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La società in mano ai medici (II parte)

di Roberto De Caro - 23/09/2006

LA SOCIETA' IN MANO AI MEDICI. Socialismo ed eugenetica nell'esperienza svedese 2/2

 

SveziaInfernoeParadiso2.jpgIn realtà non ci fu mai bisogno di introdurre clausole esplicitamente coercitive. Furono più che sufficienti da un lato l’elasticità con la quale si poteva essere giudicati «incapaci di intendere» – dopodiché la decisione passava ai medici –: «incapacità» che per maggior sicurezza, secondo «raccomandazioni» emanate nel 1947, era da riscontrare «automaticamente» in coloro che si rifiutavano all’intervento anche dopo che gliene fosse stata spiegata «l’utilità sociale»; dall’altro le armi di ricatto a disposizione dell’amministrazione: minaccia di revoca del sostegno economico, «condizione per consentire un matrimonio tra “minorati”», viatico al nullaosta per uscire da un istituto.

Impressionante in tal senso la modifica, nel 1938, della legge sull’aborto – «primo esito dell’incontro tra controllo della sessualità ed utopia d’ordine» –, che aggiungeva, vincolandola alla sterilizzazione, la motivazione eugenetica ai soli motivi per i quali era consentita l’interruzione di gravidanza: il rischio per la salute della donna e lo stupro. Il legislatore impose che sterilizzazione e aborto avvenissero nel corso della stessa seduta, quadruplicando il rischio di morte per la paziente (una cinquantina i decessi tra il 1935 e il 1951, ma la clausola fu rigorosamente applicata fino al 1964 e abrogata solo dieci anni dopo). Nulla convinse le autorità sanitarie a permettere interventi separati, poiché proprio la drammaticità della scelta consentiva di «mettere alla prova la serietà delle intenzioni della donna», come spiegò Nils von Hofsten, zoologo ed eugenista, membro del Rättpsykiatriska nämnden, il ‘Comitato di psichiatria criminale’, «tra i principali responsabili del vaglio delle domande di sterilizzazione» (3, pp. 110 ss., 134 n., 143).
Come sempre negli stermini della modernità, anche in Svezia i medici – in primis gli psichiatri – svolsero un ruolo di assoluto rilievo. Tuttavia è necessario rimarcare che il meccanismo di inclusione-esclusione, per quanto progettato dall’alto, si basava su un sistema sociale di vasi comunicanti, di entusiastica partecipazione popolare alla grande caccia al nemico interno, soprattutto alle nuove streghe. Fu così che su indicazione del maestro di scuola, del vicino di casa, di mariti, mogli e congiunti, del prete (figure, tra le altre, istituzionalmente abilitate alla delazione, come «chiunque» sapesse «qualcosa dell’interessato», secondo l’indicazione ufficiale di Medicinalstyrelsen, la «Direzione generale degli affari sanitari») nel paese «senza figli prediletti né figliastri» – come lo desiderava il padre della patria socialdemocratica, Per Albin Hansson – vennero mutilate in massa ragazze con l’accusa di «appartenere a una famiglia di zingari»; di restare «spesso a letto fino a tardi la mattina»; di consumare «chili di caramelle»; di preparare da mangiare ai bambini, ma di non essere «capace di tenere pulita la casa»; di mostrarsi «sessualmente vivace»; di avere «una mobilità molto rozza» e di parlare «volgarmente, con voce nasale e tono impertinente»; di essere «scura, tipico aspetto zingaro […] Tipica psicologia zingara: doppia, bugiarda e vigliacca». La seguente, esemplare scheda di richiesta d’intervento si riferisce ad una ragazza di 17 anni:

La nonna e il bisnonno paterno del paziente risultano essere stati dei ladri. Il padre viene descritto come di natura perfida e come uno «spostato». La madre è irragionevole e inaffidabile. Il paz. è il n. 1 di 4 figli. L’insegnante di catechismo ha descritto i due fratelli più giovani del paziente come minorati psichici, ma nello stesso tempo scaltri e ingegnosi.

E via delirando, sino al caso di Ellen, una sedicenne denunciata «dal parroco, dal maestro elementare e dai parenti», che non ebbe scampo perché l’autorità stabilì che «la prossimità di una caserma all’abitazione della paziente ne rende[va] consigliabile la sterilizzazione» (1, pp. 347 s.; 3, pp. 100, 112, 116).

Tra i più aggressivi alfieri del nuovo corso socialdemocratico vanno senz’altro annoverati i coniugi Alva e Gunnar Myrdal, entrambi futuri premi Nobel (per l’Economia lui, nel 1974, insieme a Friedrich August von Hayek, in virtù del previdente ecumenismo dei Reali Accademici, cui non sfuggì la comune passione degli opposti per la Ragione e la Legge; per la Pace lei, nel 1982). Sposati nel 1924, si recarono dapprima in Inghilterra e in Germania poi, tra 1929 e 1930, un anno negli Stati Uniti, come Rockefeller Fellows: un soggiorno importante per l’elaborazione delle loro future teorie.
Al ritorno in Svezia, culturalmente vicini ai circoli funzionalisti, si iscrissero al Partito Socialdemocratico, di cui subito divennero elementi di spicco. Gunnar, eletto alla Camera alta, guiderà il gruppo parlamentare dal 1935 al 1938. Nel 1934 pubblicano Kris i befolkningsfrågan, ‘La crisi nella questione demografica’, in cui «espongono il loro programma di politica sociale in chiave di rottura con i due approcci dominanti in quel settore: il lassez faire liberale e l’umanitarismo tradizionale, socialista e cristiano», dedicando un capitolo alle questioni eugenetiche – «Differenze qualitative tra le classi sociali». È a partire da qui «che si diffonde, in Svezia, il concetto di “materiale umano” (människomaterial) […]. Integrando, come emblema di distacco scientifico, un vocabolario derivato dalla versione più estrema del darwinismo sociale, quella tedesca, essi parleranno di individui più o meno “adatti all’esistenza”, di esseri “di valore inferiore”, di uomini “A” e “B”». Il saggio ebbe un enorme successo – in poco più di un anno si arrivò alla settima edizione, «con tirature degne della letteratura popolare» –, aprì ai Myrdal «la strada dell’impegno politico» e fu determinante per l’istituzione, nel 1935, della Commissione d’inchiesta sul problema demografico, che ebbe «l’incarico di progettare misure per risollevare la natalità, riprogrammare la politica sociale, diffondere il controllo delle nascite». Alcuni passi del libro (citati, oltre che da Colla, in uno studio di Luca Dotti, pp. 120 ss., di cui si parlerà più avanti) sono sufficienti a comprenderne il tenore:

una ragione di più per una politica di sterilizzazione condotta senza eccessivi riguardi risulta dal fatto, sottolineato dagli studiosi, che proprio le menomazioni mentali ereditarie si ritrovano spesso […] tra persone non ricoverate negli istituti, e che quindi hanno a disposizione una libertà di riprodursi non regolata né dalla razionalità, né dalla società. Soprattutto, la società ha interesse ad intromettersi nella libertà riproduttiva dei malati mentali da un punto di vista puramente economico. Incontriamo a tutto andare ampie covate di bambini nati da donne nubili imbecilli […] Che a un certo numero di questi individui venga impedito di nascere, costituirebbe in sé e per sé un notevole sollievo sociale.

I Myrdal quantificano gli «individui non completamente degni, che per le condizioni della società moderna hanno difficoltà a vivere e mantenersi»: sono un «decimo o addirittura [un] quinto della popolazione, che rischia di soccombere nella dura competizione per la concorrenza». Inoltre, siccome «lo sviluppo tecnico e tecnologico e di conseguenza l’uniformata organizzazione sociale della società tende ininterrottamente ad aumentare l’esigenza di intelligenza e di qualità», urgono misure drastiche. Se i più possono essere recuperati alla produzione tramite opportuni provvedimenti, per gli altri non c’è speranza, sono un peso morto:

ad un esame più dettagliato risulta però naturale la radicale eliminazione degli individui altamente superflui, effettuabile per mezzo della sterilizzazione. […] Una richiesta proveniente sia dal punto di vista social-pedagogico che eugenetico concerne l’avvio di un’applicazione legislativa la più severa possibile. Nei casi in cui la capacità di intendere e volere non può essere smentita, nonostante le condizioni per la sterilizzazione siano evidenti, i medici e le autorità sociali dovrebbero essere efficaci nell’indurre l’interessato a sottoporsi volontariamente alla sterilizzazione. Se questa pressione non risultasse in ogni modo effettiva, allora si dovrebbe considerare la possibilità di un rafforzamento della legge sulla sterilizzazione, includendo il diritto degli organi pubblici della società a sterilizzare pure individui capaci di intendere e di volere, contro la loro volontà.

Alva Myrdal, in un articolo, non mancò di pronunciarsi anche sulla questione dei tattare, come con disprezzo venivano chiamati gli appartenenti a «un gruppo seminomade di oscure origini (analogo ai travellers delle isole britanniche)». Si trattava di poche migliaia di individui in tutta la Svezia, cui si aggiungevano i nuovi esclusi dal ‘modello’, provenienti soprattutto dalle campagne, a causa del processo d’industrializzazione del lavoro agricolo che espelleva la manodopera in eccedenza. Erano poveri, e sufficientemente ‘diversi’ perché l’opinione pubblica potesse parlare di tattarplågan, ‘la piaga dei tattare’, in sinistra simmetria con la Zigeunerplage dei tedeschi:

Per alcuni gruppi, neppure un accesso gratuito all’informazione può essere considerato sufficiente, e questa deve esser loro imposta. Il discorso si applica a quei gruppi che forse si vorrebbe sterilizzare, ma che non rientrano nelle condizioni previste dalla legge sulla sterilizzazione – penso ad esempio ai tattare, molti dei quali sono semi-idioti, e altri palesemente inadatti come genitori.

In effetti, «gli eugenisti svedesi coltiveranno l’ipotesi di un collegamento tra lo stigma di tattare e un’origine etnica aliena, e cercheranno di promuoverne, negli anni Quaranta, la sterilizzazione in massa». Il problema fu demandato all’Istituto di Biologia razziale, che nel 1945 pubblicò un rapporto – rifiutato però dalle amministrazioni competenti – che sviluppava un’argomentazione squisitamente razzista:

Da un punto di vista teorico è interessante notare la relazione di sintonia tra tattare e svedesi per quanto concerne la costituzione fisica. Ciò non di meno si consideri che i tattare costituiscono un gruppo umano con un piccolo cervello ed una costituzione fisica cosiddetta astenica, con spalle strette.

Fortunatamente negli anni successivi studi linguistici ed analisi genealogiche stabilirono ufficialmente «l’infondatezza della presunta diversità ed inferiorità genetica» dei tattare, che finirono comunque per essere assimilati (3, pp. 51 s., 129, 140; Dotti, pp. 202 s.).

La Befolkningskommission lavorò sino al 1938. Il suo «cervello teorico era naturalmente Gunnar Myrdal» e Alva, «accesa promotrice delle soluzioni importate dagli USA», vi prese parte come esperta dell’infanzia, intervenendo anche in inchieste sull’educazione sessuale e sulla questione abitativa. I «verbali e rapporti» della Commissione «ci offrono il quadro più interessante dello spirito peculiare della politica sociale svedese delle origini», «il tema dell’estensione dell’attività di “igiene” biologica e di un ricorso più severo alla sterilizzazione sarà fin dall’inizio all’ordine del giorno» (1, p. 337; 3, p. 143). Da tali elaborazioni scaturirono le tre fondamentali leggi eugenetiche per la politica demografica: la legge sull’aborto del 1938, quella om sterilisering del 1941 e quella sulla castrazione del 1944, ancora vigente, tutte firmate da Gustav V, «per grazia di Dio, Re di Svezia, dei Goti e dei Vendi».
Il Rapporto Finale della Befolkningskommission, pur rifiutandone la connotazione «razziale», era assai elogiativo della coeva normativa tedesca: «Questa ideologia è, al di là di ogni giudizio, dal punto di vista storico una delle più rimarchevoli ideologie di politica demografica, fino ai nostri giorni», vi si leggeva. Gunnar Myrdal ne prese le distanze – privatamente però, in una lettera del 15 dicembre 1938 all’amica e collega di partito Disa Västberg, sottolineandone l’inopportunità politica – perché vi era «veramente troppo nel rapporto […] che noi socialdemocratici senza alcun dubbio non potremmo sottoscrivere […]. Puzza di nazismo da lontano, e la situazione in Svezia rende pericoloso che la socialdemocrazia non si ponga libera nel Rapporto da questa tendenza» (Dotti, p. 154). I socialdemocratici, che l’avevano promosso, ovviamente lo sottoscrissero.
Al contempo, la Carnegie Corporation of New York commissionò a Myrdal uno studio sulla condizione dei neri negli Stati Uniti. Al suo ritorno, nel 1942, l’economista si fece immediatamente rieleggere alla Camera alta e dal 1945 al 1947 ricoprì la carica di ministro del Commercio. Il 7 marzo 1946, l’impareggiabile Nils von Hofsten – in aggiunta ai titoli già elencati vicepresidente dell’Istituto di Biologia razziale, membro della direzione di Medicinalstyrelsen e rector magnificus dell’Università di Uppsala dal 1943 al 1947 – pronunciò un discorso alla radio svedese dal titolo False analogie, in cui esprimeva «la sua costernazione per l’alone di sospetto che la rivelazione dei crimini nazisti in Europa avrebbe gettato sulla responsabilità dell’eugenetica “democratica”»:

La scienza della razza è proprio pericolosa poiché fuorviante rispetto alla conoscenza scientifica, che è stata alterata e sostituita con false conclusioni in un odio politico di propaganda. Il fatto incontestabilmente corretto è che presso gli uomini esistono differenze razziali ereditarie […]. Le false teorie della razza sono nocive non solo per le gravi conseguenze tratte, ma anche per il rischio dello sviluppo della sfiducia e diffidenza nei confronti della vera ricerca razziale, dell’eugenetica e della biologia genetica umana [… In Svezia la sterilizzazione] si effettua da qualche anno in misura maggiore che in ogni altro paese al mondo. La nostra legge di sterilizzazione è molto differente da quella che i nazisti avevano in atto. Da un punto di vista fondamentale, i principi sono assolutamente gli opposti (3, p. 136; Dotti, pp. 220 s.).

Ma una siffatta impostazione non era più sostenibile sul piano internazionale. Si procedette quindi a «una veloce inversione di rotta» e innanzitutto al «prudente abbandono del lessico razzista da parte degli attori professionali». Nel frangente, «le istituzioni scientifiche svedesi si rivelarono di eccezionale tempismo, e nessun “taglio di teste” si rese necessario». Il maquillage si concluse quando nel 1950 l’ormai celebre Gunnar Myrdal e il socialdemocratico Gunnar Dahlberg, presidente dal 1936 dell’Istituto di Biologia razziale (che durante la guerra era «sorvegliato dai servizi segreti perché considerato un covo di filotedeschi» e che solo nel 1956 si trasformò nel più discreto Istituto di Biologia medica), vennero spediti in qualità di «esperti» alla sessione dell’Unesco che bandì per sempre «l’utilizzo scientifico e politico del concetto di razza» (c’è tuttavia chi non ne è stato informato: «È la sostanza della nostra civiltà. Il fascino dell’Europa sta nel mescolamento dei sangui che produce vita: le razze che non s’incrociano producono persone malate» – Massimo D’Alema, La Repubblica, 28 agosto 2005, in risposta simmetricamente razzista al razzismo del presidente del Senato Marcello Pera, che si era espresso ufficialmente contro «il meticciato»). Naturalmente «l’eredità intellettuale non si disperse: furono solo attenuate le voci più rumorose, mentre sul piano pratico la legislazione in vigore continuava a produrre i suoi effetti» (1, pp. 344 s.; 3, p. 113).

A giudicare da questi studi dunque, non apparirebbe lecito tacere o sottovalutare il ruolo avuto dai coniugi Gunnar e Alva Myrdal nel tentativo svedese di «pianificare fin nei suoi tratti biologici la società futura» e «immettere un principio d’ordine e di razionalità nel patrimonio genetico della nazione». In realtà «la mitizzazione dei campioni del welfare ha richiesto, tra l’altro, di gettare un colpo di spugna sugli aspetti più marcatamente repressivi dei loro propositi». A volte l’oblio omertoso è sfociato in aperta mistificazione: nel 1997 Brita Åkerman pubblicò a Stoccolma una monografia dedicata ad Alva Myrdal, nella quale definisce Kris i befolkningsfrågan «il più importante saggio svedese» del ’900.
La parola «sterilizzazione» compare solamente in «un passaggio, in cui si ricorda la “diffidenza” manifestata dai Myrdal e da Nils von Hofsten verso l’uso che gli eugenisti prospettavano di farne», senza peraltro accennare al fatto che i Myrdal e von Hofsten «propendevano per un uso della sterilizzazione più esteso di quanto non proponessero i fautori del razzismo più classico. Anche tra le “proposte concrete” contenute nel libro, l’introduzione di un programma di sterilizzazione non è citata, mentre viene sottolineata la proposta di “un assegno di maternità universale e incondizionato”» (1, p. 335; 3, pp. 119, 137 n.).
Pure chez nous c’è chi è corso ai ripari: un risentito Luigi Cavallaro (A testa bassa contro il welfare state, in il manifesto, 29 giugno 2005) recensisce severamente il pregevole contributo di Luca Dotti, L’utopia eugenetica del welfare state svedese (1934-1975). Il programma socialdemocratico di sterilizzazione, aborto e castrazione, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004 [ma 2005], rimproverandogli sia le «tirate melodrammatiche» (ma «la giovane età dell’autore rappresenta in questo senso un’attenuante»), sia soprattutto di aver messo «i Myrdal sul banco degli imputati», il che «certo» non serve a «fare un po’ di luce» sulla «tragica esperienza dell’eugenetica svedese», anche se, deve riconoscere, nel loro libro «si leggono affermazioni che ripugnano a una coscienza contemporanea (una per tutte: “consentire a dei genitori idioti di riprodursi, ci sembra un argomento indifendibile, da qualsiasi punto di vista”)», scordando però di completare la citazione: «Ogni caso è un caso di troppo» (i Myrdal pongono l’aggiunta tra virgolette, a sottolinearne l’importanza), e dimenticando anche, nel suo strisciante giustificazionismo, che i Myrdal sono contemporanei, come Picasso, l’atomica, il padre di Cavallaro e le vittime della sterilizzazione, che figli non hanno potuto avere.
Inoltre gli sorge il dubbio che Dotti, il quale ne denuncia il «costante, determinato ed ostinato appoggio alla tecnoscienza razionale eugenetica» (p. 40 n.), «abbia finito col confondere i coniugi Myrdal con Pol Pot, offrendo così un ottimo quanto (probabilmente) involontario argomento alle giaculatorie che vogliono ogni socialismo invariabilmente destinato al totalitarismo»: insomma, fa pure il gioco del nemico. Va osservato en passant che l’anfibologico argomento riduzionista suggerito – l’«Anno zero» dei Khmer Rossi come termine di paragone per i crimini sociali pianificati – lascia (forse involontariamente) un discreto margine di possibilità a ogni piccolo o medio sterminio futuro che voglia presentarsi come scienza. Per valutare la qualità delle critiche del recensore, se ne prenda «una per tutte»: «È dunque assai discutibile – se non proprio sbagliato – ritenere che l’istituzione nel 1935 della Commissione Demografica […] sia stata un effetto del loro libro». Ebbene, che le cose stessero così non è una «forzatura» di Dotti, ma testimonianza dello stesso Myrdal:

Alva Myrdal ed io scrivemmo nel 1934 un libro sulla politica demografica e della famiglia, il cui risultato fu la nomina di commissioni reali sulla popolazione in tutti i paesi scandinavi e in Gran Bretagna. Particolarmente in Svezia, esso inaugurò un’era di riforme sociali sistematicamente incentrate sul benessere dei figli e del nucleo familiare […] Tali riforme poterono essere invocate come «preventive» o «profilattiche», cioè intese a risparmiare all’individuo e alla società costi futuri, e/o ad accrescere la produttività futura (Gunnar Myrdal, senza rimorsi in «un volumetto […] surrogato delle memorie che non scriverò mai», Controcorrente: realtà di oggi e teorie di ieri, cit. in esergo, pp. 11, 46 s.).

Al volume di Dotti Cavallaro contrappone quello di Colla (che tra l’altro ha aiutato il giovane ricercatore nel suo lavoro, della cui importanza garantisce anche la supervisione di Maija Runcis, pioniera degli studi sul programma genocratico), in cui «l’essenziale è stato detto» e che sarebbe «esemplare soprattutto per la pacatezza della trattazione», alla quale il recensore pare tenere molto poiché, sostiene, «il compito dello storico non è dispensare giudizi morali, quanto piuttosto comprendere ciò che è accaduto e perché».
Se da una parte non si dice a chi spetterebbe tale compito e il motivo per cui sarebbe inibito agli storici una volta che abbiano compreso e spiegato agli altri «ciò che è accaduto e perché» (e infatti da Erodoto in poi gli storici non vi hanno mai rinunciato, lo volessero o no), dall’altra si lascia credere che Colla sia reticente nel denunciare il protagonismo dei Myrdal, il che è falso, visto che lo studioso riconosce nell’insigne economista il «principale ideologo della Commissione demografica»; inoltre non sfugge a Colla l’eccipiente essenziale del loro decotto riformista: «quando i socialisti lottano per gli interessi della moltitudine, essi non tengono conto delle reali aspirazioni degli individui, bensì di “ciò che essi ragionevolmente desidererebbero, se possedessero tutti gli elementi per giudicare correttamente”», scrive citando Gunnar (3, pp. 72, 142 n.). Ma dagli apprezzamenti di Cavallaro sembrerebbe anche che Colla abbia condotto la sua ricerca con il freddo distacco del chirurgo, il che è ingiusto. Dai suoi studi traspare indignazione e non c’è mai sospensione del giudizio, né morale né politico:

oggigiorno […] movimenti di pensiero sempre più pervasivi tendono ad equiparare il diritto di «non nascere» ed il «diritto di morire» a quello di usufruire di una pensione o della protezione sociale: qualora la possibilità di conformarsi ai canoni sociali di un’esistenza ‘sana’ non sembri assicurata in partenza, la vita stessa può venire equiparata ad un infortunio. […] nelle società/modello dell’egualitarismo elevato a ethos – la Scandinavia ed il Nuovo Mondo – il pensiero della responsabilità per l’altro ha potuto convivere con quello di una gerarchia, definitiva e spersonalizzante, tra gli individui, fino a privare l’essere umano (nel nome di un’umanità rigenerata) delle sue prerogative più intime […]. Essere, agli occhi del prossimo, ‘nient’altro che un uomo’ è una condizione che si apparenta, paradossalmente, a quella di un ‘sotto-uomo’: l’intera storia del XX secolo si presta ad essere riletta come la messa in scena di questa ambivalenza fondamentale del programma egualitario. E la minaccia dell’eliminazione fisica coinvolgerà tanto più facilmente chi ha già cessato di ‘esistere’ sul piano simbolico […].
Fra le caratteristiche ricorrenti delle retoriche che accompagnano le politiche di igiene biologica ‘negativa’, possiamo contare la tendenza ad ammantarla di metafore religiose ed a rappresentarla come un’estensione dell’‘amore per il prossimo’: una pratica che nobiliterebbe il sentimento che si esercita verso gli esseri umani concreti, allargandolo ad un universale astratto: «le generazioni future». L’impatto di questo ragionamento, a cui ricorsero tanto i dignitari nazisti quanto gli ‘eugenisti democratici’, non merita di esser sottovalutato: considerarlo come il semplice prodotto di ideologie sorpassate sarebbe imprudente
(3, pp. 15 s.).

No, caro Cavallaro, ora basta con gli omissis. Sono più che sufficienti quelli a tutto campo del professor Giovanni Sartori – senza attenuanti ereditarie, cronicamente affetto da anemia cognitiva –, che sul Corriere della Sera sentenzia: «non credo che nessuna democrazia consentirà mai una eugenetica atta a produrre la razza pura o la razza superiore. Se lo consentisse, allora il problema non sarebbe l’eugenetica ma la democrazia» (L’embrione, la persona e la ricerca scientifica, 11 giugno 2005).