Karl Polanyi: l’economia non è destino, il mercato non è natura
di Roberto Pecchioli - 21/08/2016
Fonte: Ereticamente
“L’economia non è il nostro destino; non esiste un sistema di leggi economiche autonome, vale a dire: l’economia non costituisce un processo naturale, ma è sempre stata una creazione culturale scaturita dalla libera scelta degli uomini. Sicché, anche il futuro dell’economia, o di un determinato sistema economico, è rimesso alla libera volontà di uomini”.
Quello citato è un passaggio decisivo del “Capitalismo moderno” di Werner Sombart, uno dei grandi dimenticati della sociologia e dell’economia. Il concetto espresso da Sombart è lo stesso che attraversa vita e opera di un altro pensatore eterodosso assai poco amato dai circoli liberisti e liberali, Karl Polanyi (1886-1964), austro ungherese vissuto anche in Inghilterra e negli Stati Uniti, attivo per mezzo secolo, sino alla soglia degli anni sessanta. Il suo testo più important, La grande trasformazione, del 1944, ribaltò le più consolidate convinzioni degli economisti, uno dei cui postulati è che gli uomini siano esseri razionali che agiscono nel modo che promette loro il miglior vantaggio economico, sia che la scelta riguardi un automobile, l’elezione di un deputato o la scelta di una vacanza.
Polanyi ribaltò quell’idea, già contestata da un grande della precedente generazione, Vilfredo Pareto, con la teoria delle azioni logiche e non logiche, corrispondenti, nel lessico paretiano, a residui e derivazioni. Assai interessante è scoprire che nessuno dei tre pensatori menzionati fu un economista puro: sociologo e filosofo Sombart, addirittura ingegnere ferroviario, gigante della sociologia e poi successore di Leon Walras nella cattedra di economia nell’università di Losanna, Pareto, Karl Polanyi studioso a cavallo tra storia, antropologia, politica, sociologia ed economia. Oggi diremmo che inaugurarono l’indagine multidisciplinare, ma è forse più corretto affermare che il loro approccio scientifico fu di tipo organico, olistico, legato cioè ad una concezione dell’uomo lontana dalle semplificazioni settoriali, dalle ubbie e dai luoghi comuni degli economisti.
Il Nostro, in particolare, affermò che gli uomini sono esseri sociali, immersi in una sorta di “zuppa” fatta di cultura, usi, costumi, idee ricevute, storia. Sin troppo facile riconoscervi l’influsso della grande tradizione inaugurata da Aristotele e della sua definizione dell’uomo “animale politico”. Si era costruito una solida formazione sociologica e psicologica, frequentando intellettuali come Gyorgy Lukàcs e Karl Mannheim e gli fu estranea qualsiasi teoria, a cominciare dallo stesso marxismo, che riducesse l’uomo all’economia ed alla propensione allo scambio. La vita economica, per lui, è nutrita di tutto ciò che costituisce l’orizzonte pratico, esistenziale e spirituale degli uomini e delle civiltà nelle quali vivono.
Se per Vilfredo Pareto gli uomini compiono azioni logiche e non logiche, che rendono irriducibili alla sola dimensione economica le loro condotte, l’intera opera di Karl Polanyi è tesa a smontare una doppia pretesa liberale. La prima è quella, del tutto menzognera, del mercato autoregolato, l’altra, ancora più falsa ed insidiosa, è la tesi secondo cui l’economia di mercato non è che l’estensione naturale della pulsione allo scambio che anima l’uomo, un destino ineluttabile in cui ci saremmo felicemente rinchiusi. L’importanza della doppia battaglia dell’intellettuale ungherese scaturisce dal primo dei suoi bersagli polemici. Egli osserva infatti che forme di mercato sono sempre esistite, anche quando l’uomo era raccoglitore e cacciatore, ma solo a partire dal XIX secolo, con la rivoluzione industriale e la fondazione dell’ economia come sapere autonomo e dotato di statuto scientifico, si è teorizzata, o ideologizzata, l’idea di mercato autoregolato. Fu Adam Smith, l’ultimo degli scozzesi ed il primo degli economisti classici, ad affermare che esiste una forma di sistematizzazione degli attori economici in grado di produrre, come nel principio dei vasi comunicanti, l’equilibrio in grado di soddisfare tutti, organizzando la società attorno al libero scambio (la mano invisibile).
Polanyi fu tra i primi a studiare l’economia con lo sguardo dell’antropologo culturale, aiutato in ciò dal clamore suscitato dagli studi compiuti sul campo da Bronislaw Malinowski alle isole Trobriand, i cui abitanti praticano il “kula”, lo scambio a base di dono e controdono, nonché dalla grande lezione di Marcel Mauss sull’economia del dono e della reciprocità, i cui echi sono tuttora vivi specialmente nella cultura francese. In particolare, da Mauss trasse il concetto di reciprocità, ovvero la logica dell’azione non finalizzata al tornaconto economico, che diventerà poi elemento centrale della riflessione di altri studiosi estranei alle grandi correnti ideologiche marxiste e liberali, come Illich, Castoriadis e, in Italia, di economisti keynesiani come Federico Caffè, che molto insistette sulla dignità del lavoro.
Negli scambi caratterizzati dalla reciprocità assumono valore le persone, gli usi, le relazioni, i legami che si intrecciano, i rapporti che si intrattengono. Da quanto riferito, si comprende quanto scarsa sia stata l’accoglienza dell’opera polanyiana in un epoca dominata dallo scontro tra liberismo e comunismo e dall’ormai imminente sconfitta definitiva dei fascismi: la Grande Trasformazione uscì infatti nel 1944 e la sua recezione avvenne molto lentamente, centrata soprattutto sull’analisi storico-antropologica e solo di recente è stata oggetto di riscoperta delle tesi economiche.
Polanyi era personalmente un socialista umanitario, come allora si diceva, vicino in particolare al “gildismo” britannico, non marxista, antifascista al punto di essere stato autore, nel 1935, di un saggio, “L’essenza del fascismo”, in cui tratta i movimenti nazionalpopolari come semplici mosse (tale è il termine che utilizza) del capitalismo per conservare potere e presa sulle masse. Una interpretazione vecchia, ingenerosa, frutto del marxismo più ortodosso, largamente errata e superata dagli studiosi dei decenni successivi, a partire dall’israeliano Zeev Sternhell, da Nolte, dallo stesso Furet ed altri. Proprio dall’Essenza del fascismo, tuttavia, si ricavano, paradossalmente, spunti per iscrivere Polanyi tra gli studiosi che credono nella società organica, se non anche nel novero degli autori in cui si rintraccia un’ispirazione comunitarista. Valga al vero il passo seguente: “Come è concepibile una società che non sia una relazione di persone? Questa implica una società che non avrebbe l’individuo come sua unità. Ma in una società del genere, come può essere possibile la vita economica se né la cooperazione né lo scambio – entrambe relazioni personali tra individui – possono avere spazio in essa?” Al netto del linguaggio utilizzato, l’attacco appare sferrato ben più all’economia liberale (e con altrettanta ragione a quella pianificata comunista) che ai fascismi, che conservarono il mercato, ma lo sottomisero a regole , limiti e controlli, organizzandolo attorno all’interesse nazionale.
L’uomo, insomma, non è necessariamente oeconomicus per Polanyi e l’obiettivo dei suoi sforzi fu quello di costruire una antropologia economica. Dall’incontro con Lukàcs e con gli intellettuali ungheresi ricavò la ferma convinzione che al centro della storia ci siano gli uomini e non le leggi economiche, oltre all’opposizione allo storicismo tedesco, in particolare alla nota separazione tra scienza naturali e scienze dello spirito, o sociali, introdotta da Dilthey. Nella Grande Trasformazione questi temi diventano centrali, sin dall’analisi della nascita della società industriale in Inghilterra e della sua storia, vista come successione di crisi dovute all’innaturalità ed in definitiva all’impossibilità di una società retta unicamente dalle leggi del mercato e dal “laissez-faire”.
L’attualità di queste idee è assoluta, ed è ulteriormente attestata, oggi, dalla prevalenza della debordiana società-spettacolo e dalla pervasività della comunicazione pubblicitaria, in cui si invera il principio enunciato da Marshall Mac Luhan secondo cui “il mezzo è il messaggio”. Attraverso l’interazione tra pubblicità e spettacolo, i padroni del mercato spoliticizzano la società e la rendono un semplice luogo di scambio e, innanzitutto, di consumo. La grande intuizione di Polanyi, che rende il suo pensiero punto di riferimento per l’antagonismo antiliberale odierno, è che la società di mercato è un episodio, per quanto importante, della storia umana, uno solo dei modi in cui l’uomo può organizzare la propria vita civile. Lo stesso mercato autoregolato nasce insieme con la rivoluzione industriale: prima, esistevano luoghi e sistemi di scambio i cui prezzi non dipendevano dalla cosiddetta legge della domanda e dell’offerta, ma erano controllati a livello centrale, quindi tendenzialmente stabili.
La logica esclusivamente utilitaristica dell’agire umano viene respinta con fermezza anche attraverso un’argomentazione tipica dell’antropologia: l’uomo dipende, per la sua sopravvivenza, dalla natura e dai suoi simili, o conspecifici, come direbbero gli etologi alla Konrad Lorenz. Anzi, egli è l’essere debole, incompleto per eccellenza, quello meno dotato di un bagaglio di istinti e di capacità genetiche. Per citare un contemporaneo di Polanyi, Arnold Gehlen, fondatore dell’antropologia filosofica (L’uomo, la natura ed il suo posto nel mondo) l’uomo è l’essere “carente” per eccellenza, e solo le sue capacità intellettuali, poste al servizio della collaborazione con gli altri, lo “esonerano”, ovvero gli permettono di vivere in maniera organizzata e stratificata.
Un processo economico ha una vita definita solo nell’ambito di forme sociali concrete, per cui può inserirsi in svariate istituzioni (la parentela, la politica, la religione, lo Stato ecc.) non economiche, che assicurano la sussistenza e la rete di relazioni di cui è parte. In quest’ottica, le tre principali forme di organizzazione ed integrazione in cui si definiscono i processi economici sono la reciprocità, la redistribuzione e lo scambio, oltre all’economia domestica e contadina. Economia del dono, o meglio degli obblighi reciproci la prima, fortemente centralizzata la seconda, tipica del mondo precolombiano degli Incas, degli Egizi e di diverse civiltà mesopotamiche costituite da imperi burocratici, e, nella modernità, il comunismo storico novecentesco e per diversi aspetti i fascismi. In queste due modalità Polanyi rinviene l’esistenza di traffici senza mercato, mentre il terzo modello, quello dello scambio, è diventato prevalente ed ha scacciato ogni forma alternativa con la pretesa dell’autoregolazione.
Aristotele, il primo ad analizzare, nella sua monumentale opera, l’economia, anzi ad inventare la parola stessa – regola, norma della casa – dette un giudizio positivo sul concetto di scambio ed anche alla provvista di beni non prodotti in proprio, vietando tuttavia, con un giudizio inappellabile, la cosiddetta crematistica, ossia la ricchezza fine a se stessa, l’arricchimento come obiettivo, l’accumulo, ritenuti effetti degenerativi di condotte innaturali. Sulla base di questa mole di studi e conoscenze inserite in concreta integrazione con il mondo della vita, Polanyi individua il posto che l’economia occupa nelle varie società umane, asserendo che nelle comunità basate sul dono o sulla redistribuzione, essa è inserita (“embedded”) nel tessuto civile, mentre laddove prevale la logica dello scambio e del tornaconto, si scorpora da tutto il resto, istituendo, determinando la forma di ogni ambito relazionale.
Nella società liberalcapitalista, l’economia è dappertutto e, soprattutto, è il tutto, cui ogni altro principio è subordinato o abolito. Di qui la distruzione sistematica delle identità culturali, nazionali, linguistiche dei popoli, la lotta contro le idee e le credenze che non si lascino avvolgere dal mercato o che non possano essere oggetto di compravendita o riduzione ad un prezzo espresso in denaro. In molte culture, era assente anche un termine per designare l’organizzazione delle condizioni materiali dell’esistenza. Fino all’inizio dell’800, anche in Europa si parlava di economia politica. Lo stesso pensiero marxista non si discosta nell’essenziale dai predicati liberali, giacché accoglie il pregiudizio economicista del suo nemico storico, secondo cui il movente dei comportamenti umani è la soddisfazione dei bisogni materiali, ancorché denunci che l’asserito carattere di leggi naturali del mercato è soltanto il prodotto di precise circostanze storiche, i rapporti di produzione.
Nelle due principali ideologie moderne, le uniche per Polanyi, che in questo sbaglia clamorosamente, giacché attribuisce ai fascismi la sola funzione di guardia nera del capitalismo e trascura il contributo del pensiero sociale cattolico, si decreta una supremazia assoluta, o addirittura un esclusiva valenza, delle azioni economiche. Tuttavia, ed è la chiave interpretativa del suo pensiero, questa è l’eccezione, nel divenire storico, e non certo la regola. E’ stato possibile, presso altre civiltà, e per millenni anche in quella di cui la nostra postmodernità è erede, produrre scambiare, distribuire beni, merci e servizi mantenendo la dimensione comunitaria delle società coinvolte e le loro ragioni simboliche.
In tale ottica, egli revoca opportunamente in dubbio un altro dogma liberale, quello secondo cui la libertà e la giustizia vengono deterministicamente, quasi eudemonisticamente collegate all’economia di mercato, sintesi e perfezionamento insuperabile di tutte le forme di organizzazione sociale, dunque autorizzata a sradicare, svalutare, screditare, distruggere anche con la violenza, una violenza “buona” ed umanitaria” ogni altra idea della vita.
Interessante, al riguardo, è un passo della Grande Trasformazione, in cui si segnala che nella gran parte delle società è stata dimostrata dagli etnografi, “l’assenza del motivo del guadagno, l’assenza del principio del lavoro per una remunerazione, l’assenza del principio del minimo sforzo, e, in particolare, l’assenza di qualunque istituzione separata e distinta basata su motivi economici.” Ed ancora, verbatim, “l’economia dell’uomo è immersa nei suoi rapporti sociali. L’uomo non agisce in modo da salvaguardare il suo interesse individuale nel possesso di beni materiali, agisce in modo da salvaguardare la sua posizione sociale, le sue pretese sociali, i suoi vantaggi sociali”. Su questo punto, sorprende l’affinità con il sociologo americano di origine norvegese Thorsten Veblen e la sua opera “Teoria della classe agiata”, in cui spiega e teorizza quelli che chiama i “consumi vistosi” dei più ricchi, spesso non giustificati da alcuna logica, convenienza o utilità, ma tesi a confermare il ruolo egemone del gruppo sociale di appartenenza.
Indirettamente, Polanyi sembra contestare anche uno dei capisaldi dell’utilitarismo contemporaneo, quella teoria dei giochi di Nash e Von Neumann con cui si formalizzano in linguaggio matematico le decisioni o scelte individuali in situazioni di conflitto o di interazione strategica con i rivali. Il meccanismo relativo è quello della retroazione finalizzata al massimo guadagno, e la ricerca di soluzioni competitive o cooperative esclusivamente per fini utilitari, ed è ampiamente utilizzato nel contesto della concorrenza e nella gestione delle trattative economiche.
L’attualità del pensatore ungherese risulta evidente anche per il rifiuto assoluto di considerare la terra, il lavoro e l’uomo alla stregua di merci, e sta influenzando profondamente diverse scuole economiche in varie nazioni, come il regolazionismo francese di cui è esponente Jean–Paul Fitoussi, oltre alle analisi degli scambi non economici, come il volontariato o le economie informali. Tra i grandi del presente, echi di Polanyi sono presenti in un Premio Nobel del livello di Paul Krugman e nelle elaborazioni di Serge Latouche.
Un altro brano importante dell’opera del Nostro è la seguente, tratta dall’Essenza del fascismo: “ dopo l’abolizione della sfera politica democratica resta solo la vita economica; il capitalismo organizzato nei diversi settori dell’industria diventa l’intera società: questa è la soluzione fascista”. Clamoroso è l’abbaglio in cui incorre il pensatore ungherese, giacché quella descritta è la soluzione liberale che abbiamo davanti agli occhi, svincolata da ogni principio, valore o idea: l’economia come struttura, destino, camicia di forza.
Molta pubblicistica progressista afferma che il liberismo odierno sia fascismo: un’operazione insensata ed antistorica, poiché la forza del liberalismo sta esattamente nel contrario, ovvero nel suo apparente antiautoritarismo, nel libertarismo consumistico che diffonde, nell’indifferentismo etico, nella derisione di ogni ideale. Ciò che conta, tuttavia, poiché la parola fascismo, per damnatio memoriae, ha finito per contenere tutti i mali del mondo, è che il liberismo reale cominci ad essere associato al male. La maschera antiautoritaria della democrazia liberale sta cadendo di giorno in giorno, sotto i colpi del principio di realtà. Certo è, purtroppo, che la maggioranza ha introiettato i modi di vita imposti dall’economia di consumo, e la costrizione, o la vera e propria violenza si cela ancora nella falsa coscienza del desiderio di plebi abbagliate dalle luci del supermercato globale, convinte che “non ci sono alternative”.
Le alternative sono difficili, forse dure, dopo tanti decenni in cui le generazioni sono state indebolite, fiaccate, avvelenate da menzogne, persuase che i vizi siano libertà, disabituate al sacrificio e, prima ancora, al pensiero ribelle che diventa lotta. Polanyi è uno dei maestri a cui fare riferimento, comprendendo anche l’ultima, in ordine di tempo, delle sue opere, Per un nuovo Occidente.
La società organica che egli prospetta si basa sull’interdipendenza e la comunità, nasce dai bisogni e dalla vita quotidiana degli uomini, ed è quindi preesistente all’economia ed alle sue leggi, vere o presunte. La società industriale di cui siamo figli ha imposto modelli antropologici, economici e politici del tutto nuovi, che sono certo possibili, ma non unici o insuperabili punti d’arrivo, per cui possono e devono essere criticati alla radice. In via preliminare, Polanyi confutò la teoria liberale delle merci fittizie, ovvero lavoro, terra e moneta. “Lavoro, terra e moneta sono gli elementi essenziali dell’industria; anch’essi debbono essere organizzati in mercati poiché formano una parte vitale del sistema economico; tuttavia essi non sono evidentemente delle merci ed il postulato per cui tutto ciò che è comprato e venduto deve essere stato prodotto per la vendita è per questi manifestamente falso”.
Non ci può essere condanna più netta per i dogmi liberalcapitalistici, e, per quanto riguarda la moneta, va ricordato che il bersaglio del pensatore fu il sistema aureo, che legava l’emissione monetaria al possesso di oro ed alla convertibilità nel metallo prezioso (ricordate la falsa dicitura sulle vecchie lire “pagabili a vista al portatore”, cioè teoricamente convertibili in oro?). Dopo l’abolizione del sistema aureo a seguito della crisi d’inizio anni Settanta, la moneta è diventata un monopolio sganciato da qualunque bene o criterio, incontrollabile dai popoli, sempre più merce governata dal vecchio luogo comune della scarsità diffuso dagli strozzini, che ne hanno assunto il controllo legale.
Quanto al lavoro, dovrebbe essere superfluo riaffermare che non può essere una merce, ma tale rovinoso concetto è originato dalle asserzioni di un importante precursore filosofico del pensiero liberale, John Locke. L’uomo ha la proprietà di se stesso, e se l’affermazione ha un potente valore morale e giuridico- pensiamo all’ “habeas corpus”- ha però ricadute assai temibili, dal momento che una proprietà può essere venduta , e se io vendo il mio lavoro, questo si trasforma in merce. Un tempo il lavoro dell’uomo non era una merce (La era lo schiavo , non il suo lavoro…), ma nasceva dalla volontà di soddisfare necessità o realizzare qualcosa di proprio; al contrario, nelle società industriali e postindustriali liberali è possibile compravendere lavoro, ed il suo trattamento è quello di un prodotto qualsiasi in mano al capitale, di qui delocalizzazione,dumping sociale, nuovo schiavismo, salari indegni, condizioni di pericolosità o disagio ecc.
La grande vittoria del liberalcapitalismo, ce lo conferma anche l’opera di Polanyi, è stata separare il lavoro dalle altre attività della vita per assoggettarlo alle logiche di mercato, annullando ogni idea organica di esistenza per sostituirla con un’organizzazione atomistica, individualistica, essenzialmente antiumana. Uno schema siffatto si è dimostrato distruttivo, giacché le organizzazioni non contrattuali (parentela, vicinato, professione, credo religioso, nazione) richiedevano forme di obbedienza incompatibili con il mercato e la mercificazione. La sbandierata non interferenza liberale nelle scelte individuali è semplicemente il velo di Maya dietro cui si maschera la preferenza per un unico tipo di interferenza, quella dell’economia misura di tutte le cose e del mercato sovrano assoluto che uccidono per soffocamento i rapporti non contrattuali (la convivialità comunitaria) e ne impediscono con implacabile determinazione ogni ricostruzione spontanea.
Nel fondamentale Per un nuovo Occidente, pubblicato postumo, somma di saggi scritti sino al 1958, Karl Polanyi conferma, in base ad una amplissima gamma di argomentazioni storiche, antropologiche ed etnologiche come l’onore e l’orgoglio, il senso civico e il dovere morale, persino il rispetto di sé e la comune decenza fossero irrilevanti per i rapporti produttivi, anzi ne intralciassero gli obiettivi, ed andassero quindi rimossi, estirpati dall’animo umano. Da un lato, un orizzonte definito spregiativamente ideale, quindi irrazionale, dall’altro l’universo “autentico”, razionale e materiale. Siamo stati indotti ad accettare la triste teoria per cui i moventi dell’uomo possono essere rappresentati come materiali o ideali, ma la vita quotidiana deriva e va interpretata esclusivamente secondo riflessi e moventi pratici, utilitari. Una sorta di riflesso del cane di Pavlov, cui si mostra non il cibo o la campanella che lo annuncia, ma il consumo o una banconota ed all’unisono l’umanità deve obbligatoriamente sbavare e comportarsi come lorsignori vogliono.
E’ dovere di chi crede in una logica non utilitarista e non considera il denaro l’unica misura del valore, ritrovare la strada per tornare ad un’economia ancorata alla comunità ed alle sue basi culturali, religiose e politiche, in polemica con l’ideologia dominante e la riduzione dell’umanità a ingranaggio di una gigantesca macchina di produzione, consumo, godimento, rapida sostituzione per malattia, età o incompatibilità con le ragioni del Mercato, questa maestosa ipostasi della divinità ad uso di generazioni incredule, zoologiche, conformiste.
Possiamo fortunatamente contare su un ricco arsenale di idee e riferimenti culturali: uno è senz’altro Karl Polanyi, di cui ricordiamo una riflessione tratta da Per un nuovo occidente: “Non spetta all’economista, ma al moralista e al filosofo, decidere quale tipo di società debba essere ritenuta desiderabile.”
Sarebbe una straordinaria rivoluzione concettuale, ed è un grandioso programma politico destituire gli economisti (meglio dire, i padroni degli economisti) dal potere formidabile che è stato loro attribuito, e riportare filosofi e moralisti al centro dell’arena da cui sono stati cacciati da ogni sorta di “esperti” , questa insopportabile sottoclasse di falsi profeti ma veri imbroglioni, il personale di servizio della cupola interessata al dominio finanziario ed economico del pianeta attraverso la ferrea ideologia travestita da legge naturale chiamata liberalcapitalismo.