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Scendere in piazza, prima forma di democrazia (intervista a Massimo Fini)

di carlo passera - 05/10/2006

Massimo Fini, in questi giorni si fa un gran parlare di legge finanziaria. Il centrosinistra afferma che aiuta lo sviluppo, l’opposizione è convinta che colpisce invece il ceto medio. Tu che idea te ne sei fatto?
«La questione è sempre quella della coperta troppo corta. Indubbiamente è una finanziaria che penalizza il ceto medio, però quasi sempre è stato così anche in passato, perché si pescano risorse dalla fascia numericamente più consistente di popolazione. In più c’è la questione irrisolta e non so quanto risolvibile (se non altro perché non c’è mai una reale volontà di risolverla) della grande evasione fiscale. Il governo precedente condusse una gran campagna sulla riduzione delle imposte, ma alla fine le lasciò sostanzialmente immutate. Ora invece il giochetto è diventato quello di scaricare le difficoltà a livello locale; ma non voglio addentrarmi nell’analisi di ogni singolo provvedimento, anche perché tutte le categorie colpite hanno sempre qualche buona ragione per lamentarsi. Il dramma di fondo è un altro».
Qual è il dramma di fondo?
«L’ho sottolineato varie volte: oggi nessun Paese - anche avendo una classe di governo migliore della nostra - può controllare l’economia, che prescinde dalle scelte degli esecutivi nazionali».
Dunque, vi sono fattori che dipendono dai meccanismi dell’economia globale. Ma certamente la situazione italiana è appesantita dai problemi tipici di casa nostra...
«Noi abbiamo un enorme debito pubblico accumulato negli anni Ottanta, quelli della cosiddetta Prima Repubblica. Per questo mi irrito quando un Giuliano Amato o un Pierferdinando Casini - tanto per fare due nomi degli opposti schieramenti - rivendicano i meriti dell’epoca: si assumano allora anche la paternità pro quota di tale disastro economico!».
Insomma, subiamo il combinato disposto di un dramma internazionale...
«...e di uno italiano, maturato negli anni in cui per procurarsi consenso la classe politica sperperò pubbliche risorse attraverso facili pensioni di anzianità, finti assegni di invalidità, pensioni baby e d’oro, né volle tener conto di come la popolazione stesse invecchiando. Insomma, non ha fatto il suo dovere e ora tutto il peso dello spreco ricade sulle giovani generazioni. Ecco, sarebbe perlomeno necessario che i colpevoli di quel buco sparissero dalla circolazione e non si proponessero come attuale classe dirigente; invece proprio a questo stiamo assistendo».
Prima hai sottolineato come Roma tenda sempre più a tagliare i fondi destinati al territorio, costringendo Comuni, Province e Regioni ad aumentare le imposte locali. Alcuni vedono in questa manovra il tentativo malcelato di gettare cattiva luce sul federalismo fiscale - e sul federalismo tout court -, quasi una manovra scientificamente studiata; altri si limitano a osservare che tale impopolarità sarà perlomeno una diretta conseguenza, magari non perseguita scientificamente, ma certo inevitabile. Tu che cosa ne pensi?
«Sono veri entrambi gli aspetti: la ricaduta negativa sull’immagine del federalismo è sicura, anche quando non fosse voluta; d’altra parte non dispiace affatto alla classe politica romana che è ostile a un cambiamento di tipo autonomista. Ma ripeto il problema di base: in un sistema economico globalizzato tutte le popolazioni, sia di questo che del terzo mondo, sono chiamate a pagare costi inusitati e non si capisce bene perché, a quale fine».
È la tua classica metafora: tutti corrono, quindi nessuno può fermarsi, e d’altra parte si è su un tapis roulant, quindi correndo si rimane fermi.
«Esatto. E un Paese non può uscirne da solo, perché chiamandosi fuori dalla competizione cadrebbe in condizioni di sottosviluppo che ormai non sono più tollerabili. Ormai non si può nemmeno pensare a una forma di autarchia in un solo Paese. Non riesco a immaginarmi vie d’uscita, ma vedo molto bene cosa sta accadendo: siamo costretti a fare sacrifici sempre maggiori, ma per nulla. Si dice: l’economia è in ripresa, oppure ristagna. Ma noi in realtà non ce ne accorgiamo. Non c’è mai una concreta ricaduta sul singolo cittadino».
L’euro ha in verità avuto effetto palese, e peraltro negativo.
«Sì, però ha bloccato la politica di sperpero che i governi italiani avevano irresponsabilmente condotto negli anni precedenti, grazie alla quale correvamo verso una prospettiva argentina. Rischiavamo la chiusura dei conti correnti e il consolidamento dei Bot... Purtroppo la democrazia è spesso venata di demagogia, perché la classe politica deve cercare il consenso e quindi non ha il coraggio di adottare provvedimenti magari utili, ma impopolari».
Torniamo alla finanziaria. L’opposizione l’ha duramente criticata e ha annunciato: «Scenderemo in piazza per dare voce all’insoddisfazione popolare». Prodi ha replicato: «Andare in piazza è rischioso». Ha ragione il premier?
«Assolutamente no. In democrazia scendere in piazza è il primo diritto del cittadino; ancor prima che col voto può manifestare in questo modo le proprie opinioni. L’articolo 17 della Costituzione spiega: “I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz'armi. Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica”. Quello che dice Prodi è dunque totalmente antidemocratico. D’altro canto è curioso che la Casa delle libertà scenda in piazza ora, quando negli anni scorsi aveva parlato con estremo disprezzo dei girotondi, manifestazioni pacifiche che esprimevano contenuti più o meno condivisibili, ma certo legittimi e non disprezzabili in sé. Era vivaddio il tentativo operato dal cittadino di dire la sua al di fuori del Parlamento».
È curioso che la sinistra parli di rischio-piazza, quando da sempre i partiti dell’attuale maggioranza e i suoi addentellati sindacali utilizzano i cortei in funzione politica...
«Certamente, è del tutto pazzesco. Di volta in volta chi è al governo teme le piazze e contesta il diritto della popolazione a far sentire pacificamente la propria voce; chi è all’opposizione rivendica invece tale diritto. La piazza è, in generale, il terrore dei politici, che vorrebbero continuare a gestire le faccende del Paese negli androni dei Palazzi o trattando sottobanco e preferiscono evitare di trovarsi di fronte gente in carne e ossa».
La piazza è il luogo in cui si fanno le rivoluzioni.
«Nell’attuale democrazia rappresentativa, dominata da oligarchie di potere che fanno il bello e il cattivo tempo (pensiamo all’indulto), la piazza è l’unico luogo nel quale il cittadino può veramente far sentire le proprie opinioni, giuste o sbagliate che siano. Altrimenti il popolo non ha voce, perché il cordone ombelicale tra rappresentati e rappresentanti è solo fittizio, qualcuno ci crede ancora ma io non più, l’ho scritto nel mio libro Sudditi, manifesto contro la democrazia».
In qualche modo la piazza incarna dunque il contropotere rispetto al governo in carica?
«Sì, un contropotere che però spesso ha la sola funzione di testimonianza, perché in linea di massima i governi se ne fregano».
Magari fanno anche bene: spesso la piazza rappresenta una minoranza organizzata che non corrisponde necessariamente agli umori della maggioranza popolare. Ricordo i tempi della cosiddetta “maggioranza silenziosa”, che non si vedeva per strada ma alle urne faceva vincere la Dc...
«Lo so, c’è questo rischio. Ma proprio i girotondi, tanto per fare un esempio, rappresentavano la maggioranza silenziosa che sembrava palesarsi. Se poi però quando accade si dice che è pericolosa, come spiega ora Prodi... Io mi auguro che il cittadino non caschi in questa trappola nella quale vogliono spingerlo i dirigenti politici, perché la piazza è l’unico modo che ha per farsi sentire e dunque deve sempre difenderla, anche quando sfilano idee che non ci piacciono. Del resto ti ricorderai l’inaudita ostilità che circondò alcune grandissime e interessantissime manifestazioni della Lega Nord, penso a quella sul Po, dove si radunarono oltre 700mila persone. Eppure fu accolta nella totale ostilità e subì il tentativo di diminuirne il valore, iniziando con la falsificazione sistematica dei numeri relativi ai partecipanti».
La piazza è di destra o di sinistra?
«Dipende dalle epoche storiche. Certamente dal secondo dopoguerra in poi la piazza è stata più di sinistra che di destra, ma già un fenomeno come quello dei girotondi era sostanzialmente trasversale, metteva insieme cittadini di diverso orientamento».
Con una netta predominanza di cittadini di sinistra!
«A piazza San Giovanni s’è radunato un milione di persone, senza alcun impulso dei partiti: non erano tutti di sinistra, i partiti di quell’area sono in grado di mobilitarne a dir tanto 200mila! Io c’ero, e non sono uomo di sinistra».
In piazza viene ghigliottinato Luigi XVI ma, poco dopo, anche Robespierre. Ovvero: la piazza rappresenta anche la mutevolezza degli umori popolari, che spesso si fanno trascinare dalle emozioni o dal tribuno più efficace. Non è un limite, questo, della piazza come luogo della politica, e della democrazia diretta in generale, che tu pure preferisci a quella rappresentativa?
«Il limite c’è. Ma d’altra parte le stesse democrazie sono nate attraverso rivoluzioni di piazza che hanno sparso fiumi di sangue. E anche nel futuro, nel momento in cui la situazione diventasse totalmente intollerabile, lo scenario potrebbe ripetersi. Non vedo perché non ci si dovrebbe ribellare nelle piazze contro una democrazia che non è più tale».
Ma il rischio della “demagogia di piazza” non è forse ancora più alto in un Paese come il nostro, dove non esiste una forte cultura istituzionale? Non si rischia la perenne strumentaliz- zazione?
«La classe dirigente fa comunque demagogia, che abbia di fronte a sé la piazza o la telecamera. Mi pare fuorviante bollare di populismo qualsiasi pacifica manifestazione di cittadini».
E in qualsiasi caso è bene che vi sia una attiva partecipazione del cittadino alla vita del Paese...
«Esatto. La piazza rappresenta la non-passività del cittadino, il quale esce di casa e spende un suo pomeriggio a fare politica, invece che rimanere incollato davanti la tv a vedere Pippo Baudo».
Come è evoluta la piazza in questi ultimi decenni, durante i quali si è assistito a un crollo generalizzato della passione e della partecipazione politica? Negli anni Settanta la piazza era il luogo della politica e dello scontro anche violento, oggi la situazione è molto diversa, nel bene e nel male.
«La partecipazione di allora è venuta meno proprio per il fallimento di quei movimenti, che cavalcavano il marxismo-leninismo. Che i tempi siano cambiati lo dimostra l’ostilità con il quale qualche anno fa è stato accolto un movimento innovativo come quello leghista, subito osteggiato e poi innocuizzato. La gran parte dei giovani è disinteressata alla politica, fa altre cose. Rimangono minoranze militanti molto motivate, spesso però al di fuori del consueto schema destra-sinistra. Trovano comunque enormi difficoltà a trovare una voce e un’audience».
Infatti c’è una profonda spaccatura tra minoranze militanti e maggioranza disinteressata.
«Lo vedo anche con questo mio Movimento Zero, composto da tanti giovani motivati. Ma come si fa a muoversi tra mass media monopolizzati da altri interessi?».
E come dare completamente torto a chi si disinteressa della politica? Sappiamo come quest’ultima non riesca più a governare l’economia, anzi ne sia del tutto succube, nel mondo globalizzato.
«La politica appare del tutto sterile. Finisce così che vi accorra gente senza arte né parte, con l’intenzione di farne un puro strumento di affermazione personale. Il crollo delle ideologie e il cambiamento del clima sociale (dalle grandi speranze del dopoguerra al nulla di oggi), ha portato con sé anche il venir meno delle illusioni. Sarebbe interessante fare un’inchiesta sulle aspettative delle giovani generazioni: hanno niente a cui appigliarsi e d’altro canto è vero che non si può vivere di solo pane. Ma forse bisognerà attendere il giorno in cui prenderà a scarseggiare anche quest’ultimo per assistere davvero a un risveglio delle coscienze».