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Petrolio in Paradiso

di Ugo Bardi - 21/09/2006

 

Un commento al romanzo di Sabina Morandi (Ponte alle Grazie editore, 2005)



Un amore che muore è un soggetto letterario abusato, le nozze d'oro di una coppia raramente generano poesia romantica. Qualcosa che ci sembra ci appartenga con certezza non genera grande emozione; solo quando ci sembra che si rischi di perderla, allora le cose cambiano. Per un secolo e mezzo il petrolio è stato con noi e ci è sembrato che fosse cosa ovvia averlo. Ora che non è più così, la cosa diventa emozionante, qualcosa sulla quale si possono scrivere romanzi.

La grande epopea del petrolio è durata un secolo, ma finora non aveva generato letteratura interessante, un po' come l'epopea del West non lo aveva fatto ai tempi in cui si svolgeva. Soltando dopo che il West selvaggio è diventato un mito irraggiungibile, la fabbrica dei sogni che è Hollywood se n'è impadronita. Può darsi che solo ora, che sta diventando scarso, il petrolio entri nella fabbrica dei miti, nel "dreamtime" così come lo chiamano gli indigeni australiani. Il romanzo di Sabina Morandi, "Petrolio in Paradiso" può essere uno dei primi esempi dell'ingresso della saga del petrolio nella mitologia moderna.

Di certo, la saga del petrolio non è stata meno avventurosa dell'epopea del West americano. Chi ha conosciuto i geologi petroliferi che lavoravano (e tuttora lavorano) "sul campo" sa che sono tipi duri e decisi non meno di quanto John Wayne ci appare nei tanti film western che ha interpretato. La saga del petrolio si è svolta per un secolo per deserti e giungle, montagne e oceani; fra tutte le culture, tutte le lingue e tutte le religioni; fra boschi, fiumi, laghi e città; intorno a una galleria di personaggi quasi infinita, alcuni che aiutano, altri che mettono i bastoni fra le ruote in una varietà infinita di casi e di storie.

Di questa infinita varietà, Sabina Morandi ci racconta un caso; la storia moderna di un'esplorazione nella giungla Amazzonica, nel territorio dei Kichwa, dove la disperata ricerca delle ultime risorse di petrolio ha portato un gruppo di esploratori di una società petrolifera italiana. Sabina Morandi ha scelto un impianto narrativo molto difficile per la sua storia; un cambiare continuo di punto di vista, focalizzando la narrazione da un personaggio all'altro. Il libro si legge come un telegiornale dall'Amazzonia, come se la storia fosse raccontata da inviati diversi, dal campo degli esploratori o dal villaggio della tribù Kichwa.

Alcuni dei personaggi sono ottimamente riusciti, come Michelle Pardo, improbabile ma affascinante manager. Rimangono in mente i Kichwa, Cesar, capo locale, Maria, indigena esperta in internet, Nonna Lucia, alter-ego tribale di Michelle Pardo. Alcuni, purtroppo, come l'antropologa Laura, non vengono mai veramente fuori come personaggi, come potrebbero. L'impianto narrativo ha delle inperfezioni, ma la storia regge; chiaramente Sabina Morandi aveva qualcosa da dire e l'ha detto in questa epopea del petrolio. Una bella storia, triste e profonda come le storie devono essere.

Edipo, nella storia, cerca di sfuggire all'oracolo che lo ha condannato a un destino infame; senza riuscirci. A volte gli uomini fanno cose assurde e infami sotto l'effetto di forze oscure, cercando di sfuggire al loro effetto ma senza riuscirci. Nel libro di Sabina Morandi, questa forza oscura è il petrolio.