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La società in mano ai medici (I parte)

di Roberto De Caro - 23/09/2006

LA SOCIETA' IN MANO AI MEDICI.
Socialismo ed eugenetica nell'esperienza svedese 1 / 2

 

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[Carmilla riprende un articolo dell’ultimo numero della rivista
Hortus Musicus (n. 24, ottobre-dicembre 2005) su un’esperienza di pianificazione sociale volentieri rimossa dall’epopea socialdemocratica, in patria e all’estero.]

Ciò di cui hanno urgente bisogno i paesi sottosviluppati è qualcosa che non ha precedenti sulla terra non meno della brusca caduta della mortalità grazie alla nuova tecnologia medica resa disponibile dopo la seconda guerra mondiale […]

Prima di tutto, contro i forti pregiudizi e le credenze false e opportunistiche ma ancora largamente diffuse, un governo dev’essere fermamente deciso ad agire instaurando una vigorosa politica pubblica per imporre il controllo delle nascite. In secondo luogo, deve costruire un apparato amministrativo atto allo scopo, che raggiunga le singole famiglie nei villaggi e negli slums cittadini, e assumere un vasto personale medico e paramedico […].

Gunnar Myrdal, «Politica demografica», in Controcorrente: realtà di oggi e teorie di ieri, Laterza, Bari-Roma, 1975, pp. 117 s., ed. or. 1973.

Per alcuni decenni, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, il «modello svedese» è stata la stella polare del riformismo socialdemocratico europeo, «the middle way» al capitalismo: una risposta che si pretendeva definitiva alla ferocia liberista del «paese di Dio» e alla devastante pianificazione sociale ed economica del blocco sovietico. Libertà, Giustizia, Solidarietà, la triade del nuovo Illuminismo; il Nobel specchio di progresso e monito ai potenti: garante l’Accademia delle Scienze. La Svezia contemplava dall’alto gli orrori del mondo. Dopo il crollo del Muro però, in Europa «gli eredi del socialismo e della socialdemocrazia, ossia gli odierni partiti di sinistra» (Ralf Dahrendorf, Il vuoto della sinistra e la crisi del ‘welfare’, in La Repubblica, 18 gennaio 2005) furono molto più prudenti nell’evocazione di quell’esperienza paradigmatica e anzi a poco a poco smisero di parlarne.
Una volta al governo, liquidarono anche le ormai superflue promesse keynesiane e proseguirono senza remore le politiche thatcheriane e reaganiane che avevano segnato gli anni Ottanta: onestamente «oggi è molto difficile distinguere tra destra e sinistra. Politica estera e politica economica spesso coincidono. La differenza, come hanno evidenziato le recenti elezioni americane, è più che altro culturale, emotiva: la posizione sull’aborto, sulla pena di morte, sulla religione» (ibid.). Ma oltre al sollievo di non dover più rispondere neanche sul piano ideologico di ceti subalterni ed eccedenze di manodopera, al piacere di potersi inginocchiare en plein air sui gradini di Wall Street, sotto «l’ombrello protettivo della Nato», di costruire tutti assieme la fortezza Europa, ci fu un altro, più nascosto motivo che indusse i rampanti dell’Internazionale Socialista a dimenticare rapidamente le meraviglie dell’eden scandinavo.
Proprio in quegli anni, cominciavano ad essere rivelati in Svezia – infrangendo l’unanime, semisecolare omertà – alcuni taciuti aspetti del modello,
collasvezia.jpgche il lettore italiano può adeguatamente e doverosamente apprezzare frequentando i fondamentali studi di Piero Colla, dai quali si citerà: 1. La politica di sterilizzazione in Svezia 1934-1975 (in Rivista di Storia contemporanea, 1994/95, 3, pp. 323-348); 2. La memoria rimossa del razzismo. La Svezia fra le due guerre (in Contemporanea, II (1999), 3, pp. 411-434); 3. Per la Nazione e per la Razza. Cittadini ed esclusi nel ‘modello svedese’ (Carocci, Roma 2000). In particolare emerse quello che tutti sapevano e nessuno diceva: che in quarant’anni ininterrotti di governi socialdemocratici si diede vita a un aberrante programma, pervasivamente condiviso, di selezione sociale mediante la sterilizzazione di decine di migliaia di persone – su una popolazione di poco più di sette milioni di abitanti, 62.888 secondo le fonti ufficiali, di cui oltre il 90% donne, ma senza contare «coloro che vennero sterilizzati al di fuori del quadro previsto dalla legge (nei casi, ad esempio, che non richiedevano un’autorizzazione preventiva da parte delle autorità sanitarie nazionali)» (3, p. 36): un numero da non sottovalutare poiché la normativa permetteva la sterilizzazione dei «malati mentali» anche solo con il parere favorevole di due medici abilitati, «previo consulto reciproco» in sostituzione dell’«autorizzazione della Direzione dei servizi sanitari».
Nel 1934, lo Sveriges Socialdemokratiska Arbetare Partiet, al governo dal 1932, si fece promotore di «misure legislative che autorizzavano – e di fatto incoraggiavano – la sterilizzazione dei malati di mente e di altri portatori di malattie ereditarie, o sospette tali», nel quadro «della cosiddetta “negative eugenics”: la teoria diffusa nella scienza di inizio secolo, che si proponeva di migliorare la qualità biologica delle generazioni future» mediante, come si diceva all’epoca, «“la prevenzione del materiale umano degenerato”» (1, pp. 324, 333). Il parlamento approvò all’unanimità. Successivamente, nel 1941, «la normativa venne estesa a tutti coloro che, indipendentemente da considerazioni prettamente eugenetiche, fossero giudicati inadatti ad assicurare la cura della propria prole: si parlava, in questo caso, di sterilizzazione su “indicazione sociale”» (3, p. 24). Nel dopoguerra, proprio nel periodo in cui si consacrava il modello e la legge si rendeva socialmente ‘invisibile’, ci fu una forte accelerazione del numero degli interventi: nel 1950 raggiunse l’apice, poi si stabilizzò, oscillando tra i 1500 e i 2500 l’anno, sino al 1975, quando la disciplina fu sensibilmente modificata, consentendo unicamente la «sterilizzazione volontaria, a fini di family planning (e fu varata anche la nuova Costituzione, datando la precedente al 1809!). Nel 1960 ci fu un tentativo politico di resipiscenza, ma «la mozione parlamentare che chiedeva la costituzione di una commissione per riesaminare la legge sulla sterilizzazione fu discussa e respinta dal Riksdag» (1, p. 345).

Come il Pentagono per gli USA, i Gulag per l’URSS, Castro per Cuba, la sterilizzazione in Svezia non è una superfetazione criminale del modello: è il modello stesso. Di per sé l’idea non era originale, anche se occorre ricordare «che la sua traduzione in pratica legale e massificata resta un evento eccezionale»: nell’area scandinava fu applicata ovunque (in Finlandia dal 1935, 58.000 vittime; in Norvegia dal 1934, 40.000; in Danimarca dal 1929, 11.000, «su iniziativa di un governo socialista» e relative lamentele della stampa femminile della SPD per l’insufficiente durezza delle misure; in Islanda nel 1938 «rientra direttamente nel lancio di un programma di welfare»), nel Canton Vaud, in Svizzera, dal 1928 al 1985 (unico luogo di lingua latina in Europa, blandamente, pare: 187 vittime); in Canada, in Giappone, dove «soltanto nel 1998 ha cessato di vigere una legge “di protezione eugenetica”, introdotta nel 1947, sotto l’occupazione americana». E naturalmente negli Stati Uniti, il cui caso impone un’apparente digressione, sia per il diretto influsso su alcuni tra i massimi «ingegneri sociali» svedesi, sia per l’ineludibile apporto alla «civiltà Occidentale» – come viene chiamata, con belluina nonchalance, una cosa che non esiste – di tutto ciò che viene da lì: nel 1907 l’Indiana fu il primo paese al mondo a dotarsi di normative per sterilizzare «“idioti” e delinquenti» (3, pp. II, 14, 19), ma negli anni successivi a più riprese le norme dei singoli Stati in materia vennero giudicate incostituzionali. Fino al 1927, quando la Corte Suprema degli Stati Uniti si pronunciò sul ricorso di Carrie Buck, una ragazza di diciotto anni giudicata frenastenica e condannata a salpingectomia dalla Corte Suprema di appello dello Stato della Virginia insieme alla figlia Vivian di sette mesi, in base a una legge del 1924. Il giudice Oliver Wendell Holmes (un leading progressive), a nome della Corte (otto contro uno), non solo decretò che la ragazza, per il «suo benessere e quello della società», dovesse essere sottoposta all’intervento perché feeble-minded e promiscuous al pari della madre e della figlia, ma sentenziò sulla natura della legge, lamentandone i limiti:

Abbiamo visto più di una volta la società chiedere ai propri migliori elementi il sacrificio della loro vita. Sarebbe strano non poter chiedere a quelli che già attentano alla forza dello Stato questi sacrifici minori, spesso non percepiti tali dagli interessati, al fine di evitare di essere sommersi dall’incapacità. È meglio per tutto il mondo che, invece di aspettare di giustiziare la progenie degenerata per la sua criminalità, o di farla morire di fame per la sua imbecillità, la società possa impedire a coloro che sono chiaramente non idonei di continuare la propria stirpe. Il principio che legittima la vaccinazione compulsiva è lo stesso che giustifica il taglio delle tube di Falloppio. Tre generazioni di imbecilli sono già abbastanza […].
Sarebbe meglio che questo ragionamento fosse applicato genericamente, perché esso è insufficiente se limitato al piccolo numero di coloro che sono nelle istituzioni e non applicato alla popolazione intera. È il fine ultimo delle ragioni costituzionali sottolineare difetti del genere. La legge fa tutto ciò che è necessario quando essa fa tutto ciò che può, indica una politica, la applica indistintamente nelle sue linee, e cerca di farlo nella maniera più veloce ed incisiva possibile. Tanto profondamente che le operazioni consentono a chi altrimenti sarebbe dovuto rimaner confinato di ritornare nella società, per aprire ad altri le porte delle istituzioni, al fine di raggiungere prima possibile l’obiettivo dell’eguaglianza.
La Giustizia afferma.

La sentenza fu eseguita (bimba compresa: morì a otto anni). Altri Stati adottarono leggi in materia, sicché negli anni ’30, quando la grande depressione generò milioni di ‘tarati’, il bisturi fece migliaia di vittime, nonostante i medici statunitensi sconfessassero ormai apertamente i risultati dell’eugenetica. In seguito si scoprì che Carrie Buck non era affatto ‘malata’, né lei, né la figlia, né altri parenti: un caso frequente anche tra i mutilati svedesi, essendo in questa ed altra materia giudice supremo l’Arbitrio e suo cancelliere la Scienza. Occorre però anche dire con forza che, al pari della condanna a morte di un innocente, l’errore non può e non deve essere considerato un’aggravante – come pretende certo pragmatismo umanitario, a rischio di legittimazione implicita – ma parte integrante di un delitto esecrando.
Gli USA fecero scuola, in Germania in particolare. Se da una parte la «giustificazione per sostenere la legge della Virginia faceva presagire gli argomenti che più tardi sarebbero stati utilizzati per giustificare l’uccisione eugenica nella Germania nazista», dall’altra questa e ad altre sentenze rafforzarono la collaborazione tra scienziati dei due paesi, irrobustendo il già convinto entusiasmo della Repubblica di Weimar, durante la quale vennero fondati centri di ricerca che «diedero impulso allo sviluppo della disciplina dell’igiene della razza […] offrendo un modello per un gran numero di istituti analoghi fondati durante il periodo nazista». Attorno al 1932 in Germania si tennero oltre quaranta corsi universitari sull’igiene della razza (Henry Friedlander, Le origini del genocidio nazista, Editori Riuniti, Roma 1997, pp. 14-21). Al processo di Norimberga i nazisti, che sterilizzarono 300.000 persone, mostrarono così efficacemente di aver ricalcato la propria normativa su quella californiana che il crimine fu rapidamente derubricato.

Anche la Svezia dette il suo rilevante contributo al progresso della «civiltà Occidentale»: «gli studi sulla razza conquistarono un tale prestigio» nel paese che nel 1921 il Riksdag accolse una mozione presentata dal socialista Branting e dal conservatore Lindman e fondò, prima nazione al mondo, l’«Istituto di Stato per la Biologia razziale» presso l’Università di Uppsala, affidandone la direzione a Herman Lundborg, «sostenitore appassionato della superiorità delle razze nordiche». Come dichiarò il socialdemocratico Engberg durante la discussione parlamentare, ci si attendeva dall’Istituto indicazioni per la «messa in opera di una politica della razza». I rapporti con la Germania si infittirono, in specie con quelle correnti dell’eugenetica che teorizzavano la supremazia dei popoli ariani, tanto che Lundborg «approdò negli anni ’30 all’antisemitismo e al nazismo» (1, p. 327).
Fu in questo clima di profondo e partecipato consenso agli sviluppi culturali del razzismo che la socialdemocrazia, una volta al potere, impresse un’accelerazione determinante all’atteso iter legislativo, tuttavia con una svolta significativa rispetto alle coeve politiche di «protezione della razza» che si andavano sviluppando in Germania. Tale svolta peraltro non impedì ai governi socialdemocratici di flirtare con il Terzo Reich: dapprima respingendo e osteggiando i profughi ebrei – «le 195 domande di visto presentate» nel 1934 furono descritte dalla stampa come «un’imponente invasione ebraica» e i rifugiati considerati «un fattore di turbamento del mercato del lavoro» e «un pericolo di natura sociale […] derivato sia dalla loro presenza in quanto tale, sia dal possibile “contagio” di sentimenti razzisti»; inoltre si espresse «il timore dell’“inquinamento biologico” del ceppo popolare svedese: un tema già latente negli orientamenti ufficiali della politica di immigrazione» (2, pp. 419 s.) –; poi, durante la guerra, negoziando il diritto alla neutralità, fondamento vero del lungo successo economico:
«Non abbiamo alcuna ragione di contestare la sincerità dell’ambizione tedesca di costruire un’Europa migliore», dichiarò nel 1940 Allan Vougt, capogruppo socialdemocratico alla Camera bassa, già «direttore del più importante quotidiano operaio del sud della Svezia» e futuro ministro degli Esteri dopo il ’45. In sostanza, vennero accantonate – ma mai abbandonate – le tesi biologico-razziali per imboccare la strada dell’«igiene sociale» e del «pragmatismo utilitario puro e semplice». Il passaggio è scolpito nella legge del 1941, che non prevede più la «sterilizzazione dei soli malati di mente», ma la estende letteralmente a tutti coloro i quali «a causa di un modo di vita asociale siano ritenuti inadatti ad assicurare la cura dei propri figli» (3, pp. 91 s.; 1, p. 340). Non piu dunque le sole insufficienze patologiche da estirpare, ma ogni tipo di devianza, qualunque comportamento non conforme alla capillare pianificazione della società perfetta, turbativo del nuovo ordine che si andava costruendo in nome della folkhem – il ‘focolare del popolo’, la ‘buona casa’ –, slogan che univa «il mito populistico del folk e il razionalismo utopistico dei funzionalisti».
Fu attorno a questa rinnovata formulazione dell’identità nazionale che si strinsero tanto i partiti conservatori quanto il movimento operaio, il quale dismise l’armamentario marxista e internazionalista («soffocato sotto una coltre di professioni di patriottismo») e rinunciò – con gli accordi di Saltsjöbadet del 1938 tra sindacati e datori di lavoro – al conflitto sociale per aderire alla lotta democratica del paese nella competizione mondiale, delegando le controversie a un’apposita amministrazione dello Stato, la «Direzione generale del mercato del lavoro». Questa «particolare propensione a riconoscere ai poteri pubblici» la capacità «di dirimere controversie di principio in virtù delle competenze tecniche e delle prerogative di sintesi in loro possesso» è alla base del «modello svedese di compromesso», che consentì, a partire dal 1933, il kohandeln, il ‘patto della mucca’, la ventennale collaborazione dei socialdemocratici con il Bondeförbundet, il Partito degli Agricoltori, dichiaratamente razzista, il cui programma recitava:

Un compito nazionale di prima importanza impone di preservare il ceppo popolare svedese dall’incrocio con elementi razziali stranieri, di qualità inferiore e di ostacolare l’accesso in Svezia di elementi estranei indesiderati […] per mantenere il nostro popolo al riparo da qualsiasi influenza degenerata.

Un’esigenza ripresa con surplus economicista nelle conclusioni della commisione di tecnici riunita nel ’36 per decidere in merito alla riforma della «legge sugli stranieri», a seguito di un dibattito al Riksdag che riconosceva «dimensione istituzionale al tema contingente dell’emigrazione ebraica dalla Germania»:

[…] l’obiettivo principale della legislazione sugli stranieri è di difendere il mercato del lavoro svedese, così che questo rimanga al servizio della popolazione nazionale, e contemporaneamente di impedire l’insediamento nel nostro paese di elementi etnici indesiderati.

Del resto, già dal 1914 – e fino al 1954 – la «Legge sul divieto per certi stranieri di soggiornare nel Regno» impediva al popolo romanò di varcare la frontiera, con tragiche, incancellabili responsabilità quando i nazisti, a partire dalle Olimpiadi berlinesi del 1936, cominciarono a internare in massa gli Zigeuner dapprima in campi di lavoro e di concentramento, poi di sterminio (va però ricordato che nel 1942, quando cominciarono i rastrellamenti tedeschi, la Svezia aprì le frontiere a quanti erano rimasti dei 1800 ebrei norvegesi e altrettanto fece l’anno dopo con i 6500 ebrei danesi, che si salvarono quasi tutti, grazie all’eccezionale, unanime solidarietà dei compatrioti).
Le peculiari conseguenze di tali concezioni, «in linea con quell’idea di «società-Stato, che il vocabolario svedese fatica a distinguere», furono spaventose: si consideri ad esempio che «i tribunali non disporranno, in nessuna delle fasi di cui si compone questa vicenda, di alcuno strumento per interferire con le decisioni delle amministrazioni centrali in materia di sterilizzazione», le quali rivendicheranno sempre l’insindacabilità delle proprie decisioni ‘tecniche’ (2, pp. 421, 424 s.; 3, pp. 32 s., 46, 73, 90).
Il sincretismo era la chiave del progetto riformista. «Gli autoproclamati “ingegneri sociali”» poterono contare sul prestigio dei funzionari dell’amministrazione regia (cui si riconoscevano indiscutibili «il rigore etico, la fedeltà all’autorità, l’insensibilità alle ragioni di parte»), sull’attiva collaborazione della Chiesa luterana, sulla lealtà degli apparati repressivi, sul sostegno della Scienza, dell’Architettura, dell’Arte, della Filosofia (in particolare sul «realismo giuridico» della scuola di Uppsala); ma non c’è dubbio che sul piano politico e morale fu l’abdicazione del movimento operaio a permettere la vertiginosa e durevole affermazione del modello, i cui violenti risvolti si scaricarono, anche solo in termini di terrore, su coloro che non potevano o non volevano adeguarsi, che per palese demerito non erano accolti nella folkhem, in particolare quel 5-10% della popolazione costantemente a rischio di passare al vaglio dei medici degli enti preposti alla ‘devianza’, come quelli per l’assistenza all’infanzia e alla povertà. Tanto, per esempio, non fu possibile nella patria dell’eugenetica, l’Inghilterra, dove in quegli stessi anni «la direzione tecnocratica del Labour si era mobilitata, con argomenti analoghi a quelli utilizzati in Svezia, per “liquidare” con strumenti medici il carico imposto da malati e disadattati», ma si scontrò con l’irriducibile irragionevolezza della base, non disposta «ad accettare che i membri più indigenti della società fossero costretti a pagare, per la propria condizione, un conto più salato di quello che già pesava su di loro» (3, pp. 71,75).
Accompagnata da quella economica, la crisi demografica che all’inizio degli anni ’30 investì la Svezia – già colpita dalla massiccia emigrazione dei decenni precedenti e ormai al primo posto al mondo per denatalità – fece da volano ai nuovi attori dell’«ingegneria sociale», che non si lasciarono sfuggire l’opportunità di affrontare «razionalmente» il problema, cioè di usare ogni mezzo per incrementare le nascite in quei settori della società che assicuravano la «protezione della stirpe» e stroncarne invece il numero tra gli «inadatti». Dagli interventi dei deputati socialdemocratici nel dibattito parlamentare sulla legge del 1941 emerge senza reticenze chi fossero gli individui la cui vita era considerata indegna di essere pienamente vissuta, i «genitori indesiderabili», la zavorra della società perfetta:

[…] abbiamo constatato con desolazione che proprio coloro che hanno i peggiori requisiti per fornire alla società dei figli sani e capaci sono spaventosamente numerosi e detengono un elevato tasso di natalità. La nuova legge sul matrimonio impedisce ad alcune categorie di malati di contrarre matrimonio, ma non impedisce loro di mettere al mondo dei figli: cosa che purtroppo avviene spesso.

Io condivido il punto di vista della commissione, riguardo al fatto che una condotta di vita asociale si trova spesso in una certa relazione con disturbi mentali. Penso in modo particolare agli alcolizzati, ai vagabondi, agli zingari e ai delinquenti abituali: ma in queste categorie possono darsi casi di comportamento asociale senza che – almeno per i medici – sia possibile individuare segni di disturbo mentale. […] Io non capisco perché queste persone debbano mettere al mondo dei figli. Nelle città più grandi conosciamo bene quel tipo di asociale, che generazione dopo generazione vive da parassita sulla società. Persone di questo tipo hanno un sacro terrore per il lavoro, e cercano con ogni mezzo di farsi mantenere.

[…] gente che non si cura di lavorare, non si preoccupa di prendersi cura del proprio mantenimento né di quello dei bambini che ha messo al mondo […]. Per mio conto, io sono a favore della sterilizzazione forzata (1, pp. 335, 342 s.).

(1-CONTINUA)