Guerra S.p.a. L'economia militare e il declino degli Stati Uniti
di Seymour Melman - 05/10/2006
GUERRA S.P.A. L'economia militare e il declino degli Stati Uniti
di Seymour Melman
Città Aperta Edizioni, 2006, 240 pp., euro 15,00
La strategia di "guerra infinita" dell'amministrazione americana di George W. Bush non è una svolta improvvisa dopo l'11 settembre 2001, ma è solo l'ultimo sviluppo dell'enorme espansione del potere militare Usa e dell'economia di guerra che lo sostiene.
In questo suo ultimo libro - che sta uscendo, postumo, contemporaneamente negli Stati Uniti - Seymour Melman ricostruisce le origini dell'economia militare Usa all'indomani della seconda guerra mondiale, mostrando come l'espansione della spesa, delle produzioni e della ricerca militare si sia intrecciata all'affermarsi della superpotenza politica e militare degli Stati Uniti.
Questo modello di economia militare ha avuto costi pesantissimi, non solo per le vittime - all'estero - del potere americano, ma anche sul piano interno. II prezzo che ha pagato l'America e stato la deindustrializzazione dell'economia e il declino delle capacità produttive che portano oggi gli Stati Uniti a deficit record dei conti con l'estero e del bilancio federale, e al continuo deprezzamento del dollaro.
Gli Stati Uniti effettuano oggi oltre la meta della spesa militare mondiale: l'analisi di Melman mostra che questo e il risultato di una centralizzazione senza precedenti del potere decisionale nelle mani di grandi manager, privati e di stato, che hanno tolto a lavoratori e cittadini il controllo su decisioni essenziali riguardo alla produzione e all'uso delle risorse pubbliche. L'alternativa proposta da Melman è restituire potere a lavoratori e cittadini e realizzare una vera e propria "reindustrializzazione" degli Stati Uniti, con un massiccio rinnovamento di infrastrutture e servizi pubblici che offrano nuovi impieghi per le persone e le imprese ora assorbite dal militare, rendendo possibile una drastica politica di disarmo e riconversione. Una lezione importante anche per i movimenti globali che stanno intrecciando iI rifiuto della "guerra infinita" e della globalizzazione neoliberista.
Seymour Melman,
scomparso il 16 dicembre 2004 all'eta di 83 anni, è stato il maggior esperto di economia militare e riconversione industriale a produzioni civili. Professore emerito alla Columbia University, dalla fine degli anni '50 ha esplorato le vie di una politica di disarmo e di un'economia di pace, analizzando in libri come "The permanent war economy. American capitalism in decline" (1974) il sistema economico che sorregge il potere militare degli Stati Uniti. Melman, presidente della Commissione nazionale per la riconversione e il disarmo, e autore di "After capitalism. From managerialism to workplace democracy" (2001). In italiano sono stati tradotti "La corsa alla pace" (Einaudi,1965), "Il capitalismo militare" (Einaudi, 1974), "Fabbriche di morte: e possibile riconvertirle?" (Pironti, 1982).
Per gentile concessione della casa editrice pubblichiamo l'introduzione di Seymour Melman e la postfazione di Mario Pianta
INTRODUZIONE. L'ECONOMIA DI GUERRA PERMAMENTE DEGLI STATI UNITI
di Seymour Melman
Il Pentagono smarrisce 2.300.000.000.000 dollari Il 10 settembre 2001, il Ministro della Difesa Donald Rumsfeld ha fatto un annuncio stupefacente: «Non possiamo rintracciare 2300 miliardi di dollari di transazioni».1
Nel mondo degli affari, motivato dalla ricerca del profitto, una contabilità così sbadata sarebbe prova di incompetenza monumentale o di falsificazione deliberata. Ma non al Pentagono. Perché qui la misura di successo più importante è l'aumento del potere, la capacità di controllare il comportamento di gruppi di persone e di nazioni intere. Quando si tratta di massimizzare il potere, l'efficienza monetaria è spesso secondaria. Sembra che tra i manager del Pentagono l'incapacità di far corrispondere pagamenti effettuati e beni e servizi ricevuti sia considerata uno spiacevole dettaglio, «briciole di bilancio».2 Ma 2300 miliardi di dollari sono più del valore netto di tutti gli impianti e i macchinari dell'industria manifatturiera americana, che attualmente valgono 1800 miliardi di dollari.3
La perdita di 2300 miliardi di dollari da parte dei manager del Pentagono ha un significato che va al di là della constatazione dell'esistenza di un'amministrazione incapace.
Gli Stati Uniti si ritrovano oggi stretti da una forma di capitalismo di Stato fortemente militarizzato che si è insediata gradualmente durante il mezzo secolo di guerra fredda (come si vedrà nel primo e nel secondo capitolo). Senza alcuna discussione né annuncio formale, lo sviluppo di questo modello ha incoraggiato la deindustrializzazione degli Stati Uniti (questo si vedrà nel terzo capitolo).
Questo libro vuole proporre un'alternativa. Per fornire al lettore un punto di vista diverso e per offrire le risorse per un cambiamento, questo volume prende spunto da fonti diverse, tra cui le mie stesse opere.
All'opposto di quanto affermano i manager di Stato, la combinazione di economia di guerra permanente e deindustrializzazione ha avuto conseguenze disastrose per gli Stati Uniti. L'esperienza dimostra che non si possono avere contemporaneamente burro e cannoni, e ciò che è ancor peggiore è che le infrastrutture del paese versano in condizioni disastrose. Per fortuna siamo in grado di misurare il costo.
Grazie all'iniziativa della Società Americana degli Ingegneri Civili (American Society of Civil Engineers, ASCE) abbiamo a disposizione un Rapporto sulle infrastrutture statunitensi.
Secondo l'ASCE, le attuali condizioni delle infrastrutture meritano un voto insufficiente. Per raggiungere il massimo dei voti ci sarebbe bisogno di ricostruire molti settori importanti tra cui strade, ponti, trasporto pubblico e aereo, scuole, acqua potabile, impianti fognari, dighe, smaltimento di rifiuti solidi e pericolosi, corsi d'acqua navigabili, fonti di energia. A questo grande sforzo nazionale di modernizzazione e miglioramento delle infrastrutture ho aggiunto i costi del restauro dei molti milioni di abitazioni degradate e quelli per l'elettrificazione delle ferrovie.
Per ironia della sorte, il costo totale di questi progetti di miglioramento sarebbe di 2.300 miliardi di dollari. Siamo di fronte a una scelta: a che cosa dobbiamo destinare la nostra ricchezza, per un'economia di guerra permanente o per la ricostruzione della vita americana? Questo libro sostiene la seconda possibilità e il suo obiettivo centrale è indicare le strade per invertire l'attuale declino. Attraverso un sistematico processo di modernizzazione delle infrastrutture e delle industrie a esse collegate si dimostrerà - come delineato dal Rapporto dell'ASCE - come si possano creare da due a quattro milioni di nuovi posti di lavoro produttivo, e dare nuova linfa alle grandi industrie manifatturiere degli Stati Uniti.
Quando George W. Bush ha inaugurato nel 2000 la sua prima amministrazione, ha deciso finanziamenti di miliardi di dollari per la sua strategia di estensione dell'egemonia USA nel mondo. Questa campagna, che abbiamo visto all'opera in Iraq,Afghanistan e nei preparativi per altre guerre, ha consumato le risorse di cui aveva bisogno l'economia civile degli Stati Uniti. Nello stesso periodo l'America ha assistito all'accelerazione del suo declino industriale e a grandi perdite di posti di lavoro, mentre i manager trasferivano in Cina le linee di produzione, alla ricerca dei profitti finanziari consentiti dai salari cinesi - dai 65 ai 140 dollari al mese. Lungo questa strada, che opportunità ci possono essere per i giovani americani se non arruolarsi nelle forze armate del Pentagono?
I meccanismi che hanno portato alla perdita dei 2.300 miliardi di dollari di cui parlava Rumsfeld comprendono la spesa per le armi a tecnologia avanzata dalla seconda guerra mondiale al 2001.Tra queste, la produzione di grandi e sofisticati velivoli, come fossero le auto Modello T delle prime catene di montaggio Ford, e la creazione del complesso militare industriale (nucleare) con un enorme patrimonio materiale e una forza lavoro che lo ha reso di gran lunga la più grande impresa degli Stati Uniti. In tal modo gli americani hanno visto la sparizione di 2.300 miliardi di dollari senza batter ciglio.
Come ho fatto notare nei miei studi sull'economia di guerra permanente degli Stati Uniti, abbiamo vissuto in questa forma di apitalismo di stato per oltre mezzo secolo.
Le discussioni tra i vertici di governo e dell'industria su come continuare la gestione dell'economia di guerra cominciarono nel 1944, quando gli eserciti di Hitler stavano per essere sconfitti. Importanti manager e alti funzionari governativi cominciarono a discutere quello che sarebbe stato il problema centrale dell'economia del dopoguerra: gli Stati Uniti da soli possedevano un sistema industriale enorme che non era stato toccato dalla distruzione della guerra e che avrebbe costituito quindi il luogo strategico ideale per produrre ed esportare i beni di consumo e i beni capitali necessari per la ricostruzione nel resto del mondo.
Il 6 gennaio 1944 il Wall Street Journal riportò l'opinione di Batt, il vice presidente del Consiglio per la Produzione Bellica (War Production Board): egli incoraggiava l'adozione di un piano che bilanciasse il flusso previsto di macchinari e altri beni all'estero.
Il resto del mondo, suggeriva Batt, avrebbe potuto pagare le esportazioni di beni e capitali americani fornendo agli Stati Uniti grandi quantità di materie prime. Queste potevano esser successivamente «messe in naftalina», cioè rimosse dal mercato per essere stoccate in riserve sotterranee. Così si sarebbe potuto «risolvere» un problema economico strategico, mentre si forniva agli Stati Uniti una riserva di materie prime per affrontare le future emergenze militari.
In un discorso tenuto nel gennaio del 1944 all'Associazione per le forniture degli armamenti dell'esercito (Army Ordnance Association), Charles Wilson, presidente della General Electric, propose un'alleanza tra l'impresa e il complesso militare, in una economia di guerra permanente. La proposta era intesa come
un programma continuativo, e non come il frutto di un'emergenza [...] Il programma deve essere assicurato e sostenuto dal Congresso, inizialmente tramite delibere [...] successivamente, tramite stanziamenti continuativi e regolarmente programmati. Il ruolo dell'industria in questo programma è quello di adeguarsi e cooperare [...] Facciamo in modo che questa collaborazione a tre [esecutivo, Congresso e industria] divenga permanente e operativa, e non solamente una misura momentanea dettata dalla convenienza.4
Alla fine della seconda guerra mondiale la prospettiva internazionale del governo di Washington era quella di una competizione globale con l'Unione Sovietica. Non bisognava attendere molto prima che venisse messa in moto quella competizione sfrenata che prese il nome di guerra fredda.
Non c'è dubbio che la comparsa di una capacità militare nucleare nell'Unione Sovietica, seguita a breve dall'invenzione della bomba all'idrogeno, abbia avuto un effetto decisivo nell'abbandono di quel tradizionale atteggiamento di «tenersi a distanza» presente tra alcuni settori del mondo dell'industria e il governo federale. Gli aspetti politici e militari del grande scontro tra il governo statunitense e la Russia di Stalin portarono a un legame stretto tra gli alti manager di governo e i vertici del management della grande impresa.
L'economia di guerra permanente non era più una congettura o un piano per favorire le relazioni economiche americane con le altre nazioni. L'economia di guerra permanente divenne la strategia chiave per combattere la guerra fredda.
Il governo americano e i manager delle grandi imprese erano d'accordo nel valutare favorevolmente l'economia del dopoguerra. Destra e sinistra concordavano nel ritenere che l'economia americana potesse produrre sia burro che cannoni. Questa era la tesi sia del Consiglio di Sicurezza Nazionale (National Security Council) nel 1950, sia dell'economista marxista Paul Baran.5
Sviluppo produttivo e crescita parassitaria: la lezione di Eisenhower
Una prospettiva diversa sulla questione della spesa militare fu esposta dal presidente Dwight D. Eisenhower in un discorso del 1953 alla Società Americana Editori di Giornali (American Society of Newspaper Editors).
Ogni arma che si costruisce, ogni nave da guerra che parte, ogni razzo che viene sparato rappresenta in fondo un furto per coloro che soffrono la fame e non hanno da mangiare, per quelli che hanno freddo e non hanno vestiti. Questo mondo in armi non sta solamente spendendo soldi, spende il sudore dei suoi lavoratori, il genio dei suoi scienziati e le speranze dei propri figli.
Il costo di un moderno bombardiere pesante equivale a quello di una nuova scuola in più di trenta città; di due centrali elettriche, ognuna capace di servire una città di 60.000 abitanti; di due nuovi ospedali completamente equipaggiati; di circa cinquanta miglia di autostrade.
Paghiamo per un unico aereo da caccia 14 milioni di tonnellate di grano. Per un solo cacciatorpediniere paghiamo l'equivalente di nuove case che potrebbero ospitare più di ottomila persone.
Ripeto, questo è lo stile di vita migliore che si può trovare sulla via che ha preso il mondo. Ma questo non è, sotto alcun aspetto ragionevole, uno stile di vita: sotto la minaccia di una guerra incombente, l'umanità pende da una croce di ferro.6
Nonostante questi avvertimenti gli economisti e la maggior parte degli americani si sono ingannati rifiutando di distinguere lo sviluppo produttivo da una crescita parassitaria.
Il primo è rappresentato dall'espansione di beni e servizi utilizzati per il consumo o per ulteriori produzioni; la seconda riguarda prodotti inutili per il consumo e l'investimento, che tuttavia sono associati a valori monetari. Benché l'industria militare sia economicamente parassitaria, il valore della sua produzione è comunque incluso nel calcolo del Prodotto interno lordo. Le produzioni di guerra hanno nascosto il declino delle produzioni civili: nell'ignorare questo aspetto, i manager USA hanno stabilito una politica che avrebbe devastato l'industria manifatturiera, specie quella dei beni capitali, le infrastrutture e la società intera.
L'obiettivo di questo libro è di presentare due caratteristiche dell'organizzazione del governo e dell'industria americana, che esercitano insieme un impatto considerevole sul carattere della nazione: la deindustrializzazione e la preparazione alla guerra. Sono questioni di ampio raggio e spesso poco familiari; tuttavia questi argomenti mostrano in che modo coloro che detengono il potere decidano sulle risorse e sulla vita delle persone.
Profitti e potere
La lunga durata dell'economia di guerra permanente degli Stati Uniti, dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi, ha portato allo sviluppo di strutture amministrative e di politiche economiche che hanno formalizzato il legame continuativo tra manager delle imprese, che puntano al massimo profitto, e manager di Stato, che puntano al massimo potere.
La massimizzazione dei profitti si è fusa con la massimizzazione del potere.
I due stili di management si sono intrecciati. I manager dell'industria e dello Stato lavorano in stretta cooperazione e si spostano senza difficoltà dal governo all'industria, e di nuovo al governo, come abbiamo visto nelle storie del presidente Bush e del vice-presidente Cheney: sono entrambi politici con un passato da industriali alle spalle.
I due partiti politici tradizionali, nonostante le loro evidenti differenze, condividono questo tacito impegno nell'economia di guerra permanente e nelle tattiche politiche ed economiche che essa richiede; per questo i due partiti spesso trovano più punti in comune che punti di divergenza profonda.
I politici di entrambi gli schieramenti hanno trovato un terreno comune nell'approvare le politiche di «libero scambio » e «globalizzazione». Ma queste categorie non mettono in luce l'esportazione di posti di lavoro di operai e impiegati dagli Stati Uniti e la trasformazione di molti centri urbani in città fantasma, con fabbriche e quartieri vuoti.
Tutto questo accade mentre i manager di Stato e della grande industria, insieme ai loro economisti, celebrano la deindustrializzazione degli Stati Uniti come un passo verso un'«economia post-industriale» o «dei servizi», una storia di copertura ampiamente utilizzata ed efficace a mascherare i loro intenti. Sono questi manager che dominano l'economia e la politica americane e guidano gli elementi di punta dell'economia militare, come la vendita o la cessione di armi e i programmi di addestramento militare all'estero, che si sono dimostrati così utili nell'estendere profitti e potere.
L'economia militare e la deindustrializzazione
Al contrario della Germania, del Giappone e degli altri paesi sviluppati dell'Europa occidentale, gli Stati Uniti hanno preferito di gran lunga applicare i propri talenti migliori per risolvere problemi militari. Ciò risulta evidente dalla tabella 1.
Tab. 1 - Spesa pubblica per ricerca e sviluppo in Stati Uniti, Giappone e Germania, 2001
Totale spesa pubblica in ricerca e sviluppo (R&S) in miliardi di dollari | Percentuale spesa di R&S per la difesa |
Percentuale spesa di R&S per la produzione e tecnologia industriale | |
Stati Uniti |
86.7 |
52.7 |
0.5 |
Giappone |
23.2 |
4.3 |
7.5 |
Germania |
17.9 |
7.1 |
12.1 |
Fonte: National Science Foundation, Science and Engineering Indicators: 2004,Tavola 4-48.
Il governo americano concentra nel settore militare le spese per ricerca e sviluppo: il 52,7% della spesa statunitense in ricerca e sviluppo, quasi 46 miliardi di dollari, finisce in progetti militari mentre solo lo 0,5% viene destinato alla produzione tecnologica e industriale. I progetti del Pentagono per ricerca e sviluppo producono risultati che, sebbene utili sul campo di battaglia, non portano a un incremento nella produzione di beni di consumo o di beni capitali, cioè dei mezzi di produzione.
In maniera decisamente diversa i lavoratori e i manager delle industrie giapponesi e tedesche sono stati capaci di costruirsi una buona reputazione producendo prodotti di alta qualità. Il Pentagono invece ha portato le imprese statunitensi a raggiungere alti profitti, nonostante i loro manager abbiano abbandonato i lavoratori americani (di questo si parlerà nel terzo capitolo).
Il fatto che fin dalla seconda guerra mondiale il Pentagono abbia la spesa di R&S più ampia tra i ministeri del governo federale, ha lasciato un segno permanente nelle università americane. Queste, comprese le facoltà di ingegneria, hanno accettato che le esigenze del complesso militare entrassero a far parte dei loro obiettivi di formazione.
Gli enormi budget del Pentagono per ricerca e sviluppo bruciano risorse che potrebbero altrimenti essere applicate per migliorare la progettazione e i metodi di produzione di beni civili. Di conseguenza nei circoli del management e sui più importanti giornali, il dibattito sulla produttività dell'industria americana si sposta automaticamente alle questioni legate ai lavoratori: i salari e le lotte sindacali per un maggior potere decisionale. L'attenzione verso la produttività del capitale fisso e i diversi fattori che influiscono sulla stabilizzazione dei processi produttivi sono invece assenti da queste discussioni.
Per migliorare la produttività dei processi produttivi è essenziale considerare i fattori principali che la influenzano: l'età degli impianti, la frequenza dei tempi morti di produzione non programmati, la percentuale di scarti prodotti, le perdite nell'utilizzo delle materie prime e dell'energia. Non c'è stato tuttavia un significativo sostegno del governo federale per la ricerca sul miglioramento della produzione. Fino a che il governo federale assegnerà i fondi per ricerca e sviluppo dando priorità al Pentagono, ignorando la necessità di migliorare la produzione e la tecnologia civile, le imprese americane saranno svantaggiate rispetto a quelle giapponesi e tedesche che beneficiano di sovvenzioni governative in tali settori.
In questo contesto di carenza di incentivi atti a migliorare, tramite l'innovazione, la produttività delle attività civili, molte imprese hanno scelto di spostare le loro fabbriche in paesi stranieri.
Come mostrerò nel quarto capitolo, alcuni ingegneri e lavoratori americani sono stati in grado di riprogettare le attività di produzione per fabbricare in modo efficiente non solo beni di consumo ma anche i più sofisticati beni capitali.
Dalla fine della guerra fredda la spesa militare statunitense ha continuato a crescere rapidamente. La riduzione dell'esercito e la chiusura delle basi sono stati rimpiazzati da enormi spese in armamenti ad alta tecnologia. È questa l'eredità della cosiddetta «Rivoluzione negli affari militari».
Nel marzo 2003 era previsto che la Marina ricevesse la nuova nave da guerra U.S.S. Reagan. Con un equipaggio di circa 5000 persone, questa portaerei a propulsione nucleare è costata cinque miliardi e quattrocento milioni di dollari, senza contare i costi degli aerei, delle fonti di energia nucleare, dell'equipaggio e della enorme serie di attrezzature necessarie alla manutenzione di una vasta gamma di aerei diversi. La U.S.S. Reagan è uno dei dodici principali gruppi da battaglia con portaerei, ognuno col proprio complemento di cacciatorpedinieri Aegis (ciascuno del costo di un miliardo e trecento milioni di dollari), sottomarini e navi di scorta. Ogni grande gruppo da battaglia con portaerei ha al suo interno l'equivalente di una mini-forza aerea con vari velivoli che possono raggiungere qualsiasi parte del mondo. L'aereo da caccia principale di queste portaerei è l'FA-18E-F, il cui costo unitario è di 72 milioni di dollari. Un gruppo di quaranta elementi costa due miliardi e ottocento milioni di dollari, che aggiunti ai cinque miliardi e quattrocento milioni di costo della portaerei, porta il costo totale a più di otto miliardi di dollari. La Marina degli Stati Uniti ha ordinato tre sottomarini d'attacco a propulsione nucleare del costo di due miliardi e trecento milioni di dollari ciascuno. Nessun altro paese produce navi e sottomarini a propulsione nucleare.
L'aeronautica sta per avere una flotta di C-17, aerei da carico pesante capaci di effettuare rotte intercontinentali e di portare carichi enormi. Il loro prezzo, 279 milioni di dollari, supera quello di un aereo intercontinentale di linea completamente equipaggiato. L'aeronautica disporrà anche di una flotta di caccia Raptor F-22, più sofisticati dell'equipaggiamento di qualsiasi altra forza aerea mondiale. I Raptor costano 285 milioni di dollari ciascuno. C'è poi il Joint Strike Fighter, un controverso e ambizioso progetto che serve a soddisfare i diversi requisiti delle principali forze militari degli Stati Uniti. Potrebbe essere venduto con grandi profitti anche a altre nazioni. Si calcola che per il progetto Joint Strike Fighter, che comprende varie migliaia di aerei, ci sarà bisogno di 750 miliardi di dollari. Questo programma ha innescato una grande competizione per gli appalti tra i membri del Congresso dei principali Stati produttori di aerei come la California, il Texas e Washington. Alcuni di questi Stati guardano al programma come ad un successo che avrà grande futuro.
Questi aerei e queste navi, i pezzi forti del nuovo arsenale militare statunitense, sono accompagnati da altre centinaia di miliardi di dollari spesi per grandi quantità di veicoli blindati e per l'equipaggiamento di decine e decine di nuove basi militari che saranno costruite in tutto il mondo.Gli Stati Uniti hanno costruito nei paesi del Medio Oriente e dell'Asia Centrale decine di nuove basi militari, di cui tredici solamente nelle ex Repubbliche sovietiche dell'Asia centrale (vedi mappe delle nuove basi militari statunitensi nel secondo capitolo, pp. 78-79), che contribuiranno a estendere la potenza militare aerea e terrestre statunitense a est, fino a trecento miglia dalla Cina.
Anche la spesa per gli esplosivi convenzionali e i missili nucleari è aumentata. Il Pentagono ha comprato missili e bombe di diversa grandezza capaci di penetrare acciaio, cemento armato e installazioni militari sotterranee di qualsiasi tipo, e chiede di poter disporre di piccole bombe nucleari per distruggere i bunker.
Come abbiamo visto, alle priorità militari del governo federale segue una contabilità caotica nel Pentagono - in tutti i settori delle forze armate. Ciò significa che i miliardi di dollari votati formalmente dal Congresso non rappresentano una misura della spesa effettiva, e che non esistono controlli adeguati.
Mentre il governo statunitense inondava di soldi l'industria militare, il resto dell'economia americana subiva un grande cambiamento. Le imprese statunitensi hanno chiuso le fabbriche per spostarle in paesi dove i sindacati non potevano fare nulla per opporsi al management. Questa deindustrializzazione è accaduta così velocemente da mettere a rischio la capacità americana di produrre qualsiasi bene. Nel 2002 per esempio il comune di New York annunciò il suo progetto di comprare una nuova serie di treni metropolitani indicendo gare d'appalto per svolgere i lavori. Sebbene questi contratti valessero 3-4 miliardi di dollari, non rispose neanche un'impresa americana.7 Per fare un esempio ancor più concreto, dei cento prodotti di abbigliamento offerti nel catalogo di vendita per corrispondenza L.L. Bean dell'autunno 2003, novantadue erano importati contro gli otto fatti negli Stati Uniti. Imprese di ogni tipo hanno spedito le loro fabbriche all'estero lasciando negli Stati Uniti solamente gli uffici dei vertici del management. La chiusura delle fabbriche non solo ha lasciato senza lavoro milioni di persone,ma ha anche diminuito la capacità produttiva necessaria a riparare le infrastrutture ormai danneggiate.
Conseguenze economiche a parte, la disoccupazione ha un effetto psicologico devastante sulle persone, poiché veicola un messaggio di rifiuto: «non sei necessario, non sei richiesto ». Sfortunatamente i politici americani - federali, statali, di città e di contea - continuano a sostenere le priorità militari del governo, entrando in competizione per la loro «equa fetta» di commesse del Pentagono, e l'occupazione che ne consegue. È un simile orientamento che continua a impedire lo sviluppo di politiche appropriate nell'interesse dei lavoratori americani.
Chi guadagna e chi perde
Il sindaco di New York, Michael Bloomberg, ha richiesto tagli nella spesa della città, ammettendo che il deficit in bilancio di un miliardo e cento milioni di dollari per il 2003 sarebbe stato seguito, l'anno successivo, da uno ancora più grande. Che cosa ha proposto il sindaco per far fronte al disavanzo che si prospettava? Ha offerto una serie di piani dettagliati per tagliare le spese di scuole, biblioteche, polizia, vigili del fuoco, sanità, tagli nel personale per l'assistenza sociale ai bambini e per i servizi sociali per anziani. Ha proposto l'aumento di diverse tasse cittadine tra cui l'imposta sul reddito e sulla proprietà, e ha anche considerato l'idea di tassare i cittadini per l'utilizzo dei ponti sull'East River. Presto, grazie al progresso nella miniaturizzazione, forse la tecnologia permetterà alla città di raccogliere fondi tassando ogni singolo cittadino che attraversa la strada, proprio come per l'E-Z Pass utilizzato su ponti e tunnel. Nonostante tutto questo, il sindaco non ha proposto di fare un appello al governo federale per tagliare la spesa militare.
Simili problemi non riguardano solamente la Grande Mela, sebbene il deficit di un miliardo e ottocentoquaranta milioni di dollari previsto per il 2004 sia il peggiore della nazione. I deficit nei bilanci delle città sono diventati endemici: 82 milioni di dollari ad Atlanta (2002), 250 milioni a Los Angeles (2002), 35 milioni a Cincinnati (2003), 30 milioni a San Diego (2003), 347 milioni a San Francisco (2003), 116 milioni a Chicago (2003), 55 milioni a Houston (2004), 144 milioni a Filadelfia (2005).8
Allan G. Hevesi, revisore dei piani di bilancio di New York nel 1998, ha preparato un rapporto sui capitali necessari alla città, nel quale si indicavano i fondi necessari a ogni assessorato per la costruzione di nuovi edifici e attrezzature dal 1998 al 2007: dei 92 miliardi necessari, solo la metà era disponibile. Adesso, con una crisi finanziaria ancora più grande dovuta all'ulteriore militarizzazione delle nostre vite, gli edifici e le attrezzature necessarie di cui una città moderna ha bisogno non saranno disponibili in nessun futuro prossimo. Ogni città diventerà vittima dei preparativi di guerra del governo federale.
Nel 2001-2002, mentre milioni di americani perdevano risparmi e fondi pensionistici a causa del crollo dei titoli in Borsa, gli stessi eventi finanziari hanno creato una nuova classe di super privilegiati dell'economia. Questi erano gli insider del governo e dell'industria, che sfruttavano la loro posizione per sapere quando comprare e quando vendere nel mercato dei titoli, accumulando così enormi profitti. Il New York Times del 25 agosto 2002 ha presentato una lista dei cento dirigenti che hanno guadagnato di più dalla vendita strategica delle azioni della propria società. I guadagni di queste persone, messi insieme, raggiungevano sei miliardi e duecento milioni di dollari. Il primo super manager della lista ha preso un miliardo e quattrocento milioni di dollari; l'ultimo ha portato a casa nove milioni e seicentomila dollari.
Tutto questo ha provocato un cambiamento epocale: si è creata una nuova classe nobiliare che possedeva un patrimonio da re: non grandi case ma palazzi, un personale di servitori con maggiordomi impiegati a controllare altri subordinati, macchine da favola e altri beni di lusso.
Che cosa dobbiamo aspettarci dai nuovi reali americani? Gary Winnick, un tempo presidente della Global Crossing, ha guadagnato 734 milioni di dollari dalla vendita delle azioni della sua società prima che queste perdessero qualunque valore. Ha dichiarato alla commissione del Congresso che avrebbe fatto un assegno di 25 milioni di dollari per coprire una parte dei fondi pensionistici che varie migliaia di lavoratori avevano perso quando le azioni erano crollate. «Mi appello ai presidenti e ai direttori generali delle altre imprese» aveva detto Winnick, «a farsi avanti e firmare un assegno».
Un'alternativa esiste
I meccanismi dell'economia di guerra statunitense e della deindustrializzazione sono tra loro collegati, come spiegheremo in questo libro. Ciascun fenomeno rafforza l'altro.
La grande priorità data al complesso militare ha accelerato il declino dell'economia civile americana, diffondendo la deindustrializzazione; questa, paralizzando il potere economico, ha fatto aumentare la fiducia dei manager di Stato nella potenza militare. La tesi classica secondo la quale non si possono avere sia burro che cannoni senza limiti si sta dimostrando vera.
Negli Stati Uniti opera oggi un sistema di guerra senza limiti geografici, economici o politici, che ha dimostrato i suoi effetti distruttivi sulla vita americana. Una parte cruciale di questo sistema consiste nella sua guida da parte di un governo «modificato». Il governo federale non è più una semplice struttura politica. È stato trasformato in un sistema manageriale composto da manager burocrati con esperienza nella politica e nelle imprese.Tale combinazione rappresenta una sorta di capitalismo di Stato che ha la pretesa di accrescere senza limiti il proprio potere. Questi stessi manager gestiscono l'economia USA come se le sue risorse fossero illimitate.
In realtà è il motore della crescita della ricchezza americana che si è spezzato. Il primo capitolo di questo libro spiega la relazione gerarchica che ha fatto in modo che il management del Dipartimento della Difesa si unisse con quelli delle imprese che producono per il Pentagono, e come questa fusione abbia creato un sistema di «massimizzazione dei costi» che provoca una grossa perdita nelle casse del Tesoro federale. Viene illustrata in dettaglio anche la relazione parassitaria che l'economia militare ha nei confronti di quella civile, e la responsabilità del Congresso affinché tale sistema si perpetui.
Mettere in atto un'economia di guerra permanente è diventata l'attività principale e continuativa del governo statunitense, dominando la spesa pubblica e eterminando il numero di persone con un'occupazione.
Il secondo capitolo definisce i metodi di massimizzazione del potere utilizzati dal management di Stato e della grande industria messi insieme.L'intrecciarsi dei poteri economico e politico ha fornito al management di Stato nuove capacità che superano quelle possibili nella più limitata sfera manageriale civile del potere economico della grande impresa. Con queste nuove capacità i manager di Stato e della grande industria utilizzano le attività militari per allargare la loro sfera di potere decisionale. In momenti differenti, i governanti di due importanti stati,Vietnam e Iraq, che sono stati scelti come teatro di guerra da parte dei manager americani, hanno chiesto senza mezzi termini al gruppo dirigente statunitense di negoziare un accordo invece di cercare di ottenere un'egemonia imponendo una sconfitta militare. I leader di questi paesi vennero semplicemente snobbati. Ma le caratteristiche del potere militare non garantiscono che la superiorità, a meno di tentativi di genocidio, possa avere successo, poiché le strategie di guerriglia hanno imposto limiti non previsti alla ricerca di vittorie militari da parte dei gruppi dirigenti.
Il terzo capitolo descrive come la gran parte dei manager di Stato e di quelli dell'industria abbia fatto in modo di deindustrializzare i centri manifatturieri degli Stati Uniti, ricollocando le fabbriche e i centri di ricerca in paesi come Messico, India e Cina, dove i governi assicurano che i sindacati non possano affermarsi.
Nel quarto capitolo si mostra come negli Stati Uniti sia possibile produrre sia beni capitali che beni di consumo di alta qualità. Solidi investimenti in ricerca e sviluppo, hanno permesso all'azienda New Balance, una delle più grandi produttrici di scarpe, di modificare i suoi metodi di produzione negli Stati Uniti. L'azienda riesce a produrre scarpe negli Stati Uniti e pianifica di ampliare la quota della sua rete mondiale di fabbriche che viene prodotta negli USA. Il capitolo riporta anche i risultati innovativi raggiunti dalla Haas Automation. Questa impresa, che ha sede in California, è cresciuta e continua a crescere come produttore di centri di lavorazione computerizzati a controllo numerico ad alta tecnologia, tutti realizzati negli Stati Uniti. L'esperienza della Haas merita un'attenzione particolare in quanto i macchinari sono i «beni capitali» principali, la base per tutte le altre produzioni industriali.
Il quinto capitolo riassume le conseguenze che si prospetteranno se si continuerà a saccheggiare l'industria americana con un'economia di guerra permanente, e i grandi guadagni umani ed economici che invece si otterrebbero se non si intraprendessero guerre senza fine. Come alternativa alla preparazione e realizzazione di guerre e alla deindustrializzazione americana sosteniamo il progetto strategico di miglioramento del sistema di infrastrutture che è stato sviluppato dalla American Society of Civil Engineers. L'economia di guerra permanente ha bloccato gli Stati Uniti con infrastrutture da automobili «Modello T» nel ventunesimo secolo.
Uno sforzo per ricostruire e migliorare le infrastrutture americane può servire come base strategica per ricostituire negli Stati Uniti un sistema industriale e un'occupazione molto efficienti.
A questo scopo, particolare attenzione è stata dedicata al ruolo strategico che potrebbe giocare la ricostruzione della capacità di produzione di beni capitali degli Stati Uniti.
POSTFAZIONE. SEYMOUR MELMAN, COME IMMAGINARE UNA ECONOMIA DI PACE
di Mario Pianta
Guerra S.p.A., l'ultimo libro di Seymour Melman, pubblicato in anteprima in Italia, è la sintesi di un lavoro di mezzo secolo sull'intreccio tra economia e sistema militare. Il filo di questo lavoro mostra come gli Stati Uniti, dalla fine della seconda guerra mondiale, abbiano costruito un'egemonia mondiale utilizzando il potere militare - la corsa al riarmo nucleare, la sequenza di guerre dal Vietnam all'Iraq - e come l'economia americana ne sia stata trasformata. La spesa militare ha assunto un ruolo centrale e ha raggiunto dimensioni enormi: il Pentagono è oggi responsabile di quasi la metà della spesa militare mondiale. Il sistema industriale è stato piegato alle priorità tecnologiche e produttive dello sviluppo di nuovi armamenti, e sui mercati internazionali il risultato è stato il declino dell'industria americana. Si tratta di un'analisi originale e anticipatrice. Oggi l'amministrazione Bush riafferma la sua strategia di «guerra infinita», e Melman aveva argomentato fin dagli anni Settanta che gli Stati Uniti hanno un'«economia di guerra permanente». Oggi il deficit commerciale degli Stati Uniti raggiunge livelli record, oltre i 600 miliardi di dollari, e Melman aveva segnalato da decenni l'indebolimento della capacità competitiva del paese.
All'inizio del 2006 due conferme particolarmente importanti sono venute alle tesi sul peso dell'economia militare e sul declino industriale degli Stati Uniti che sono al centro di Guerra S.p.A. La prima, sulle dimensioni dell'economia di guerra degli USA, viene da uno studio del premio Nobel per l'economia Joseph Stiglitz, realizzato con Linda Bilmes, su The economic costs of the Iraq war (disponibile sul sito www.josephstiglitz.com). Il costo complessivo (attuale e futuro) della guerra per gli Stati Uniti, in uno scenario di valutazione «moderata», viene stimato in quasi 1200 miliardi di dollari di costi diretti (spesa per le operazioni di guerra, cure per i feriti, pensioni per i veterani) e in 1050 miliardi di costi macroeconomici, legati all'aumento dei prezzi del petrolio e agli effetti sul deficit pubblico degli USA. Un totale di 2239 miliardi, dieci volte superiore alle previsioni del governo Bush di 200 miliardi di dollari, e pari a un sesto del Prodotto interno lordo degli Stati Uniti del 2005. Una guerra che doveva «pagarsi da sola» con la vendita del petrolio iracheno presenta un conto sempre più difficile da finanziare quando il deficit del governo federale supera i 400 miliardi di dollari; un peso di queste dimensioni potrebbe far inceppare il tradizionale meccanismo di stimolo alla crescita americana attraverso la spesa pubblica e aprire una crisi di portata imprevedibile.
La seconda conferma all'analisi di Seymour Melman riguarda il processo di deindustrializzazione degli Stati Uniti.
I due maggiori produttori di auto americani, General Motors e Ford hanno dichiarato lo stato di crisi, perso quote di mercato e previsto pesanti ristrutturazioni. La prima ha ammesso perdite di 8,6 miliardi di dollari nel 2005 e annunciato la chiusura di otto impianti negli USA e di quattro all'estero, con l'eliminazione di trentamila posti di lavoro.Viene chiusa anche l'esperienza della Saturn, la fabbrica «post-taylorista» in cui le mansioni dei lavoratori venivano ricomposte e arricchite con un approccio partecipativo, che doveva rappresentare la risposta «di qualità» alla competizione giapponese.
Ford, da parte sua, ha annunciato la chiusura di 14 fabbriche e il licenziamento di trentamila persone. Dal 2000 al 2005 General Motors, Ford e Chrysler hanno eliminato 140 mila posti di lavoro nell'industria dell'auto negli Stati Uniti. Il declino dell'industria si è tradotto in una fuga da Detroit, la capitale dell'auto, da cui nel 2005 sono emigrate trentasettemila persone. Nel 2006, per la prima volta, il maggior produttore mondiale di auto dovrebbe diventare la giapponese Toyota. Il declino dell'industria americana, i cui primi segni erano stati anticipati dalle analisi di Seymour Melman di trent'anni fa, è ora sotto gli occhi di tutti.
Una vita intransigente
Anticipatore, radicale e intransigente, Seymour Melman - scomparso poco dopo aver concluso questo libro, il 16 dicembre 2004 nella sua casa di New York, all'età di 87 anni - lo è stato in tutta la sua vita, nel suo impegno nell'economia, nella politica e nel pacifismo americano. La sua capacità di legare processi economici, analisi politica e denuncia del potere militare ne hanno fatto una figura essenziale per la sinistra radicale degli Stati Uniti, che ha accompagnato il percorso di personaggi come Ralph Nader e Noam Chomsky.
Per oltre mezzo secolo, con un'intransigenza a volte scomoda, ha animato le campagne pacifiste e le strategie di disarmo negli Stati Uniti, come co-presidente del Sane, Committee for a Sane Nuclear Policy, la principale organizzazione pacifista USA e poi come presidente della Commissione nazionale per la riconversione e il disarmo. Nel 1982 fu uno degli oratori alla grande manifestazione di New York per bloccare la corsa al riarmo, lanciata dal freeze movement in parallelo a quelle che si tenevano in Europa e in Italia contro gli euromissili.
Cresciuto nella New York ebraica e antifascista degli anni Venti e Trenta, Melman trascorre il 1940 in un kibbutz in Palestina e poi è chiamato sotto le armi durante la seconda guerra mondiale. Dopo la laurea al City College, l'università pubblica di New York, diventa un brillante professore alla Columbia University che si occupa di economia industriale e, fin dall'inizio, dei rapporti tra produzioni civili e militari.
Di fronte all'avvio della guerra fredda e alla corsa al riarmo nucleare, documenta la dimensione economica di questi processi e inventa il termine overkill: calcola che gli Stati Uniti hanno la capacità di distruggere l'URSS 1250 volte, mentre l'URSS può farlo soltanto 145 volte.
Ma di grande interesse è il suo percorso politico: formatosi nella sinistra radicale newyorkese, ispirato da Veblen e da Marx, Melman riuscì a legare la tradizione del radicalismo istituzionale degli anni Trenta con le esperienze della sinistra non comunista, senza mai rinunciare alla critica del capitalismo - come fecero invece decine di intellettuali ex trotskisti della sua generazione, diventati negli anni Ottanta apologeti della nuova destra USA. È tra i protagonisti dell'opposizione alla guerra in Vietnam e delle diverse ondate del movimento per la pace, mantiene stretti rapporti con il sindacato più politicizzato degli USA, quello dei Machinists, ma non si limita al lavoro «dal basso». Nel 1972 sostiene George McGovern, il candidato democratico che incarnava la prospettiva della pace in Vietnam, sconfitto da Richard Nixon; con lui - e altri democratici progressisti - manterrà uno stretto rapporto per avanzare in Congresso le proposte di legge sulla riconversione dell'industria militare USA. Il suo impegno pacifista lo porta a sviluppare le alternative concrete che possono sostenere un sistema di pace, sia sul fronte del disarmo, sia su quello della riconversione dell'economia. È questa la linea di ricerca che lo porta a scrivere decine di volumi da Inspection for disarmament e The Peace Race, fino a The demilitarized society.
Economia e militarismo, pacifismo e cambiamento politico sono i temi che si intrecciano in After capitalism (Knopf, 2001), il tentativo più impegnativo di proporre un'alternativa al capitalismo che passi per il recupero di controllo da parte dei lavoratori: «dal sistema manageriale alla democrazia sul posto di lavoro». L'analisi di Melman è suggestiva perché collega i processi economici, dominati dalla logica del profitto, e le politiche militari, dominate da una logica di potere. I profitti si investono in posizioni di potere - nei mercati, nella politica nazionale e internazionale, nel sistema militare - e il potere assicura a sua volta il flusso di profitti. Alla radice di questo modello c'è, secondo Melman, la progressiva centralizzazione del potere decisionale nelle mani di grandi manager, privati e di Stato, che hanno sottratto a lavoratori e cittadini il controllo su decisioni essenziali per il loro futuro. È un ritorno al cuore del capitalismo, individuato da Melman (con Marx) nei rapporti sociali che espropriano i lavoratori, mentre la ricerca del «dopo-capitalismo» sta nelle pratiche che restituiscono a lavoratori e cittadini il controllo sul loro destino. Una lezione importante anche per i movimenti globali che stanno nuovamente intrecciando il rifiuto della «guerra infinita» e della globalizzazione neoliberista.
I libri
Il primo libro di Seymour Melman è del 1956, sull'organizzazione della produzione nell'industria dell'auto, Dynamic factors in industrial productivity (Wiley), basato sui suoi studi di dottorato, seguito da una serie di analisi sui processi decisionali, le gerarchie nella produzione e la produttività dell'industria. In parallelo, di fronte all'affermarsi della guerra fredda, Melman inizia il suo lavoro sul disarmo: nel 1958 cura il libro Inspection for disarmament, nel 1961 scrive The Peace Race, un termine che sarà preso in prestito dal presidente Kennedy, prima della drammatica crisi dei missili a Cuba, poi scrive Disarmament: its politics and economics.
Contro la guerra in Vietnam cura nel 1968 In the name of America: clergy and laymen concerned about Vietnam e affronta in Pentagon capitalism (1970) la prima analisi sistematica del complesso militare industriale USA, un tema sviluppato in The permanent war economy: American capitalism in decline (1974 e 1985) e nel volume a più autori The war economy of the United States (1971).
Insieme alle sue lucide analisi, Melman va alla ricerca di proposte concrete che diano una risposta ai problemi che il disarmo creerebbe alle industrie militari e ai lavoratori USA.
Nasce da qui l'importante lavoro sulla riconversione dell'industria militare, prima con i sei volumi di Conversion of industry from a military to a civilian economy (1970), poi con il rapporto per le Nazioni Unite, Barriers to economic conversion (1980) e con decine di articoli, studi e rapporti sull'esperienza degli Stati Uniti, dell'Unione Sovietica e di altri paesi.
L'analisi delle trasformazioni dell'economia USA è sviluppata in Profits without production (1983), scritto in un periodo di stretta collaborazione con il sindacato americano, in cui lo svuotamento della capacità produttiva USA, alimentato delle spinte alla globalizzazione e alla finanziarizzazione dell'economia, viene messo in relazione alla concentrazione di risorse nelle produzioni militari. Le strategie politiche per il disarmo e la riconversione sono presentate in The demilitarized society (Harvest House, 1990), che fa il punto sui movimenti per la pace degli anni Ottanta e sulle possibilità di cambiamento alla fine della guerra fredda, con la prospettiva - mai realizzatasi - dei «dividendi della pace».
Ma il suo lavoro più impegnativo è After capitalism. From managerialism to workplace democracy (Knopf, 2001). L'analisi della produzione capitalistica, con le sue gerarchie manageriali, alienazione e mercificazione, si intreccia agli effetti negli Stati Uniti della deindustrializzazione e dell'accumulazione di potere militare. Le strade per le alternative sono nel recupero di controllo da parte dei lavoratori - la riscoperta della democrazia economica - nella «disalienazione» del lavoro, in una produzione al servizio della società anziché del potere militare. Il libro è diventato un grande sito web (www.aftercapitalism.com) che oltre ad ampie parti del volume e informazioni sull'autore, presenta i suoi testi principali, dagli anni Cinquanta ad oggi, una vasta raccolta di articoli sul disarmo, la crisi dei missili a Cuba, la guerra in Vietnam, i movimenti per la pace, e poi l'economia di guerra e le strategie di riconversione possibili, per finire con il programma del corso sull'economia di guerra che Melman ha tenuto per decenni alla Columbia University, ricevendo anche il premio per il Miglior docente dell'Università.
I rapporti con l'Italia
In italiano sono stati tradotti alcuni suoi libri, ora tutti introvabili: La corsa alla pace (Einaudi, 1965), Il capitalismo militare (Einaudi, serie viola, 1974), Fabbriche di morte: è possibile riconvertirle (Pironti, 1982). Un suo testo su «La riconversione dell'economia militare: problemi, argomenti, ipotesi» è pubblicato nel volume La riconversione dell'industria militare curato da Mario Pianta e Alberto Castagnola per le Edizioni Cultura della Pace (Firenze 1990), fortemente voluto allora da Ernesto Balducci.
Seymour Melman ha passato alcuni mesi in Italia nel 1990, come visiting professor all'Università di Firenze e ha partecipato di frequente a convegni e iniziative pacifiste; i materiali del corso che ha tenuto all'Università di Firenze sono raccolti in un «Quaderno del Forum per i problemi della pace e della guerra»: L'economia militare: effetti della produzione militare e problemi di riconversione.
Troppi aspetti del lavoro di Seymour Melman erano inconsueti e anticipatori per farne un personaggio di moda nella cultura italiana. La sua analisi economica, tutta ancorata nella produzione, non interessava agli economisti, che gli rimproveravano di ignorare il ruolo della domanda. I problemi della guerra e del disarmo, ignorati da politici e politologi, sono stati posti in primo piano soltanto dal movimento pacifista a partire dagli anni Ottanta. E in quest'ambito Melman ha avuto un'importante influenza.
Per la parte del movimento pacifista più attenta alla politica, l'approccio di Melman ha fornito una visione d'insieme del sistema militare, dell'intreccio tra strategie di riarmo, spesa militare e industria bellica, dei ruoli diversi ma complementari del governo, dei vertici militari e delle grandi imprese. E in Italia più che in altri paesi il movimento pacifista è stato capace di affrontare l'insieme di queste sfide, senza limitarsi a una sequenza di mobilitazioni contro episodi di riarmo e azioni militari: gli euromissili, le «guerre stellari», la prima guerra in Iraq, le spedizioni militari all'estero e, dopo l'11 settembre 2001, la guerra in Afghanistan e in Iraq.
La riduzione della spesa militare è stata chiesta in Italia dal 1989 dalla Campagna «Venti di pace», poi confluita nella più ampia mobilitazione che ogni anno, in occasione della discussione del Bilancio dello Stato, promuove la Campagna «Sbilanciamoci» per una spesa pubblica al servizio di pace, ambiente e solidarietà (www.sbilanciamoci.org).
La questione della riconversione dell'industria militare è stata posta soprattutto da un folto gruppo di sindacalisti, impegnati dagli anni Ottanta sui problemi della riconversione delle industrie militari del Nord Italia. Su questo tema l'approccio di Melman univa l'obiettivo di abbandonare le produzioni di armi con gli strumenti dell'iniziativa sindacale in fabbrica, affiancava la critica al capitalismo militare con la proposta concreta di riconvertire a produzioni alternative, che potevano essere individuate da comitati aziendali composti da dirigenti e lavoratori; una lettura questa che combinava in modo originale la critica al capitalismo e alla guerra, l'iniziativa pacifista e la pratica del controllo operaio su che cosa (e come) produrre.
Una lezione feconda, quella di Melman, in sintonia con la cultura politica dei movimenti più avanzati, politicamente più avvertiti e capaci di unire la protesta con la proposta di alternative. Una lezione profonda di politica, pacifismo ed economia; per tutti coloro che l'hanno incontrato e per chi ha avuto, come me, l'opportunità di lavorare con lui alla Columbia University, una lezione di intransigente radicalità.