità schiacciante sull’avversario.

Ma c’è qualcosa di più, e di peggio; qualcosa di cui nessuno parla apertamente, ma che tutti conoscono benissimo, e di cui hanno anche una certa dose di paura: il ricatto giudiziario. Da un po’ di tempo, i progressisti possono contrare, per far passare le loro tesi, su un nuovo e decisivo alleato: il braccio secolare dello Stato. Una serie di leggi, approvate in parlamento, considerano materia di reato il fatto di esprimere opinioni non in linea col progressismo: volta per volta, potrebbe dunque trattarsi di “negazionismo”, o di “antisemitismo”, o di “sessismo” (cioè di maschilismo; mai visto il caso contrario, anche se nella vita reale c’è, eccome), “omofobia”, a seconda del tabù progressista contro il quale ci si vada a scontrare. E così i nipotini di Giordano Bruno e di Galilei, in nome della tolleranza e della libertà, dopo aver strepitato per tre secoli e mezzo contro il fatto che le autorità secolari prestassero il loro braccio alla repressione ideologica da parte della Chiesa cattolica, oggi non trovano nulla di strano nel fare appello al braccio secolare dello Stato per reprimere, anche mandandolo in galera, chi osi professare idee non politicamente corrette. 

Peraltro, prima di arrivare alla prigione, ci sono le multe e le spese processuali. Se si querela un giornalista fastidioso, uno scrittore molesto, un direttore di reti televisive troppo indipendente, lo si obbliga a fornirsi di un buon avvocato e a sostenere spese ingenti, che non tutti possono permettersi. Per un giornalista senza protezioni particolari, per una piccola rivista o per una televisione locale, la querela di tipo ideologico equivale a mandare in fallimento e a ridurre al silenzio gli interessati. La stessa cosa vale per una piccola scuola privata, nella quale, poniamo, un insegnante abbia osato “discriminare” uno studente omosessuale, semplicemente per aver sostenuto, nel corso di una pacata e serena discussione, che l’omosessualità, a suo modo di vedere, può essere anche trattata mediante una apposita terapia, nel caso che l’interessato ne soffra e voglia provare a liberarsi dalle proprie tendenze omofile. Una bella querela, una multa di qualche decina di migliaia di euro, e quella scuola sarà costretta a chiudere. Stessa cosa se il direttore o la direttrice di quella scuola si è permesso di non rinnovare il contratto di lavoro a un insegnante dichiaratamente omosessuale. Una bella querela, e i signori omofobi sono sistemati una volta per tutte. La giustizia trionfa, i cattivi sono costretti a pagare le spese e a meditare sulla loro cattiveria, e il mondo diventa un po’ migliore. Questi sono i veri termini della questione, oggi.

Esprimere liberamente la propria opinione, equivale ad esporsi al pericolo di una querela. E che si sia trattato di un insulto (sessista, antisemita, omofobo, eccetera), non lo decide il giudice: lo decide, sostanzialmente, il querelante. Cioè, il principio di legge che si sta affermando, in questo particolare ambito della giurisprudenza, è (udite, udite) che una espressione, una parola, acquistano una valenza offensiva e denigratoria, a seconda di come vengono recepite dalla parte offesa, ossia, dalla parte che si sente offesa. Non si tratta di provare che qualcuno, nel parlare, abbia voluto offendere qualcun altro; non c’è un criterio oggettivo per stabilire se una frase è insultante, oppure no: il criterio, d’ora in poi, sarà la particolare sensibilità e la percezione soggettiva di colui che decide di sporgere querela. Per cui, da ora in poi, se si discute con una persona appartenente a una di queste minoranze aggressive, bisognerà fare attenzione anche al tono di voce che si adopera, o al modo in cui la si guarda in viso. Il tono di voce potrebbe essere percepito come insultante, e lo sguardo come carico di spregio: e questo a suo insindacabile giudizio, e con l’avallo dei soliti giudici progressisti e di sinistra, tutti, dal primo all’ultimo, smaniosi di dare una lezione come si deve ai conservatori, ai maschilisti, ai razzisti, eccetera. Perché in Italia, e in Europa, e nel mondo democratico, comandano i magistrati, questa è la verità: e la magistratura è la punta di diamante del politically correct. Conosciamo personalmente magistrati che hanno schiaffato in galera, come fossero i peggiori delinquenti, dei sacerdoti ottantenni e delle suore miti e inoffensive, solo per una accusa – rivelatasi poi del tutto infondata – di circonvenzione d’incapace; laddove si concedono gli arresti domiciliari perfino ai sospettati di omicidio, se non vi è pericolo di fuga o d’inquinamento delle prove. Quei magistrati hanno voluto dare una lezione esemplare ai rappresentanti del “clericalismo”: e poco importa se l’anziano in questione era perfettamente lucido e consapevole, quando lasciava una parte dei suoi beni, per testamento, a quella certa congregazione religiosa, e se la macchina della denuncia è partita esclusivamente dall’invidia e dalla gelosia impotente dei parenti rimasti delusi nella loro fregola di ereditare tutti i beni del nonnino. Nessuno ha chiesto scusa a quei religiosi, o li ha risarciti, dopo sei o sette anni d’inutile procedimento giudiziario, né per l’umiliazione del carcere, né per le spese processuali sostenute.

E non basta ancora. Poniamo che qualcuno scriva un articolo che non piace, per i suoi contenuti, a una particolare minoranza, a un movimento o associazione. E poniamo che a corredo di quel tale articolo, la rivista o il sito internet abbiano posto una certa immagine, nella quale compare, magari come elemento secondario e casuale, un simbolo di quel movimento, di quella associazione: anche in quel caso può scattare il meccanismo della querela. La parte offesa ha il diritto di esigere la rimozione dell’immagine oppure di inoltrare, senz’altro, la sua brava querela. Anche se il collegamento fra i contenuti dell’articolo e l’immagine appare quanto mai vago e indiretto, o comunque non intenzionale, non importa: non ci saranno giustificazioni che tengano. E di gente che sta tutto il giorno a controllare la stampa, la televisione, i siti internet, per ravvisarvi materia da far querela contro qualcuno, ce n’è ormai un sacco. La soglia di “attenzione” nei confronti delle idee non politicamente corrette è diventata altissima. Andando avanti di questo passo, avremo raggiunto l’unanimismo sistematico: per la semplice ragione che più nessuno oserà dire quello che pensa, onde evitare di essere querelato e di doversi rovinare economicamente per difendere le proprie idee. Sarà un po’ come nelle terre di mafia, dove non si registrano molti reati ufficiali, perché nessuno fa mai denuncia alla polizia, neanche se gli bruciano la casa o lo riempiono di botte: tale è la paura di subire ulteriori rappresaglie dalla mafia. Sarà bello, per le lobby occulte che detengono il potere mondiale: si saranno assicurate il controllo totale dell’opinione pubblica, e non si sentirà neppure un alito di vento soffiare in direzione diversa dal politically correct. O forse no; forse non andrà così. Come tutti i totalitarismi, anche quello democratico e progressista avrà comunque bisogno di un nemico, di un mostro da combattere, di una quinta colonna da inquisire. Se non ci sarà più una opposizione, bisognerà inventarla. Forse ci saranno dei sedicenti opinionisti, dei falsi giornalisti, degl’intellettuali prezzolati che si presteranno a fingere un minimo di contraddittorio. Beninteso, verranno umiliati e spazzati via, con disonore; per essere rimpiazzati da altri utili idioti… e così via.