La crisi si è riaccesa con l’arresto degli ufficiali russi accusati di spionaggio
Petrolio e politica: la vera partita che si gioca nella crisi russo-georgiana
Non siamo ancora arrivati al blocco delle forniture di gas ma poco ci manca. La risposta di Mosca all’arresto degli ufficiali russi accusati di spionaggio è stata rapidissima: il blocco dei trasferimenti bancari - il 4 per cento del Pil georgiano dipende dalle rimesse degli emigranti che lavorano in Russia - e la cancellazione di buona parte dei voli.
La mossa elettorale di presidente Mikheil Saakashvili, sempre a caccia dei buoni auspici di Washington, si è trasformata in un boomerang e la rapida liberazione delle presunte spie rischia di non essere sufficiente. In realtà la crisi fra Mosca e Tbilisi è un’eredità della strategia clintoniana degli oleodotti anche se, risalendo più indietro nel tempo, sembra il destino di questa regione ricca di petrolio. L’oro nero fruttò ai caucasici la feroce repressione della Mosca sovietica così come di quella capitalista, e l’interessamento degli Stati Uniti che, dalla caduta del muro, hanno appoggiato praticamente ogni rivolta che avrebbe potuto sganciare i territori dall’influenza russa. Dal 1988 i conflitti si sono susseguiti ininterrottamente. In Georgia, in Azerbaigian, in Dagestan, in Cecenia, in Ingushetia e nel Nagorno Karabakh, le differenze etniche e religiose sono state manovrate dalle potenze straniere con l’obiettivo di mettere le mani sui giacimenti e sulla rete degli oleodotti che collegano l’Asia all’Europa, della quale il Caucaso è lo snodo principale.
Verso la metà degli anni ’90 i conflitti regionali sembrarono trovare una sorta di precario equilibrio. Grazie ai finanziamenti alle minoranze etniche e ai fondamentalisti islamici, gli americani si assicurarono l’accesso ai pozzi dell’Azerbaigian e l’eterna amicizia della Georgia di Shevardnadze, i cui porti sono essenziali per raggiungere la Turchia. Ai Russi venne lasciata la Cecenia e il petrolio kazako. Naturalmente la spartizione non ha impedito agli Stati Uniti di continuare a finanziare gli islamisti ceceni (tramite i servizi segreti sauditi) né ai russi di appoggiare ribellione armata dell’Abkhazia, in Georgia, per imporre la presenza delle “truppe di pace” inviate da Mosca. L’11 settembre, com’è noto, ha dato agli americani l’insperata possibilità di piazzare le proprie truppe nelle ex-repubbliche a ridosso dell’Afghanistan ma le difficoltà incontrate in Iraq hanno ridato fiato a Mosca, che ha ripreso a rimestare nel torbido in Georgia e in Azerbaigian. Al rinnovo dell’interesse russo per la regione si deve il rafforzamento dell’opposizione georgiana, culminato con la cacciata di Shevardnadze, e i processi contro gli oligarchi delle grandi industrie petrolifere russe che, nel Caspio, avevano fatto spesso il doppio gioco.
Per le corporation petrolifere internazionali il braccio di ferro sulle rotte petrolifere, che ovviamente alimenta i conflitti locali, è una ghiotta occasione. La strategia caldeggiata dagli Stati Uniti, che mirava a stornare l’oro nero dalla rotta cinese e iraniana, comportava la costruzione ex-novo di alcuni tratti. Nella regione sono quindi cominciati a piovere soldi privati e pubblici - dei singoli paesi così come di istituzioni finanziarie quali la Banca d’investimenti europea o la Banca Mondiale - che hanno scatenato l’avidità dei signori della guerra locali e delle multinazionali. L’East-West Energy Corridor, in particolare, è un sistema integrato di pipeline che include progetti come l’oleodotto Baku-Tbilisi-Cehyan e il gasdotto parallelo Baku-Tbilisi-Erzurum, entrambi dall’Azerbaigian alle coste mediterranee della Turchia via Georgia, cui si aggiunge il Trans-Caspian Project per il gas turkmeno. Basti pensare che il solo Baku-Tbilisi-Cehyan è un affare da 4 miliardi di euro nel quale sono coinvolte multinazionali come l’inglese Bp, la norvegese Statoil, le americane Unocal e ConocoPhillips, i giapponesi dell’Itochu, i francesi della TotalFinaElf e l’italiana Eni, praticamente il gotha dell’industria petrolifera mondiale.
L’alternativa russa all’East-West Energy Corridor è il Northern Route Export Pipeline ovvero i vecchi condotti che portavano il petrolio kazako nel porto russo di Novorossijsk, sul Mar Nero. La via nord, fatta saltare dalla resistenza cecena, ha trovato un rilancio inaspettato quando la russa Gazprom ha deciso di affidare all’Eni la costruzione di un oleodotto sottomarino considerato avveniristico, il Blue Stream, che attraversa il Mar Nero fino alle coste della Turchia a una profondità di 2.115 metri.
Se gli americani hanno rimestato nel torbido anche i russi non si sono fatti pregare. Grazie alle inchieste di Anna Politkovskaya, la giornalista più odiata dal Cremlino, si è saputo qualcosa sulla complicità delle forze armate russe con i separatisti georgiani, una complicità che mette d’accordo gli interessi strategici superiori di Putin e il mero interesse personale degli ufficiali della 58esima armata di stanza in Cecenia che si arricchiscono con il contrabbando di ogni sorta di articoli, dall’alcol alla droga, dalla benzina alle armi. E non si tratta di armi di poco conto: attraverso le frontiere del Caucaso circolano armamenti modernissimi che, inevitabilmente, finiscono nelle mani della guerriglia cecena. Il gioco di Mosca nella regione è infatti estremamente rischioso: da una parte si presenta come garante dell’ordine e dall’altra alimenta secessioni locali nella speranza di annettersi porzioni consistenti delle regioni petrolifere. L’aiuto ai separatisti georgiani e il conflitto con il governo filo-americano di Saakashvili vanno in questa direzione.
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