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La delusione globale

di John Gray - 03/10/2006


 
 
   


Nei due secoli precedenti, i principali teorici sociali ipotizzavano che l’evoluzione del mondo moderno avrebbe portato ad un solo risultato possibile. Nel XIX° secolo, Karl Marx, Herbert Spencer e Auguste Comte affermarono che lo sviluppo scientifico e tecnologico ci stava conducendo verso un unico tipo di organizzazione della società e, a meno che le comunità moderne non fossero regredite ad uno stadio primitivo, questa organizzazione sarebbe per forza confluita in un sistema globale. C’era però forte disaccordo sulla natura del sistema che si apprestava a manifestarsi: secondo Comte sarebbe stato una sorta di “tecnocrazia”, Marx se lo immaginava come un comunismo egualitario mentre per Spencer avrebbe prevalso un capitalismo “laissez-faire”; in tutti e tre i casi si pensava ad una società industriale che avrebbe permesso di superare la scarsità di beni primari.

Nonostante le loro idee politiche completamente differenti, questi grandi pensatori erano d’accordo nel supporre che, con l’avvento dell’industrializzazione, la prosperità sarebbe stata alla portata di tutti. Una volta raggiunta questa situazione le guerre sarebbero cessate ed un sistema economico universale avrebbe preso il posto dei contradditori regimi del passato.

Anche il pensiero di molti teorici sociali del ventesimo secolo venne influenzato da queste convinzioni. Negli anni ’30, F.A. Hayek rispolverò una versione della teoria di Spencer sul libero mercato come capolinea dell’evoluzione sociale, mentre Sidney e Beatrice Webb credevano che una precoce visione della società universale del futuro fosse rappresentata dall’Unione Sovietica. Negli anni Sessanta i teorici della “fine della ideologia”, ad esempio Daniel Bell, previdero che le economie centralizzate e le ricche società capitaliste occidentali sarebbero confluite in una sorta di economia manageriale mista. Verso la fine del secolo si sviluppò l’idea di “capitalismo democratico” verso il quale tutte le società del mondo avrebbero virato.

Attualmente nessuna di queste ipotesi è stata confermata dai fatti. L’industrializzazione si sta diffondendo ovunque ma con velocità e conseguenze molto diverse da zona a zona, e, come in passato, le società si stanno sviluppando in modo assolutamente non omogeneo. In alcune aree del globo lo stato di diritto è crollato ed è stato rimpiazzato dall’anarchia, mentre in altre i regimi autoritari rimangono ben saldi al potere. L’ex Unione Sovietica si è avvicinata più al terzo mondo che al ricco Occidente e la forma di governo non si è evoluta in una democrazia liberale bensì in una sorta di versione iper-moderna del tradizionale autoritarismo russo.

Alcune varianti di democrazia liberale stanno nascendo in alcune aree dell’ex blocco sovietico, mentre in Iraq la democrazia sta dando vita ad una specie di teocrazia elettiva non molto diversa dal governo iraniano. La Cina ha abbandonato la pianificazione centrale dell’economia in favore di un capitalismo di stato strettamente legato al nazionalismo. Alcune nazioni stanno attuando importanti riforme in direzione del libero mercato, altre si muovono in senso opposto. L’Europa ha optato per una combinazione di democrazia sociale e sistema economico neoliberista, mentre gli USA (sotto l’amministrazione Bush) hanno puntato su un mix di protezionismo, un deficit federale insostenibile e capitalismo da amici.

Sebbene i diversi tipi di società attuali siano in continua interazione tra di essi, questo processo sta producendo una serie di forme di governo ibride piuttosto che una convergenza verso un unico modello. I più importanti sociologi e commentatori internazionali sono tuttora convinti che un modello universale di società stia emergendo per poi caratterizzare l’attuale situazione, e viene anche dato per scontato che l’industrializzazione permetterà di esportare ovunque lo stile di vita occidentale.
La convinzione che avvenga questa convergenza è palese nelle teorie riguardanti la globalizzazione. In “The Borderless World” del 1990, l’autorevole teorico dell’amministrazione, Kenichi Ohmae, dichiarò:

[L’economia globale] sta diventando così potente da inghiottire la maggior parte dei consumatori e delle imprese, ha fatto ormai sparire i tradizionali confini tra le nazioni e ha trasformato burocrati, politici e militari in figure ormai in declino. [1]

Il lavoro di Ohmae incarna ciò che può essere definito “modello utopistico e affaristico della globalizzazione”, ma l’idea che i sistemi nazionali di governo stiano diventando sempre più marginali è condivisa anche dai teorici del governo cosmopolita, convinti che nuove e potenti istituzioni sovranazionali stiano emergendo – un punto di vista non meno irreale. Analogamente i movimenti anti-capitalisti partono dalla premessa che i differenti modelli di sviluppo presenti nel passato sono stati sostituiti da un nuovo e repressivo sistema globale. I fautori della globalizzazione e molti tra i suoi critici sostengono che essa crei condizioni di vita simili ovunque si diffonda. Entrambi questi schieramenti, sia che la accolgano o la respingano, convengono che il mercato globale sta obbligando le diverse società a seguire la stessa via di sviluppo.

Nel libro “Globalization and Its Enemies” Daniel Cohen, professore di economia alla Scuola Normale Superiore di Parigi, fornisce un rinfrescante antidoto ad alcune delle più fuorvianti opinioni generali sopradescritte. Il punto da cui parte è l’apparente affermazione paradossale che la globalizzazione, per la maggior parte dei popoli del mondo, non è una realtà, bensì un miraggio. Per come la vede Cohen, l’attuale ondata di globalizzazione – la terza dopo quella dei Conquistadores nel XVI secolo e il libero commercio nell’impero Britannico del XIX° secolo – avviene nel regno della realtà virtuale e lascia la vita di tutti i giorni praticamente indenne. La globalizzazione del XIX° secolo implicava movimenti di popolazioni su vasta scala verso nuove terre, mentre nella fase attuale questo processo coinvolge principalmente merci ed immagini.

La globalizzazione di oggi” osserva Cohen “è ‘immobile’”. Le merci vengono prodotte e commercializzate su scala mondiale ma chi vive nei paesi più ricchi incontra le altre società principalmente per mezzo di televisioni e vacanze esotiche. Ci sono migrazioni politicamente controverse di poveri dal Medio Oriente e dall’Africa verso l’Europa e dal Messico verso gli Stati Uniti, ma gli immigrati rappresentano ora solo il 3% della popolazione mondiale odierna mentre nel 1913 era circa del 10%. Il commercio si è sviluppato moltissimo negli ultimi 30 anni ma la parte più consistente avviene comunque tra le nazioni più ricche. I 15 membri storici dell’Unione Europea realizzano da soli il 40% del commercio mondiale, e i due terzi delle loro importazioni e esportazioni avvengono all’interno dell’Europa stessa. Per Cohen dunque “la globalizzazione nelle nazioni ricche è in gran parte immaginaria.

La convinzione che la globalizzazione finanziaria stia sostenendo lo sviluppo economico dei paesi più poveri è altrettanto ingannevole. I mercati finanziari globali hanno pochi incentivi per aiutare i paesi del terzo mondo a diventare produttivi su scala mondiale. Può essere remunerativo informatizzare un negozio di alimentari a New York, ma nel Lagos i clienti sono troppo poveri per pagare i costi di un investimento di questo tipo. La conseguenza è che la tecnologia è diffusa in modo non uniforme e il povero è destinato a rimanere povero.

Comunque la causa di questa situazione non è il fatto che le nazioni ricche vittimizzano quelle povere. Spesso si dà la colpa dell’indigenza dei paesi in via di sviluppo ai loro rapporti commerciali non equi con gli stati più potenti, e non ci sono dubbi sul fatto che le politiche protezioniste (soprattutto nell’agricoltura) degli USA e dell’Unione Europea abbiano fortemente svantaggiato il Terzo Mondo. Cohen sostiene invece che il commercio globale non sia così iniquo come si è soliti pensare. La principale causa del mancato sviluppo dei paesi poveri è che essi hanno poco di quello che i paesi ricchi vogliono o hanno necessità.

Per capire la globalizzazione moderna” osserva seccamente Cohen “occorre liberarsi dal preconcetto che i poveri vengano limitati e sfruttati dalla globalizzazione stessa”. Le zone povere del mondo non sono di certo più sfruttate di quanto siano trascurate e dimenticate. Contemporaneamente i giornali e la televisione li sommergono di immagini di ricchezze che non hanno, e quindi per loro la globalizzazione non è un qualcosa di già compiuto, ma piuttosto una condizione che deve ancora essere raggiunta. L’ironia dell’attuale fase della globalizzazione è che essa universalizza la domanda di condizioni di vita migliori senza però fornire i mezzi per soddisfarla.

Globalization and Its Enemies è una delle inchieste sul tema “globalizzazione” più originali ed incisive che io abbia visto fin’ora. Chiunque abbia letto e capito questo libro non può continuare a credere che l’attuale fase di questo complesso e discontinuo processo ci stia portando ad un pacifico ed utopico mercato universale; e non potrà neppure accettare la semplicistica narrativa dei movimenti anti-capitalisti per cui il sottosviluppo di determinate aree è una conseguenza del benessere delle nazioni avanzate. C’è più saggezza nel piccolo libro di Cohen che in dozzine di volumi ben più pesanti; ma nella sua analisi ci sono anche delle lacune sconcertanti.

Cohen è di certo molto più consapevole di altri economisti del ruolo che gioca l’ambiente in cui avviene la produzione industriale. Globalization and Its Enemies contiene delle argomentazioni affascinanti sui modi in cui le condizioni climatiche e geografiche favoriscono o ritardano le sviluppo economico, e sull’importanza della crescita demografica. Cohen segnala, per esempio, il rapporto peggiorativo tra il forte aumento della popolazione e la terra coltivabile disponibile. Nel 1913 l’Egitto aveva solo 13 milioni di abitanti, oggi ne conta 70 milioni e nel 2025 diverranno probabilmente più di 100; ma solo il 4% della terra egiziana è coltivabile.

E’ sorprendente come Cohen dedichi pochissima attenzione ai limiti ecologici della globalizzazione; solo in qualche digressione egli ammette che l’equilibrio ecologico del pianeta è minacciato dall’attuale situazione. “Non si può andare avanti per molto”, osserva “lasciando alla regolamentazione privata problemi come riscaldamento globale, buco dell’ozono o l’estinzione di specie animali e vegetali.” Però Cohen sembra non comprendere pienamente che l’instabilità ecologica è parte integrante di un grande cambiamento economico già in atto. Ad esempio, la Cina sta affrontando la più imponente e rapida industrializzazione della storia, e allo stesso tempo si trova ad affrontare livelli di inquinamento mai visti prima d’ora. Le crisi ambientali e l’attuale stadio della globalizzazione non sono altro che due facce della stessa medaglia.

Cohen afferma che lo stato attuale dell’economia mondiale comporta un passaggio da un’economia industriale ad una di tipo post-industriale: infatti, sebbene l’80% del commercio globale riguardi prodotti agricoli od industriali, i settori primario e secondario danno lavoro solo a circa il 20% della popolazione attiva nei paesi sviluppati, con il restante 80% appannaggio del terziario. Per i paesi in via di sviluppo questa non è altro che una nuova fase del processo mondiale d’industrializzazione cominciato qualche secolo fa. I disastri ambientali a cui stiamo assistendo in questi anni sono un sottoprodotto di questo processo, sia nelle nazioni ricche che in quelle povere.

Non c’è alcun dubbio che il riscaldamento globale in atto sul nostro pianeta sia un effetto collaterale dell’uso massiccio di combustibili fossili; l’estrazione e il consumo di idrocarburi sono andati a braccetto con l’industrializzazione ed è tuttora così, ma sono anche la principale causa del surriscaldamento della Terra. C’è una chiara relazione tra l’industrializzazione degli ultimi 150 anni e l’aumento dei gas serra, l’unica cosa non certa sono le stime riguardo a quando i cambiamenti climatici cominceranno a distruggere la civiltà industriale che si è diffusa, in forme diverse, nella maggior parte del mondo. Lo studio del rapido scioglimento della calotta polare dell’Antartico o le previsioni sempre più allarmiste dell’ IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Ch’ange) suggeriscono che ci troviamo di fronte ad un grosso cambiamento climatico con gravi conseguenze sul modo in cui viviamo. E’ facile rigettare queste previsioni di future catastrofi climatiche come fossero disfattismi apocalittici, e lasciare che tutto vada avanti così. Ci sono sempre più prove riguardo un rischio sempre maggiore di assistere ad un repentino sconvolgimento climatico a cui seguirebbe un innalzamento di oceani e mari che sommergerebbe diverse città costiere e danneggerebbe ampie aree di terra coltivabile; in questa situazione ci sarebbero dei gravi conflitti per accaparrarsi risorse sempre più scarse (cibo, acqua e fonti energetiche) oltre ad un massiccio esodo dalle zone allagate e dunque non più abitabili.

Fino a qualche tempo fa questi erano gli scenari più pessimistici. Quando un’analisi sulle conseguenze di un brusco cambiamento climatico, commissionata dal Pentagono nell’ottobre 2003, trapelò sulla stampa inglese, venne censurata in quanto basata su supposizioni irragionevoli e pessimistiche sulla portata di queste alterazioni metereologiche. [2] Questo studio ipotizzava una consistente riduzione della capacità del nostro pianeta di dare sostegno all’attuale popolazione, situazione che scatenerebbe violente guerre per accaparrarsi le risorse disponibili, e dunque questa problematica andrebbe trattata come se fosse una minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Entrambe le analisi vennero subito archiviate dall’amministrazione Bush. Un paio d’anni dopo, in seguito a nuove ricerche scientifiche sulla stessa lunghezza d’onda di quella commissionata dal Pentagono, continuano a sembrare sempre più realistiche le previsioni di un collasso economico su larga scala e di conflitti geopolitici sempre più numerosi. [3]

Il riscaldamento globale a cui stiamo assistendo non è altro che un sottoprodotto della globalizzazione, così come la spietata concorrenza tra gli stati per il controllo delle risorse naturali. Un’industrializzazione sempre più sviluppata significa maggiori emissioni di gas da centrali energetiche e automobili, e anche maggiore competizione per accaparrarsi i combustibili fossili che rendono possibile l’industrializzazione stessa. Cohen scrive che fino alla Prima Guerra Mondiale i paesi industrializzati producevano la maggior parte del proprio fabbisogno di materie prime e, fino agli anni Trenta, erano più o meno autosufficienti in campo energetico. “E’ stato esclusivamente a causa del petrolio del Medio Oriente nel secondo dopoguerra che questa situazione si è rovesciata”. Questo è un serio ammonimento. La Guerra del Golfo del 1990-1991 ha inequivocabilmente dimostrato quanto continui ad essere cruciale il ruolo giocato dal petrolio mediorientale nell’economia globale. Nonostante alcuni paesi stiano sviluppando un mix più ampio di risorse energetiche, le società industriali in ogni parte del mondo dipendono strettamente dalle riserve in esaurimento di petrolio e gas naturale.

La domanda per queste risorse non rinnovabili continua inesorabilmente a crescere man mano che la globalizzazione si diffonde in Cina, India ed in altre zone; i diversi stati sono ora in competizione per ottenere delle risorse che scarseggiano sempre più. Nel diciannovesimo e ventesimo secolo gli economisti e i teorici sociali profetizzavano un nuovo sistema globale in cui, proprio grazie all’industrializzazione, non sarebbe più esistita la scarsità di beni primari. Ed invece l’industrializzazione su scala mondiale sta riproponendo i conflitti per le risorse tipici del passato, ma di dimensioni molto maggiori.

La diminuzione degli approvvigionamenti di energia assieme all’accelerazione dei cambiamenti climatici sono l’altra faccia della globalizzazione. Questa analisi pone un grosso punto di domanda sulla convinzione di Cohen per cui il principale problema della globalizzazione è che non è ancora completa, in quanto potrebbe non esserci il tempo per raggiungere questo stadio. L’attuale fase è solo l’estensione su scala mondiale della rivoluzione industriale cominciata in Inghilterra un paio di secoli fa, ma sta già destabilizzando il sistema ambientale da cui l’intera società dipende. Esportare lo stile di vita delle nazioni ricche (dispendioso in termini di consumo energetico) al resto dell’umanità potrebbe avere effetti ancora più disastrosi.

Allo stesso tempo (contrariamente a ciò che pensano alcuni teorici anti-globalizzazione) la prospettiva che l’umanità opti per ritornare ad uno stile di vita pre-industriale è inverosimile in quanto una scelta del genere andrebbe contro le aspirazioni di miliardi di persone, e l’industrializzazione in Cina ed India ha una forza talmente dirompente che nessun governo potrebbe contrastare. In ogni caso è improbabile che una popolazione di otto o nove miliardi di persone (la proiezione più comunemente accettata per il 2050) possa sopravvivere con tecnologie pre-industriali. L’attuale popolazione del pianeta potrebbe per un po’ di tempo trovare sostentamento, in questo modo, solo divorando ciò che rimane della natura, destabilizzando ancora di più la situazione climatica odierna.

La crisi ambientale potrebbe anche far deragliare l’attuale processo di globalizzazione; se c’è una via d’uscita da questo problema la si dovrà trovare nell’uso intelligente di scienza e tecnica per poter sviluppare fonti energetiche meno pericolose. E’ comunque un errore pensare che sarà possibile evitare grossi cambiamenti nel nostro stile di vita. Ormai non è più possibile prevenire questi mutamenti atmosferici, al massimo riusciremo a mitigarli, ma qualsiasi cosa verrà fatta per contrastarli di sicuro causerà spaccature e conflitti a livello mondiale. La caratteristica tipica dell’industrializzazione che si sta diffondendo ovunque è la crescita esponenziale, ma col passare del tempo questa crescita è inesorabilmente destinata a diminuire.

L’analisi di Cohen è piacevolmente eretica anche se poi, come quasi tutti gli economisti, si oppone alle conclusioni precedentemente descritte. Egli distingue due tipi di crescita economica: quella di stampo “smithiano” che riflette la visione di Alan Smith espressa in The Wealth of Nations in cui la crescita si realizza tramite la divisione del lavoro; il secondo modello si rifà a Schumpeter per cui la crescita economica è spinta da continue innovazioni tecnologiche. Cohen sostiene, in un inaspettato sconfinamento nell’ortodossia economica, che mentre il primo tipo di crescita prima o poi si esaurisce, “la variante ‘Schumpeteriana’ è a priori senza limiti”.

Nonostante questi due tipi di crescita differiscono per importanti aspetti, entrambe sono similari per quanto riguarda la grossa quantità di energia di cui necessitano, energia che, allo stato attuale, può solo essere prodotta da petrolio e derivati - quindi risorse che non sono rinnovabili e il cui utilizzo in quantità elevate ha come conseguenza l’emissione di gas serra). (L’uso della fusione nucleare per produrre energia eviterebbe queste problematiche, ma pare che questa tecnologia non verrà implementata presto, e comunque non fermerebbe i cambiamenti climatici che sono già in corso). Un’economia basata sulle innovazioni tecnologiche è sicuramente più adatta a rispondere a queste sfide ma di certo non può essere scissa dall’ambiente fisico del nostro pianeta. Entrambe le varianti di crescita economica dipendono da grosse risorse energetiche deperibili e dovranno fronteggiare la reazione violenta del cambiamento climatico. L’ironia della globalizzazione è molto più sottile di come Cohen l’ha percepita: non solo, al momento, è più immaginaria che reale, ma sarà impossibile portarla a termine.

2.

Una delle tante qualità del libro How We Compete scritto da Suzanne Berger è il suo sano scetticismo verso l’idea che diversi modelli di sviluppo economico finiscono con il convergere. Berger sostiene ci sia un ampio accordo su quali siano le principali forze che spingono verso la globalizzazione:

una forte liberalizzazione del commercio e dei flussi di capitale; deregolamentazione; la diminuzione dei costi dei trasporti e delle tecnologie per la comunicazione; una rivoluzione tecnologico-informativa che rende possibile digitalizzare i confini tra design, produzione e marketing, e permette di collocare queste funzioni in luoghi diversi; e la disponibilità di numerosi lavoratori e tecnici in paesi in cui gli stipendi sono bassi.

I modelli di convergenza presuppongono che una volta che la globalizzazione è a posto, le imprese hanno un solo modo per adattarsi: quello di adottare le stesse pratiche di mercato. Da questo punto di vista, la globalizzazione è un processo di auto-rafforzamento. Ma, come ci fa notare Berger, questa non è una teoria confermata dalla storia. L’economia globale che esisteva prima della Prima Guerra Mondiale era per certi aspetti più aperta e senza frontiere di quella odierna; nonostante ciò essa collassò e, grazie ad un processo culminato negli USA con la legge Smoot-Hawley sui dazi doganali nel 1930, venne rimpiazzata da economie chiuse e semi-autarchiche tipiche del periodo tra le due guerre mondiali. Non importa quanto la globalizzazione sembri radicata, essa non è mai irreversibile. Tutt’altro, col passare del tempo i suoi effetti disgreganti tendono a concludersi in una deglobalizzazione.

I modelli più comuni presuppongono che “globalizzazione” significhi imporre a tutti un unico modo di fare affari, situazione però non confermata dallo studio di Suzanne Berger su molte imprese in diverse parti del mondo; secondo Berger l’opinione comune è che “la globalizzazione obblighi tutti a seguire lo stesso percorso. Ma il nostro gruppo di ricerca ha osservato dinamiche completamente diverse.” Basandosi su uno studio della durata di 5 anni, effettuato dall’Industrial Performance Center del Massachussets Institute of Technology, Berger fornisce un’enorme quantità di prove sulla diversificazione strategica adottata da 500 compagnie multinazionali per sopravvivere e prosperare nel mercato globale. Il risultato è un’illuminante analisi che esplora le numerose e diversissime modalità in cui le grosse imprese rispondono positivamente alla competizione globale. Dell, produttore di personal computer, è fortemente focalizzata sulla distribuzione, delocalizzando completamente (ad esempio in India) la produzione di tutti i componenti; Samsung, al contrario, produce da sé praticamente tutto. Ebbene, nonostante queste grosse differenze, entrambe le compagnie sono in forte crescita e producono lucrosi utili. General Motors, invece, sta trovando difficoltà ad adeguarsi all’elevato costo della mano d’opera, mentre Toyota, che ha mantenuto la produzione nel proprio paese o in altri paesi avanzati, sta avendo successo. Di fronte alle stesse sfide, dunque, le multinazionali possono prosperare o fallire in molti modi diversi.

Dedicando una parte significativa della sua analisi ai dilemmi che circondano l’outsourcing [4], Berger conclude che la minaccia di una perdita di posti di lavoro negli Stati Uniti è almeno parzialmente reale. Molti economisti sostengono che i vecchi posti di lavoro persi vengono automaticamente rimpiazzati da nuove industrie e tecnologie. Berger non rifiuta del tutto questa opinione ma suggerisce che l’esperienza di coloro che sono stati licenziati e non riescono a trovare un nuovo lavoro senza accettare una considerevole riduzione dello stipendio, potrebbero mostrare un trend che gli economisti tradizionali non hanno considerato: “Dopo aver gridato spessissimo ‘Al lupo al lupo’, forse i pessimisti riguardo innovazione tecnologica e lavoro questa volta ci hanno azzeccato.” L’outsourcing [4] rappresenta un rischio reale per i lavoratori, ma Berger è convinta che una “corsa verso il basso” può essere evitata se le imprese si rendono conto che il lavoro sottopagato non è la strategia più efficiente per competere a livello globale. Le attività che perdurano nel tempo sono caratterizzate da condizioni che non possono essere rispettate dalle imprese la cui risorsa principale è il lavoro sottopagato: ad esempio relazioni durature con clienti e fornitori oppure il lavoro specializzato. Una politica di riduzione salariale non è la ricetta adatta per ottenere buoni risultati nel lungo termine.

Per Berger è chiaro che le necessarie modifiche a questo sistema non possono essere fatte dalle multinazionali stesse, i governi devono giocare un ruolo primario nel creare un ambiente in cui le imprese possano fare progetti per il futuro ed il modo in cui essi debbano comportarsi a riguardo dipende molto dal tipo di capitalismo che si trovano a fronteggiare. In effetti ne esistono diverse versioni, come spiega l’autrice in una lucida dissertazione, ognuna delle quali riflette particolari tradizioni culturali o sistemi politici; all’interno di questa ampia varietà possiamo distinguere due grosse categorie di economia di mercato:

economie di libero mercato, come Gran Bretagna e Stati Uniti, in cui l’allocazione e il coordinamento delle risorse avviene principalmente per mezzo dei mercati;e economie coordinate di mercato, come Germania e Giappone, in cui negoziazione, relazioni a lungo termine e altri meccanismi non strettamente inerenti al mercato, vengono usati per risolvere i problemi più importanti.

Questi tipi di capitalismo divergenti sono in competizione tra di loro e si influenzano a vicenda ma il risultato non è certo un’evoluzione verso un unico modello, bensì una sorta di contaminazione reciproca. Ciò che funziona bene varia non solo da impresa ad impresa ma anche tra le varie nazioni e non ci sono politiche economiche standard o istituzioni particolari che possano garantire prosperità alla società (oppure a tutte le imprese.) La convinzione che la globalizzazione sia il trionfo di un unico modo di fare affari non è solo storicamente falsa ma può anche causare pericolosi errori strategici alle multinazionali. Sintetizzando anni di studio condotti dal suo team, Berger afferma:

Avere successo in un mondo dove la competizione è globale è una questione di scelte e non di cercare l’unico modo migliore; non esiste nessun fraintendimento più pericoloso riguardo la globalizzazione di questa illusione di certezza.

La certezza che gli attuali stati-nazione mantengano un’importanza cruciale all’interno della società globale è uno degli argomenti chiave di End of the Line, libro estremamente polemico scritto da Barry C. Lynn. Si tratta di una questione già ampiamente discussa e Lynn attacca l’analisi per cui una sempre maggiore interdipendenza tra le economie mondiali per mezzo della globalizzazione finisca per aumentare la loro stabilità. Se mai è vero il contrario, infatti questo processo sta causando una forte riduzione della stabilità e gli Stati Uniti non rappresentano certo un’eccezione. Lynn afferma: “Quindici anni di turbo-globalizzazione nel settore secondario, non controllata in alcun modo dal governo federale, hanno reso il popolo statunitense dipendente da un concentrazione industriale globale assolutamente fuori dal loro controllo e lacerata da profondi difetti strutturali.

Secondo Lynn il cuore della globalizzazione non è il mercato globale (che per alcune materie prime esiste da molto tempo), bensì l’organizzazione globale della produzione che oggi avviene tramite reti talmente ampie che nessuno è in grado di controllare e capire fino in fondo. Una compagnia come Wal-Mart, per esempio, ha avuto un incredibile successo grazie all’outsourcing [4] comprando merce per miliardi di dollari dalla Cina. Ebbene, a Wal-Mart “non importa capire questo processo di fornitura e produzione, ne tantomeno riuscire a gestirlo nel lungo periodo”. Quando la produzione sarà terziarizzata a livello globale sempre più compagnie si trasformeranno in semplici veicoli commerciali e rivenditori al dettaglio senza capacità né interesse per gestire l’intero sistema produttivo; e non solo la produzione viene trasferita ma in alcuni casi persino la direzione amministrativa impedendo così di sviluppare una visione d’insieme. E’ questa caratteristica dell’economia globale – lodata da chi valuta il mercato per la sua capacità di produrre risultati non pianificati – che preoccupa maggiormente Lynn poiché il sistema di produzione globale trascende i confini nazionali e quindi nessuno è responsabile del suo buon funzionamento: “Nessuno cerca di individuare i rischi di questo modello… e nessuno accetta alcuna responsabilità per questi rischi”.

L’incapacità di confrontarsi con i lati negativi della produzione globalizzata, sottolinea Lynn, può essere ricondotta all’anacronistica rinascita delle ideologie liberali in cui il libero commercio è visto come promotore di pace. Norman Angell nel suo famoso libro The Great Illusion, sosteneva che una crescente interdipendenza economica aveva reso la guerra non remunerativa e dunque inverosimile, un punto di vista proposto nel diciannovesimo secolo dai sostenitori del libero mercato come Richard Cobden. Il trattato di Angell venne pubblicato nel 1909 e le sue previsioni vennero capovolte cinque anni dopo con lo scoppio della guerra più sanguinosa della storia. Questa convinzione persiste tuttora: si crede che, quando le economie di diverse nazioni diventeranno sempre più integrate, i loro sistemi politici tenderanno a democratizzarsi diminuendo, di conseguenza, la probabilità di nuove guerre.

Nella pratica le cose vanno in modo abbastanza diverso: spesso una crescente interdipendenza economica ha l’effetto opposto; Lynn osserva che, a causa dei forti legami economici tra Cina e USA, una rivoluzione democratica nel paese asiatico sarebbe molto destabilizzante per l’economia nordamericana. Se in Cina venissero bloccati porti o impianti produttivi, sia a causa di decisioni governative che di sollevamenti popolari, il flusso delle merci necessarie all’economia americana verrebbe bruscamente interrotto. In una circostanza del genere gli Stati Uniti potrebbero benissimo decidere di appoggiare l’attuale regime cinese: “Se non altro, per proteggere le nostre forniture, coopereremmo con gli integralisti di Pechino per reprimere la volontà del popolo cinese”. La lunga catena di produzione globale si estende anche in molte nazioni governate da regimi autoritari, ed ogni seria minaccia a questi regimi avrà delle forti ripercussioni a livello planetario e non sarà facile per gli stati democratici schierarsi a favore dei dissidenti. Il libero commercio ha più bisogno di stabilità che di democrazia e ciò è ancor più vero quando la produzione è frantumata a livello mondiale. Allo stesso tempo però la stabilità non è garantita dallo stato attuale delle relazioni internazionali in quanto, come in passato, le nazioni hanno diversi obiettivi e mettono comunque in primo piano la sicurezza interna cercando di opporsi a quelle forze di mercato che minacciano i principali interessi nazionali. E’ quindi ragionevole aspettarsi che questi contrasti porteranno a dei conflitti prima o poi.

Alla luce di queste affermazioni se lo consideriamo una ricetta per la politica economica End of the Line è un appello alla riaffermazione degli interessi nazionali statunitensi. A differenza di molti analisti nordamericani e non, Lynn (membro storico della New America Foundation) ammette che l’attuale regime economico globale non è cresciuto spontaneamente; è stato creato dal potere statunitense con la convinzione che sarebbe stato al servizio degli interessi a stelle e strisce. Ma il sistema che è stato istituito non lavora sempre a vantaggio degli USA e non è neppure “auto-stabilizzante”:

L’economia globale è stata creata dagli USA. Senza un chiaro sforzo da parte loro per gestire questo sistema – da cui ormai dipende la grande maggioranza dei popoli di tutto il mondo – esso cadrà lentamente a pezzi.

Le proposte di Lynn per un nuovo indirizzo politico spaziano su diversi argomenti ma hanno in comune il fatto di rappresentare un chiaro cambiamento rispetto all’ingenua fiducia negli effetti benefici di un mercato globale che ha caratterizzato la politica statunitense dalla fine della guerra fredda. La sua analisi è sintomatica di un grosso cambiamento in corso nell’opinione pubblica. Il sempre più sconsolante scenario iracheno e il negativo impatto dell’outsourcing [4] hanno minato la convinzione che la globalizzazione lavori soprattutto per gli interessi nordamericani. Con i costi della guerra in Iraq in vorticosa crescita, questo cambiamento d’umore potrebbe davvero causare uno spostamento della politica statunitense verso l’isolazionismo e dopo aver guidato il mondo intero verso la globalizzazione, gli USA potrebbero non essere molto lontani dall’assumere il comando della ritirata.

La creazione di modelli economici che prevedono la convergenza di diverse società in un sistema universale ed armonioso ha profonde radici nel pensiero occidentale; non sorprende che queste teorie siano state riprese nella globalizzazione del post-guerra fredda. Il problema è che esse riflettono le condizioni del XIX° secolo quando i limiti ambientali dell’espansione industriale erano difficilmente intuibili, e non tengono conto del fatto che questo processo su larga scala intensifica l’impoverimento di risorse naturali e può causare enormi disastri ecologici. Questi sviluppi rappresentano l’altra faccia della globalizzazione e contribuiranno a delinearne il corso futuro.

John Gray
Fonte: http://www.nybooks.com
Link: http://www.nybooks.com/articles/18931
27.04.06

Scelto e tradotto per www.comedonchisciotte.org da ANDREA GUSMEROLI

Note:

1. The Borderless World: Power and Strategy in the Interlinked Economy (HarperBusiness, 1990), p. xi.

2. Un’anticipazione dei contenuti di questo studio è apparsa su The Observer a Londra il 22 febbraio 2004. Ampie parti della relazione "An Abrupt Climate Change Scenario and Its Implications for United States National Security" di Peter Schwartz e Doug Randall sono disponibili in internet.

3. Si veda "Paleo-climatic Evidence for Future Ice-Sheet Stability and Rapid Sea-Level Rise," Science, Vol. 311, No. 5768 (Marzo 24, 2006), pp. 1747–1750, di Johnatan T. Overpeck e Bett L. Otto-Bliesner. Gli autori riassumono in questo modo le loro scoperte: “Le recenti ricerche scientifiche suggeriscono che il riscaldamento polare potrebbe raggiungere entro il 2100 livelli simili a 130.00 anni fa quando il livello dei mari era diversi metri al di sopra di quello attuale.” Grazie ad una simulazione fatta al computer, i ricercatori ipotizzano un cambiamento climatico che porterebbe la temperatura ad aumentare da 3 a 5 gradi centigradi nel proseguo del 21° secolo. Il professor Overpeck, direttore dell’ Institute for the Study of Planet Earth alla University of Arizona, ha precisato che un innalzamento del livello del mare di un metro farebbe scomparire le Maldive, renderebbe inabitabile gran parte del Bangladesh, e città come New Orleans non sarebbero in alcun modo produttive. The Guardian, 25 marzo 2006.

4. Trasferimento di funzioni e servizi interni all'azienda a un fornitore esterno; terzializzazione