Elogio postumo della Civiltà del Bisogno. Che tornerà
di Maurizio Blondet - 05/09/2016
Fonte: Maurizio Blondet
Era il 1927. La sovrapproduzione in cui l’economia americana s’era assestata durante la Grande Guerra (quando produceva enormi volumi di beni per gli alleati, con grandi profitti) minacciava di tradursi in recessione e crisi. Paul Meyer Mazur, banchiere d’affari, partner di Lehman Brothers, lanciò la linea:
“Dobbiamo cambiare l’America da essere una cultura dei bisogni, ad essere una cultura dei desideri. Bisogna addestrare la gente a volere cose nuove, ancor prima che le cose vecchie siano consumate del tutto. Dobbiamo formare una nuova mentalità in America. I desideri dell’uomo devono mettere in ombra le sue necessità”.
Prendo questa citazione dall’ultimo, illuminante saggio di Enzo Pennetta, “L’Ultimo Uomo – Malthus, Darwin, Huxley e l’invenzione dell’antropologia capitalista” (Circolo Proudhon, 206 pagine, 16 euro). Naturalista per formazione, Pennetta è diventato un notevole storico del pensiero scientifico; del suo cascame, ossia lo scientismo; e su questa via, ha esplorato i “cambi di paradigma” culturali e le centrali che li creano e diffondono nel mondo moderno: tipicamente il Darwinismo, voluto dalle centrali britanniche come “genesi laica”, ossia un mito funzionale al potere, e “fons juris” che non dovesse nulla a un Dio, né a un obbligo di adeguarsi qualche idea del bene o del male.
La citazione di Paul Mazur mi ha risonato dentro in modo speciale perché io, per l’età, ho vissuto il “cambio di paradigma” di cui parla: nel primo quindicennio della mia vita, e anche oltre (diciamo fino al 1960), nella Milano industriale oggi scomparsa, ho visto le ultime propaggini della ‘cultura dei bisogni’.
Era la cultura che è facile deridere come quella delle scarpe risuolate, dei cappotti rivoltati, dei pantaloncini che passavano dal fratello maggiore al minore, e non comprati ma cuciti in casa. Ma nella derisione va perduta la forza spirituale, la potenza educatrice che tale paradigma dava alla società. Una economia pensata per soddisfare i bisogni non poteva essere ipertrofica, non aveva la voce in capitolo totalizzante e condizionante che ha oggi. Ricordo benissimo che le famiglie – dove non erano ancora in uso gli acquisti a rate – non solo risparmiavano per anni per le grandi spese importanti (mobili, i primi elettrodomestici, la Vespa) ma insegnavano ai figli a dominare i desideri: la paghetta settimanale non essendo affatto un diritto acquisito, noi giovanissimi sperimentavamo la ‘povertà’ : una lieta povertà al sicuro dalla fame (ci pensavano i genitori) ma in assenza di denaro, salvo quelle monetine da dieci lire per acquisti di liquirizia.
L’ideale era aver sempre meno bisogni
Ma c’è anche di più. Nella cultura dei bisogni, non solo non veniva incoraggiata l’espansione dei desideri; veniva additato come ideale la “riduzione dei bisogni” stessi. Crescere, diventare adulto, significava aver imparato a ridurre i propri bisogni: il padre di famiglia per esempio, o la mamma, rinunciare a qualcosa loro – del poco – per la famiglia e gli studi dei figli. Si era conquistata “libertà”: la libertà dal bisogno veniva intesa così, l’esatto contrario di quella di adesso. Era –bisogna dirlo oggi che è tanto dimenticata – una scuola di ascetica popolare, volentieri adottata per senso di responsabilità. Alla cime della quale brillava – eh sì – come esempio e modello ultimo, il francescano, il frate mendicante, l’asceta che vive di Provvidenza, supremamente libero dal denaro, e grato e lieto.
Incredibile quanto la “cultura del bisogno”, fondata sulla povertà e il necessario stretto, avesse il lusso di mantenere i monaci mendicanti. Attenzione, qui non parlo solo dell’Europa. Parlo della ciotola del monaco buddhista e quella del Sadhu indù; parlo degli eremiti cristiani dei primi secoli, di Sant’Antonio del Deserto, dei conventi –di gente che nessuno accusava di “non fare niente”, di non essere produttivi. Incarnavano un ideale, la liberazione dai bisogni, anche dai pochi bisogni dell’uomo adulto, del Pater Familias.
Da qui si vede, spero, che si trattava di “paradigma culturale” molto antico. Per migliaia di anni la ciotola del monaco che la donna pia riempie di un pugno di riso, è stata una costante della civiltà. Ciò ha ordinato per millenni le società umane verso il superamento di sé, oltre la morte: ciò che nella nostra Europa si chiamava il Regno dei Cieli. Da cui derivavano tante cose oggi inspiegabili : la figura del guerriero, sia il samurai o il cavaliere templare, un asceta poverello educato al sacrificio della propria vita con nobile sprezzatura; una classe nobiliare che si assoggetta volontariamente “a un ordine e a una legge”, nella convinzione che “vivere a proprio gusto è da plebeo”. Monarchie durate secoli, che si circondavano di ricchezze, ori, ermellini, torri, come segnali del prestigio, non di comodità.
Quello era lo stato normale dell’umanità. Come farlo capire all’uomo massa consumista, convinto che sia normale l’abbondanza in cui vive oggi – a credito – e dove tutto il mondo della pubblicità, della ‘informazione’, ma anche la demagogia dei politicim, dei testimonial di successo, e dei governi, applaudono il fatto che non metta limiti ai suoi desideri? Il libertario – che in qualche modo vive in tutti noi –esalta questo stato come compimento di un gran processo di “liberazione”, e fenomeno “spontaneo”. Per chi ha vissuto l’altra civiltà, sente questa che l’ha sostituita, come degrado morale, peccato (apostasia), e perdizione dell’umanità. Schernitemi pure. Ma almeno, si capisca che non c’è nulla di spontaneo: ciò che vi sembra “naturale” è il cambio di paradigma che è stato decretato da Wall Street e Lehman Brothers negli anni ’20.
E per tutti i libertari, arriva la cattiva notizia: la “cultura dei desideri” è arrivata alla fine. Era insostenibile fin dal principio. Ora si vede che era tutta gonfiata dall’inflazione del debito,su cui Wall Street (e soci) lucrano gli interessi; ma il debito cumulato su privati e sugli stati, è tale che da otto anni le banche centrali (da meno la BCE) creano denaro dal nulla e, senza riuscire a mettere in moto l’economia mondiale. In una parola: noi occcidentali andiamo verso un regno della scarsità e dell’ingiustizia, privati delle risorse spirituali per sostenerlo, e anche per accettarlo. Il perché non si riesca ad uscire dalla crisi – il perché il sistema è al suo capolinea – è, in senso profondo, morale: ha a che fare con la stoffa spiritualmente cattiva degli uomini “addestrati alla cultura dei desideri, a volere cose nuove”.
Enzo Pennetta: “Se nella percezione collettiva i desideri sostituiscono i bisogni, un’ulteriore tappa è quella di spostare il concetto di ‘diritto’ dalla dimensione della necessità a quella della volontà individuale”.
E’ una deformazione profonda, una malattia del diritto, quella per cui partiti e propaganda esaltano come una gran conquista “i diritti dei gay” al “matrimonio”, si predica il “dovere di accoglienza” verso torme di stranieri ostili, mentre si abbandonano alla miseria i poveri della propria nazione, e mentre si violano senza scrupoli i diritti necessari e fondamentali al lavoro, all’uguaglianza, il diritto dei lavoratori a non essere derubati del salario – o anche il diritto fondamentale alla propria identità culturale, per cui si batte l’ungherese Orban, demonizzato dai media. La colpa della “Unione Europea” in questa fase terminale della civiltà; ma questo richiederà un altro articolo.