Il bue. Simbolismo e funzione sacra nei rituali ellenici
di Nuccio D’Anna - 02/05/2017
Fonte: Centro Studi La Runa
Per una lunga continuità di secoli i buoi e i tori hanno costituito l’offerta fondamentale nei rituali dell’Ellade, sono state le vittime sacrificali che, assieme agli strumenti sacri utilizzati nelle immolazioni, sono state considerate non solo da Bernhard Laum che ne ha descritto tutti i movimenti, ma anche da molti altri studiosi, anche le più importanti “forme” di scambio con valore “pre-monetario” delle età più antiche. E sono stati proprio i bovidi ad essere utilizzati anche come unità di conto prima nella civiltà minoico-cretese e poi nella società aristocratica tratteggiata nei poemi omerici. Secondo Bernhard Laum il bue e il toro avrebbero acquisito questo fondamentale valore contabile in virtù delle loro funzioni rituali, come una sorta di derivazione tecnico-pratica e commerciale, oppure come un particolare adattamento ad hoc, della funzione specificatamente religiosa coperta nei sacrifici e negli olocausti.
Un esperto di studi preistorici come Jacques Cauvin spiegava che il ruolo dei bovini e dei tori nella vita spirituale delle civiltà fiorite attorno al Mediterraneo è stato amplissimo già a partire da periodi molto antichi. È possibile documentarne la grande estensione anche nei ritrovamenti dei numerosi depositi che contengono quantità varie di corna, scapole e bucrani, oppure nei graffiti preistorici e nei tantissimi rilievi parietali di vario tipo e consistenza. Tracce di questo importante e duraturo ruolo sacro del bue e del toro possono essere seguite sino all’epoca in cui vigoreggiavano le “religioni pre-elleniche” e per certi aspetti è persino possibile risalire fino ad un tempo precedente la cosiddetta diaspora indoeuropea. Appoggiandosi agli studi di Eduard Hahn (uno specialista di antropo-geografia, di etnologia e sociologia che aveva fatto emergere con molta precisione non solo le radici sacre dell’antica agricoltura europea, ma anche la provenienza originariamente rituale dei primi strumenti agricoli), ben conosciuti ed apprezzati dalla cultura tedesca degli inizi del Novecento, Bernhard Laum riteneva che molto spesso sono stati i fattori più precisamente religiosi a dare uno speciale significato spirituale e un valore rituale ai bovidi e alla loro stessa complessiva funzione sacra continuatasi abbondantemente anche in epoca classica. Strabone (X, 483 C) ricorda che a Creta, durante le iniziazioni giovanili, nel momento culminante del rituale che mimava il rapimento di un giovinetto, il rapitore aveva l’obbligo di compensare il ratto del giovane portando una quantità di “doni riparatori” che in realtà costituivano vere e proprie offerte votive alla divinità cui entrambi erano consacrati. Alcuni di questi agalmata appaiono estremamente significativi per il ruolo contemporaneamente rituale e “pre-monetario” che hanno coperto nei rituali guerrieri del mondo ellenico:
- l’armatura, dono privilegiato dei sovrani agli Eroi, che si spiega con il contesto guerriero nel quale si svolge l’iniziazione e con le speciali caratteristiche di tipo sacrale che venivano attribuite ad ogni armatura;
- la coppa, fondamentale per la sua funzione durante tutto il sacrificio, ma anche nel banchetto che dovrà concludere la cerimonia sacra e, ovviamente, per il suo simbolismo sacro che emerge in una quantità non piccola di rituali vari. È il tipico oggetto ricco di simboli che, come ricorderà anche Pindaro (Ol. VII, 4), ha avuto ampie ed indubbie funzioni nei sacrifici. Sarà proprio questa molteplicità di valori a consentire che la coppa si potesse trasformare in un mezzo specialmente adatto per esibire il prestigio e la ricchezza dei proprietari;
- il bue, che il giovane guerriero era tenuto a sacrificare perché era considerato l’animale per eccellenza da immolare, l’offerta “più gradita agli dèi”, come ha sottolineato più volte Omero nei suoi poemi, quella ritenuta più adatta a propiziare la stessa trasfigurazione iniziatica del giovane guerriero giunto all’apice del rituale.
La regolare presenza di uno o più buoi come animali fondamentali da offrire nelle immolazioni oppure negli agoni a sfondo cultuale, nei giochi sacri, nello scambio dei doni e nelle primordiali forme di commercio, appare persistente e continua. Come documentano con chiarezza i poemi omerici, assieme agli strumenti necessari per la sua immolazione e per la consumazione cerimoniale delle carni sacrificate, la sua stessa centralità nelle funzioni rituali rendeva il bue una unità di conto imprescindibile. Vi erano anche norme sacre molto rigide che regolavano come calcolare gli altri beni, l’eventuale prezzo del riscatto e persino il valore da attribuire ai doni di ospitalità comparandone però sempre il valore a quello del bue. Secondo Omero (Il. VII, 321), dopo il sacrificio, quando i guerrieri si radunavano in cerchio secondo una gerarchia rispettosa del loro rango sociale, la carne dei buoi sacrificati veniva distribuita seguendo un ordine decrescente che iniziava dai più celebri Eroi e poi andava a toccare via via gli altri guerrieri. Era la stessa gerarchia che si imponeva anche nella valutazione della quantità e della tipologia di bottino assegnato ai vincitori.
Tutte le civiltà che sono fiorite in Europa (si pensi per es. alle tante raffigurazioni di corna di toro nelle grotte di Lascaux), attorno al Mediterraneo e nel Vicino Oriente hanno manifestato per il bue e per il toro un interesse specificatamente religioso fin dalla preistoria e gli hanno sempre riservato una posizione preferenziale in molte costruzioni mitologiche e nelle cerimonie sacre. In Egitto era allo stesso Faraone che annualmente veniva affidato il compito ineludibile di cacciare un toro selvaggio da offrire poi in sacrificio, cosa che secondo il vecchio, ma ancora valido Alexandre Moret quasi certamente potrebbe indirizzare verso un rituale di rinnovamento cosmico e di “trasfigurazione divina” del sovrano-dio. Ma anche in Africa, a Kef Mektouba di Kasr el Ahmar (Sahara-Atlante), Leo Frobenius era riuscito a scoprire una serie di incisioni rupestri che raffiguravano uomini oranti (quasi sicuramente dei sacerdoti) con le braccia elevate posizionati davanti ad un enorme bovide. Da parte sua Joseph Weisweiler —seguito da studiosi autorevoli nelle rispettive discipline come Franz Altheim, Mircea Eliade, Jan De Vries e in modo speciale Wolfgang Krause nei suoi studi sulla runa *ûruz, “uro”, “bue selvaggio”—, si era spinto fino a supporre un’intera fase della civiltà preistorica dell’Europa del Nord incentrata significativamente sul simbolismo del cervo contrapposto a quello del bue. Anche nelle tombe reali di Maikop, nel Caucaso, forse risalenti al III millennio, sono state ritrovate placche votive in bronzo raffiguranti tori e cervi il cui stile si ritiene simile a quello delle statuette ritrovate in Anatolia. Da parte sua Henri Frankfort faceva notare che anche le tecniche manifatturiere caratterizzanti la lavorazione dei cosiddetti “tori di Vieyra” ritrovati proprio nella zona di Maicop, sembrano indirizzare con chiarezza verso influssi provenienti dal lontano altopiano anatolico e forse anche dallo stesso Caucaso della cui cultura tutti questi reperti sembrerebbero aver risentito abbondantemente.
È proprio a causa di quest’originario fondo sacro strutturato su una solida base rituale, molto pervadente e ampiamente esteso, che il bue e il toro hanno potuto acquisire il loro valore cerimoniale in molte civiltà antiche, mentre l’importanza complessiva dei bovidi nei rapporti economici sembrerebbe essere subentrata in un secondo tempo come uno sviluppo, e solamente dopo un processo di progressiva secolarizzazione che a poco a poco li ha svincolati dalle originarie funzioni sacrificali.
Tuttavia, questo processo di laicizzazione deve essere stato piuttosto lento e non sempre facile o lineare. Qualche traccia del precedente valore sacro attribuito al bue sembra essersi conservata a lungo ed è giunta a toccare persino quelle monete cretesi forgiate in epoca già storica che significativamente hanno continuato a portare la testa del bue incisa sul recto. Ma le testimonianze sono varie e vanno dall’usanza tipica degli atleti egei vincitori nelle gare di afferrare, per ucciderlo, le corna del bue infuriato o del toro avuto in premio (un gesto di lotta, vittoria e trasfigurazione inteso a mimare l’azione sacrificale che ha perpetuato fino in piena epoca storica un combattimento agonistico dai chiari contorni cerimoniali dell’uomo contro il bue/toro), all’abitudine mai spentasi e durata sino al termine della civiltà classica, della popolazione di Delo di lanciare in aria le monete (ormai conosciute correntemente come drachmē il cui legame essenziale con la vita rituale è ormai abbastanza noto) durante alcune festività dell’isola chiamandole significativamente buoi –una speciale dizione che fuori da questo solido contesto rituale non avrebbe alcun significato.
Eduard Hahn aveva persino elencato tutta una serie di documenti che, contrariamente a quanto si è creduto per molto tempo, inducono a ritenere che agli inizi il bue non fosse utilizzato come bestia da soma (l’abituale “attacco” in coppia assicurato sotto le corna, forse riconducibile alla fine dell’età del bronzo, mostra la sua “modernità” e indirizza verso la cosiddetta tecnica “moderna” usata anche per i cavalli che si differenzia dal primitivo attacco detto “antico”) e probabilmente neanche come animale puramente commestibile utile per soddisfare bisogni primari. Il consumo della sua carne, infatti, era legato alle sacre oblazioni e solamente dopo aver compiuto il sacrificio rituale venivano distribuite alla comunità festante alcune parti arrostite dell’animale. Il banchetto (e la conseguente consumazione della carne) non aveva alcun intento profano. L’immolazione dell’animale e la partecipazione collettiva al simposio erano atti sacri, ristabilivano un ordine alterato: “l’animale si pone in un rapporto di polarità rispetto al dio”, dice Walter Burkert, “la sua morte conferma e contrario la superiorità dell’‘altro’ essere, senza morte, ‘colui che è eternamente’, Dio”. E come è stato più volte annotato, dopo il rito i magistrati appositamente incaricati si recavano a vendere le pelli e le altre parti dell’animale che appartenevano di diritto al personale del tempio, costituivano un privilegio esclusivo ed indiscutibile dei sacrificatori-“sacerdoti”. Così, persino queste speciali particole dell’animale immolato continuavano ad assolvere una molteplicità di funzioni, contemporaneamente sacrali, simboliche ed economiche.
A conferma delle ricerche pionieristiche di Eduard Hahn, in una lunga ed insuperata memoria del 1932 che ha fatto epoca, Robert Forrer documentava che alle origini lo stesso indubitabile legame del bue con il carro sembra potersi attribuire non alle necessità del lavoro dei campi o alla volontà di alleviare la fatica dell’agricoltore primitivo, ma alla trasposizione tecnico-operativa (o al suo “riadattamento”) di un simbolismo cosmico derivato dalla costellazione del Carro Celeste e, perciò, alla quasi-laicizzazione e secolarizzazione dell’immagine sacra del carro rituale trainato dal bue nelle processioni. Da questo originario status archetipico e cosmico-religioso sarebbe derivata la trasposizione del simbolismo del bue e del carro nel lavoro umano e il suo adattamento ad un livello profano e tecnico-pratico. Anzi, a questo proposito è forse utile ricordare la profonda solidarietà esistente fra queste dimensioni simbolico-sacrali e il valore esemplare dei septem triones che, come è ampiamente noto ad ogni latinista, nella cosmologia classica fuggevolmente presentata anche dal bibliotecario di Cesare, l’eruditissimo Varrone, sono proprio questi animali ad aver dato il nome alla sede polare, il Septemtrionem (“nostri eas septem stellas triones et temonem et prope eas axe”: Varr., De lingua lat., VII, 4, 74).
È la grande importanza rituale del bue che spiega perché il Grande Carro polare è raffigurato mentre viene tirato dai “sette buoi” (significativamente il simbolismo astrale esclude qualsiasi altro animale importante per i Greci, come per es. poteva essere il cavallo, il cervo, il leone, ecc.) che lo trascinano perpetuamente attorno ad un “perno fisso” posto nel quadrante Nord del cielo. Qui i “sette buoi” trasportano lentamente il “carro cosmico” per “arare” la porzione di “terra” che delinea il loro quadrante celeste e in questo pigro girovagare impiegano un “anno cosmico” le cui scansioni temporali avranno poi il compito di ritmare alcuni momenti importanti del calendario liturgico ellenico. È un tempo lunghissimo che corrisponde esattamente a quello che nell’India antica era conosciuto come un “regno di Dhruva”, la rotazione completa di 360 gradi del “perno” cosmico, il Polo Nord.
L’importanza di questo animale nelle cerimonie sacre di tutta l’antichità è confermata anche dagli scavi archeologici più recenti effettuati in tutta l’area del Vicino Oriente. In un affresco di Ҫatal Hüyük, un grande toro è raffigurato mentre viene assalito da uno stuolo di guerrieri che significativamente brandiscono armi sacrificali come archi, asce e “spiedi”. Si tratta di una vera e propria tauromachia primordiale, un rituale esteso ad una intera collettività guerriera, una immolazione sacra alla quale, proprio per il suo probabile carattere di combattimento ordalico, forse dovevano partecipare tutti i “guerrieri sacri” membri delle confraternite iniziatiche. Sembra opportuno, infatti, pensare che l’affresco raffiguri un gruppo di cacciatori-specialisti per i quali la guerra, il combattimento o la caccia costituiva una forma di sacrificio cosmico al quale potevano prendere parte solo giovani iniziati appartenenti alle confraternite dei “guerrieri sacri”. In realtà, è veramente difficile pensare che tutta una comunità di un villaggio preistorico, oppure i campagnoli non addestrati (e usualmente non armati) di qualche società contadina potessero attrezzarsi con le armi sacre dipinte in questi affreschi (l’arco, l’ascia o il lungo “spiedo”), e partecipare collettivamente ad un rituale di caccia che proprio per i suoi caratteri élitari non poteva che essere riservato ai soli giovani appartenenti a qualche consorteria di “guerrieri-iniziati”!
Sono raffigurazioni che ritorneranno in vario modo nelle tante pittografie delle cerimonie sacre che rivestono le pareti dei palazzi minoici o cretesi, quelle nelle quali un atleta sacro o un giovane guerriero viene raffigurato mentre affronta un toro. In realtà, queste scene molto spesso ritraggono il momento culminante della taurokathapsia, il salto dell’atleta sul toro furente. Sviluppando tutta una serie abbastanza numerosa di testimonianze pittografiche, numismatiche ed epigrafiche le cui tracce possono essere seguite almeno fino alla civiltà sumerica, Bernhard Laum pensava addirittura di ritrovarle in una formulazione quasi identica anche nelle regioni a Nord della Grecia e specialmente in Tessaglia, e di poterle assimilare alla caccia al toro secondo una fenomenologia rituale che percorrerà per intero anche la civiltà egeo-minoica fino a tempi ormai pienamente “classici”. Si tratta di realtà rituali che l’artista ha “fissato” nel loro momento culminante, quando il salto dell’iniziato concludeva il cerimoniale e avviava verso l’immolazione dell’animale. Del resto, la stessa raffigurazione di queste scene nelle pareti dei sacri palazzi reali non può essere pensata come una sorta di vano diletto dei potenti del tempo. Non è immaginabile, infatti, che l’omphalos di quella civiltà, quello che era considerato un vero e proprio umbilicus mundi, il palazzo sacro nel quale risiedeva il sovrano, il “re, sacerdote e mago” nella cui persona culminava tutto il rituale della tradizione religiosa che egli aveva il compito di custodire ed alimentare, potesse essere raffigurato con scene puramente decorative (secondo una mentalità tipicamente moderna) e non, al contrario, con immagini di cerimonie sacre e di metamorfosi spirituali le quali avevano il compito di inverare la dimensione rituale rappresentata nelle pareti di questo umbilicus mundi.
La stessa “quasi-omogeneità” di formulazione pittografica con la quale si trovano rappresentate le celebrazioni sacrificali in molte aree culturali anche lontane dall’Egeo, aiuta a capire l’autentico fondamento al quale ha attinto la speciale religiosità legata ai bovidi che grazie alla sua stessa varietà di espressioni sembra essere stata in grado di oltrepassare molte delle barriere culturali esistenti fra le diverse civiltà vicino-orientali. Con la loro costante presenza il bue e il toro non solo sono stati i protagonisti principali degli arcaici sacrifici nell’area mediterranea, ma hanno alimentato abbondantemente anche quella che uno studioso della preistoria come Jacques Cauvin ha chiamato “la rivoluzione dei simboli del Neolitico”.
Persino il numero dei buoi (1, 4, 9, 12, 20, 100) che secondo Omero venivano usualmente immolati nei diversi sacrifici, oppure utilizzati come unità di conto in moltissimi racconti, diventerà il riferimento fondamentale e costante anche nella determinazione del valore degli altri beni. All’alba della civiltà “classica” proprio Omero ricorderà ancora le diverse quantità di buoi occorrenti ad ogni giovane aspirante sposo per ottenere una specie di dote indispensabile per chiedere in moglie una fanciulla. E il dono dei buoi alla famiglia della giovane promessa era ritenuto tanto importante ai fini della riuscita del contratto matrimoniale, che ogni ragazza in età da marito veniva chiamata ἀλφεσίβοιος, “quella che porta i buoi” [a suo padre].
Il caso dell’“ecatombe”, il sacrificio di 100 buoi, è forse il più interessante e può aiutarci a chiarire molti aspetti di queste operazioni sacrificali. Recenti analisi linguistiche hanno dimostrato che in greco e in altre lingue indoeuropee il termine veniva usato sia in riferimento alla quantità dei buoi sacrificati sia come indicazione “esemplare” del valore “quasi-monetario” coperto da questo animale. Proprio in virtù di questo complesso sistema rituale Omero ha potuto stimare come corrispondenti ad un valore di 100 buoi le armi di Glauco che dovranno essere scambiate con quelle di Diomede valutate invece solamente 9 buoi (Il. VI, 235). Così anche Licaone dovrà dare ad Achille 100 buoi come pagamento di un riscatto (Il. XXI, 79), Laerte potrà acquisire Euriclea pagando 100 buoi (Od. I, 430-431), e ad ogni ascoltatore dei poemi omerici sembrerà cosa assolutamente normale che ciascun crine dorato dell’egida dell’eccelsa dèa Athena debba essere valutato 100 buoi, il massimo concepibile per ogni buon Acheo (Il. II, 449). Come risulta evidente da questi rapidi cenni, l’ecatombe non è solo il sacrificio omerico per eccellenza, quello “più gradito agli dèi”, ma anche un atto rituale con valore “esemplare” ed archetipico che ha una sua precisa base ponderale perché “vale 100 buoi” e “fa” 100 buoi.
Procedere ad una grande immolazione come l’ecatombe trascende le esigenze che dettano l’adempimento di ogni abituale sacrificio e colloca questo rito in una dimensione cosmica che non può essere delimitata all’interno di una delle solite manifestazioni di magnificenza dei sovrani omerici trasposta su un piano sacrificale. Non solo, proprio a causa dei suoi fondamenti sacrali il bue (e, dunque, per molti aspetti anche l’ecatombe, considerata sempre l’atto sacrificale più completo) è servito non solo a commisurare il valore di ogni singolo bene, ma anche ad indicare la forma sacra “archetipica” che ha orientato per lungo tempo molte misurazioni ponderali. Come è evidente, l’immolazione di “100 buoi” era considerata l’azione sacra “esemplare” del mondo omerico, quella che alimentava anche tutti i riferimenti ponderali ritenuti essenziali per indicare la quantità di beni occorrenti nella registrazione della ricchezza mobile. Bernhard Laum ricordava che “le diverse cifre relative ai buoi offerti in sacrificio ricorrono con molta frequenza nei poemi omerici”, e forse proprio a causa del loro radicamento rituale a poco a poco queste cifre furono considerate veri e propri “numeri sacri”, valori di una realtà spirituale e simbolica rivelantesi su un piano archetipale. L’intera serie di questi numeri assumerà il valore di un’“indicazione esemplare” cui sarà impossibile sottrarsi; questi numeri diventeranno “segni archetipali”, “forme formanti” con una loro fortissima carica simbolica che per molti aspetti continueranno ad avere un ruolo importante persino in molta parte delle successive speculazioni filosofiche. Si tratta di cifre, numeri e segni ordinati sempre, e con una costanza che non lascia spazio ad alcun dubbio, attorno al bue quale animale da sacrificio valutato, proprio come conseguenza inevitabile di questi aspetti rituali e non certo come frutto del puro caso, anche come fondamentale unità di conto —forse con la sola eccezione del numero 4 del cui utilizzo rituale, d’altronde, si hanno modeste attestazioni che tuttavia sembrano autorevolmente confermate dalla menzione di Il., XXIII, 704-705: “per lo sconfitto come premio pose una donna / esperta in molti lavori, che valeva 4 buoi”[1].
[1] Per le modalità valutative delle vittime dei sacrifici cfr. L. Soverini, Qualità e prezzi delle vittime sacrificali, in N. Parise (cur.), Bernhard Laum. Origine della moneta e teoria del sacrificio, cit., pp. 111-119.
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[Il presente studio è il cap. V, pp. 65-74 del libro di Nuccio D’Anna, Le radici sacre della monetazione, Solfanelli Editore, Chieti, 2017. Ringraziamo l’Autore per aver dato il permesso di pubblicarlo nel nostro blog].