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| ROMA. Uscirà sull’edizione di sabato prossimo del National Geographic, la testimonianza del giornalista David Edwing Duncan, che ha partecipato alla campagna Detox del Wwwf, sottoponendosi alle analisi del sangue per la ricerca dei residui di sostanze chimiche accumulate nel corso della sua vita. I risultati, neanche a dirlo, sono allarmanti come allarmanti sono le cifre che provengono dalle analisi degli alimenti che sempre il Wwf ha fatto in 7 paesi d’Europa, per mettere in evidenza il ruolo della catena alimentare riguardo al rischio chimico.
119 sono infatti le sostanze tossiche rintracciate, tra cui ftalati, pesticidi organoclurarati, PCB, disturbatori endocrini, sostanze accumulabili e persistenti: insomma un vero cocktail con cui ogni giorno della nostra vita, a partire dall’epoca fetale, il nostro organismo viene a contatto.
Attraverso i cibi che mangiamo, l’acqua o le bevande che beviamo, l’aria respirata e gli ambienti occupati o i prodotti cosiddetti “effimeri” come il profumo. Ma anche gli indumenti che indossiamo ogni giorno possono rivelarsi una minaccia.
Lo segnala un’altra ricerca condotta questa volta da un organismo impegnato a tutelare non proprio la salute, ma il marchio di qualità del tessile di Como, che ha fatto analizzare un campione di indumenti in seta prodotti in Cina e da cui è risultato che il 51% dei capi analizzati non era conforme alle prescrizioni legislative, per la presenza di sostanze tossiche.
La ricerca fa il paio con quella presentata a Bruxelles dall’organo delle camere di commercio italiane per la moda, l’Italian Textile fashion, che lancia l’allarme sulla evasione delle regole dei capi importati da paesi extra-europei. La ricerca rivela che oltre la metà dei capi di abbigliamento venduti in Europa non rispetta le norme europee sulla composizione del tessuto; un terzo non riporta la provenienza sull’etichetta e uno su dieci contiene addirittura ammine aromatiche, ovvero una sostanza cancerogena.
La ricerca non parla della provenienza di questi capi, ma l’articolo allude al fatto che gran parte dell’import tessile non identificato proviene dall’India e dalla Cina. Ovvero i due paesi emergenti, principali produttori di merce low-cost, che tanta paura fa alle economie dei paesi sviluppati.
I dati economici che riguardano la Cina e il resto dei paesi asiatici emergenti, sono in effetti strabilianti: l’economia ha fatto passi da gigante in pochissimo tempo e ha raggiunto la metà della produzione industriale a livello mondiale. Solo tra il 2002 e il 2004 gli scambi commerciali della Cina con il resto del mondo sono quasi raddoppiati e gli scambi dell’intera Asia sono aumentati del 48%, a fronte della crescita del commercio mondiale del 40%.
Nell’abbigliamento la quota del commercio cinese ha raggiunto ormai il valore dell’intera Unione Europea. Ma se è vero che questa improvvisa rivoluzione economica della Cina in particolare, ma dei paesi asiatici in generale, ha comportato una riduzione della povertà per milioni di persone, è anche vero che è avvenuta in maniera non proprio sostenibile, a partire da quelle stesse popolazioni.
In Cina e in molti degli altri paesi cosiddetti emergenti non esistono regolamentazioni sociali in grado di tutelare i lavori su parametri sindacali, di sicurezza, di protezione sociale. E nemmeno regolamentazioni ambientali, o quantomeno comparabili con quelle che esistono nei paesi verso cui esportano gran parte dei loro prodotti.
A tutto questo va aggiunto che la crescita economica di questi paesi ha determinato un forte aumento dei consumi energetici, con un ulteriore aggravio del bilancio delle emissioni di CO2 a scala globale. Ma allora posiamo davvero definire questi prodotti low cost? | |