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Iraq. Il diktat è occupare

di Antonella Vicini - 27/09/2006


Tra proclami di una presunta indipendenza e annunci di prossima pacificazione, i reali progetti per il nuovo Iraq occupato si stanno facendo man mano chiari tra i vertici del governo fantoccio iracheno e burattinai Oltreoceano. Se nei giorni scorsi il capo del comando centrale degli Stati Uniti e comandante delle operazioni militari, John Abizaid, ha esplicitato le intenzioni statunitensi di prolungare la propria presenza nel Paese, almeno fino alla primavera, ieri il presidente curdo-iracheno Jalal Talabani ha dato nuovo vigore alle precedenti affermazioni confermando la necessità di prolungare la presenza dei militari americani in Iraq. Nel corso di un’intervista al ‘Washington Post’, Talabani ha parlato di “una presenza anche simbolica”, a lungo termine, per “spaventare chi sta cercando di interferire nei nostri affari”, specificando che l’entità di questa “presenza simbolica” dovrebbe aggirarsi attorno ai 10mila uomini e alle due basi militari.
“Credo che avremo bisogno di forze americane per un lungo periodo – ha spiegato – e anche di due basi militari per prevenire interferenze straniere”. Il riferimento implicito è divenuto esplicito successivamente: “i sunniti stanno cominciando a cambiare idea e pensano che il pericolo maggiore ora venga dall’Iran”.
Una stoccatina ad hoc, diretta alla Nazione che più di tutte la altre rappresenta un ostacolo ai piani statunitensi per il ‘nuovo Medio Oriente’, che, però, va nella direzione opposta dei numerosi segnali di distensione abbozzati negli ultimi tempi da Teheran e Baghdad. Ma forse è proprio questo possibile avvicinamento che ha disturbato Washington, rendendo necessaria la nuova professione di fede.
“Il Kurdistan vuole che gli americani rimangano. In alcuni posti i sunniti vogliono che gli americani rimangano […] Io non chiedo di avere centomila soldati americani, diecimila soldati […]. Questo sarebbe nell'interesse del popolo iracheno”, ha infatti sottolineato.
Quello che si profila, dunque, è l’attuazione del solito modello marchiato Usa, consistente in guerra, occupazione e stanziamento sul territorio per continuare a controllare e gestire i propri interessi in loco, da una posizione strategica, come quella del Kurdistan iracheno, ad esempio.
Per quanto riguarda l’attuale presenza americana, Talabani ha ribadito che “sarà necessaria fino a quando non avremo addestrato il nostro esercito e saremo in grado di sconfiggere il terrorismo”, obiettivo che potrà essere raggiunto “nei prossimi due anni”. Affermazioni in linea con quelle di Abizaid che, mercoledì scorso, aveva focalizzato l’attenzione proprio sulla debolezza delle forze irachene, per cui si richiedeva di prolungare la loro presenza sul territorio.
L’identità di intenti e di vedute tra burattini e burattinai segna un’identificazione totale tra le parti, prova anche come l’amministrazione Bush abbia lavorato bene per fare sì che ci fossero gli uomini giusti al posto giusto.
Alla luce di questa nuova sortita, le rivelazione di qualche giorno fa della ‘Bbc’, secondo cui esperti israeliani avrebbero addestrato le milizie irregolari del Kurdistan iracheno, acquistano nuova concretezza, dando ragione ai timori di chi crede che, oltre che dalla presenza delle truppe di occupazione straniere, una delle maggiori minacce alla stabilità e all’unità dell’Iraq provenga proprio dai progetti della componente curda, nonostante l’ostentata unità interna che si cerca di esibire.
Nel corso dell’intervista al quotidiano newyorchese, Talabani ha cercato infatti di rassicurare sulla futura divisione del Paese. “L’Iraq rimarrà unito, avremo un Iraq unito e federale. I curdi stanno lottando per l’unità del Paese, e lo stesso fanno sciiti e sunniti. Vi sono differenze tra di loro che devono essere risolte, ma non con la divisione del Paese”.
La retorica del presidente iracheno comunque non convince né riesce a fugare i dubbi su quella che sarà la reale disgregazione dell’Iraq. Una nazione spaccata è una nazione più fragile e più controllabile, e questo farà il gioco di chi ha tutto gli interessi nel mantenere la regione instabile e dipendente.
Per il momento, tuttavia, il progetto federalista dovrà cedere il passo a questioni più urgenti e attendere almeno fino al 2008. Domenica sera, infatti, è stata siglata un’intesa tra i leader politici iracheni che hanno concordato di rinviare per 18 mesi l’entrata in vigore di ogni legge sul federalismo. Nel frattempo una commissione parlamentare di 27 membri sarà incaricata di studiare eventuali emendamenti alla Costituzione. In questo periodo si tenterà di far coincidere gli interessi in gioco, anche se l’impresa appare di difficile realizzazione soprattutto perché sarà una sola parte, cioè i sunniti, a fare le spese di ciò che avverrà.
Al centro della controversia, infatti, vi è la proposta del principale partito sciita, il Consiglio supremo della rivoluzione islamica in Iraq (Sciiri), guidato da Abdul Aziz al Hakim, di creare un’area autonoma sciita nelle nove province meridionali simile a quella dei curdi nel nord. I sunniti si oppongono perché a loro rimarrebbe la parte centrale, più piccola e priva di petrolio. Anche parte degli sciiti, laici e esponenti di partiti minori, è contraria ad una simile ripartizione che darebbe un’enorme potere allo Sciiri. Ad una megaregione sciita preferirebbe, invece, una serie di piccole regione autonome.
Sunniti e sciiti laici sono riusciti a bloccare tre settimane fa il progetto dello Sciiri in parlamento, che ovviamente ha il sostegno dei curdi. Ora, in base all’accordo raggiunto, il progetto verrà discusso in aula entro il 22 ottobre, data limite fissata dalla costituzione per definire i termini del federalismo, e, in ogni caso, una volta approvato, la nuova legge sul federalismo sarà in vigore dal 2008.