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Miraggi di ricostruzione in Medio Oriente

di Alberto Negri - 07/09/2016

Miraggi di ricostruzione in Medio Oriente

Fonte: ilsole24ore

 

I pomodori e il gas dell’Algeria, il petrolio dei curdi, le ambizioni delle monarchie del Golfo e quelle dell’Iran: sono mille i volti dell’economia mediorientale che incrociano i destini della geopolitica.
Con una domanda su tutte: come ricostruire il mondo musulmano e la Siria dopo l’Isis, con quali risorse umane, economiche e con quali frontiere? E dove saranno i punti caldi di queste guerre “a frammentazione” in una regione vitale per la nostra sicurezza, l’energia e i migranti?
La Siria offre un’istantanea disperante: 4,5 milioni di profughi, 7 milioni di sfollati interni, un siriano su due non ha più una casa. La produzione di petrolio (400mila barili) è crollata, la disoccupazione è oltre il 50%, l’80% dei siriani è in preda alla povertà. «Una devastazione paragonabile a quella di certe nazioni dopo la seconda guerra mondiale», scrive Jihad Yazigi, direttore di Syria Report. Tanto profonda da richiedere investimenti stellari: 200 miliardi di dollari, una cifra tre volte superiore al Pil prima della guerra civile.
Da ricostruire non ci sono solo palazzi e infrastrutture: ma rapporti sociali fatti a pezzi dai settarismi. C’è da salvare un’intera generazione di giovani siriani. Più di 2 milioni di bambini ha interrotto gli studi, una scuola su quattro è distrutta. Su questi bambini si combatte la battaglia del futuro: chi avrà la meglio tra i piani di Erdogan, quelli dell’Iran e i soldi delle monarchie del Golfo?
Viaggiando nel mondo arabo non mancano anche sorprese positive, una di queste sono i pomodori algerini, prodotto di un Paese noto per i gasdotti con l’Italia e attraversato dall’incertezza della successione al presidente Bouteflika. L’Algeria, percorsa negli anni ’90 da una guerra civile con 200mila morti, ha scoperto l’antico sogno del deserto fiorito.
A 500 chilometri da Algeri, in direzione del Sahara, dove d’inverno le notti sono glaciali e d’estate si superano i 50 gradi, compaiono a perdita d’occhio migliaia di serre, lunghi corridoi di plastica dove in un microclima umido e tiepido sono allineate file di pomodori perfettamente rotondi. Sono irrigati con l’acqua fossile del Sahara, una riserva stimata 60mila miliardi metri cubi. Gli agricoltori più ricchi reinvestono in palme da dattero, la famosa qualità “deglet nour”, dattero di luce, che ha un prezzo più stabile dei pomodori. L’Algeria ne ha prodotti nel 2014 un milione di tonnellate, il Marocco 1,3, la Spagna 3,6, l’Italia, con 5 milioni, è sempre la regina europea.
Il sistema si regge sul lavoro di migliaia di braccianti a 2,10 euro l’ora con una paga giornaliera di 17 euro. Si trivella l’acqua a 300 metri di profondità con grande ricorso ai pesticidi: pomodori che non possono essere esportati in Europa perché non rispettano le norme sanitarie. Eppure a Biskra è nata un’industria della trivellazione, sono sorte società agroalimentari e si sono insediati 26 nuovi hotel.
Ma cosa accadrà a questo miraggio nel deserto dopo Bouteflika, patriarca morente di un’Algeria strategica? È la risposta che vorrebbero avere i suoi vicini come la Tunisia e la Libia. La Tunisia dopo la caduta di Ben Alì ha accresciuto i suoi problemi strutturali e le fasce più vulnerabili sono state contagiate dal proselitismo dell’Isis. Sono 6-7mila i foreign fighters tunisini tra Siria e Libia. È evidente che la ripresa del petrolio libico sarà decisiva per restituire sicurezza e un lavoro a un milione di tunisini e a un altro milione di migranti africani. Ma ci vorranno 200 miliardi di dollari in 10 anni, secondo l’Onu, per riavere i livelli della Libia di Gheddafi.
Il ritorno della questione curda in Medio Oriente è in realtà il prodotto non solo della caduta di Saddam nel 2003 ma anche di un boom che negli anni scorsi faceva apparire Erbil una nuova Dubai.
Il Kurdistan iracheno in questi anni è uscito dall’isolamento. Anche se il sogno di avere uno sbocco curdo sul Mediterraneo è destinato a infrangersi con l’offensiva turca contro i curdi siriani. Erbil e Suleimaniyah oggi sono collegate da 200 chilometri di asfalto. Per decenni c’era una sola strada, che percorsi nel 1980, per andare in Iran: l’Hamilton Road costruita dagli inglesi nel ’30. Da allora non era stato fatto alcun collegamento Est-Ovest: nessuno era interessato a favorire l’unità del Kurdistan. Con la creazione della zona autonoma (Krg) di Massud Barzani è arrivata la manna dell’oro nero e con la comparsa dell’Isis i peshmerga, dopo essersi liquefatti davanti al nemico, hanno approfittato delle sconfitte dei jihadisti per occupare Kirkuk, centro petrolifero rivendicato dai curdi che qui sono non più del 50 per cento.
Barzani vende petrolio alla Turchia che lo gira anche a Israele ma certamente Ankara non vorrebbe vedere l’indipendenza del Kurdistan iracheno e tanto meno del Rojava, quello siriano. Gli Stati Uniti restano in una posizione ambigua, usano i curdi contro l’Isis ma non vogliono compromettere le relazioni con un membro della Nato. L’Iran, alle prese con i suoi curdi, è ostile alla prospettiva irredentista, così come la Russia che ha forti legami con Teheran ed è tornata in buoni rapporti con Erdogan.
I curdi ci mettono del loro: con il petrolio potrebbero nutrire 50 milioni di persone ma i proventi sono stati dilapidati dal clan Barzani e 1,5 milioni di dipendenti pubblici, su 7 milioni di abitanti, sono pagati a singhiozzo. Le conquiste curde, sia in Iraq che in Siria, rischiano di non trovare sostegno oltre che un’unità di intenti politici: l’economia sarà decisiva quanto la geopolitica nel destino dei curdi.
Ma veniamo ai più ricchi di tutti, le monarchie del Golfo, dove gli americani hanno 7 basi militari e la flotta a Manama, segnale evidente di qual è il vero interesse strategico Usa.
Possiedono il 60% delle riserve mondiali di petrolio, il 40% di quelle di gas. Dallo stretto di Hormuz, conteso agli iraniani, passa un terzo dei rifornimenti occidentali mentre a Bab el Mandeb, nel Mar Rosso, transita il 40% del commercio marittimo mondiale. Dopo l’accordo sul nucleare del luglio 2015, la guerra fredda tra Teheran e Riad, già in corso in Siria, è diventata bollente in Yemen dove l’Iran sostiene i ribelli sciiti Houthi e l’Arabia Saudita un fronte sunnita di 12 Paesi. Riad ha acquistato dall’amministrazione Obama 100 miliardi di dollari di armi in otto anni ma non riesce a prevalere neppure con i mercenari.
Gli iraniani sanno che potrebbero vincere anche questa guerra per procura, come sono riusciti a mantenere in sella Assad con l’aiuto decisivo di Putin. Ma agli ayatollah conviene davvero la rovina dei Saud? A Teheran pensano che chi verrà dopo di loro potrebbe essere pure peggio. Gli iraniani sono gli unici con una visione strategica di lungo termine che prevede un mondo musulmano con centri religiosi concorrenti ma nessuno dominante: Kerbala e Najaf come Mecca e Medina. Non a caso hanno invitato il Papa ad andare a pregare a Qom, il Vaticano dello sciismo.
Per le monarchie del Golfo, sostenute da americani ed europei, i loro grandi partner finanziari e strategici, ora si pongono due problemi decisivi, la crisi delle quotazioni del petrolio e quello di un sistema fondato su un apartheid che divide i cittadini arabi dai non cittadini, in maggioranza asiatici. Gli stranieri sono l’80% degli abitanti in Qatar e negli Emirati, il 33% dei lavoratori in Arabia Saudita, il 69% in Kuwait, il 74% in Barhein. Nel Golfo i profughi siriani non sono graditi in compenso arrivano i migranti da Oriente a tenere in piedi l’economia.
La storia dimostra che questi tipi di struttura sociale non hanno un avvenire e questa non è una buona notizia per gli altri stati della regione, in crisi o in disgregazione. E forse neppure per noi. Ma è anche una sfida formidabile: il mondo arabo più ricco si dovrà aprire per sopravvivere. Finora le monarchie hanno puntato sulla “diplomazia religiosa” per attenuare le disuguaglianze e tenere lontano i guai, esportando la versione più retrograda e conservatrice dell’Islam, jihadisti compresi. Ma adesso i guai stanno per entrare in casa loro.