Afghanistan: L'arruolamento delle Ong
di U.F. - 09/10/2006
Le mine fabbricate da italiani vengono fatte brillare da altri italiani e l'arco si chiude a cinquemila chilometri da dove era partito. (E. Albinati) Ennesimo paradosso pacifista: nello scorso luglio, in occasione del voto parlamentare per la proroga dell'intervento militare italiano in Afganistan, la quasi totalità delle Ong (Organizzazioni Non Governative) ha appoggiato le scelte governative favorevoli non solo a rifinanziare, ma anche aumentare, la presenza delle forze armate italiane impegnate con propri reparti a Kabul ed Herat, con la possibilità d'estendere la loro operatività anche nelle province meridionali, nel contesto strategico della missione Isaf-Nato. In verità, tale appoggio è stato espresso in forma problematica, ma rimane pur sempre un fatto politico significativo che gran parte delle Ong italiane - se si eccettua Emergency - siano scese in campo per sostenere, legittimandolo, un intervento a tutti gli effetti belligerante dello Stato italiano, nell'ambito dell'occupazione militare di un paese che certo non ha dichiarato guerra all'Italia. Vediamo comunque, seppure sinteticamente, le tappe dell'impegno delle Ong italiane e internazionali in Afganistan. La maggioranza di esse (Intersos, Acted, Scf, Action contre la faim, Solidarité, Ami, Gaa, Goal…) giunsero in terra afgana sul finire del 2001, al seguito dell'operazione "Enduring Freedom" scatenata dopo l'Undici settembre, in un paese devastato dai bombardamenti Usa e dai combattimenti tra l'Alleanza del Nord e le forze talebane, allo scopo di fornire assistenza alle grandi masse di profughi in movimento. L'associazione Medecins sans frontières si trovava invece dai primi anni Ottanta, ai tempi dell'occupazione russa, mentre Emergency era attiva in territorio afgano sin dal 1999, con un progetto di assistenza socio-sanitaria, soprattutto per far fronte alle conseguenze, tragiche, delle mine disseminate a milioni in tutto il paese durante la guerra anti-sovietica e i diversi conflitti interni. Nel 2004 però, Medici senza frontiere, dopo l'assassinio di cinque suoi operatori nel giugno di quell'anno, decideva di mettere fine alla propria esperienza. In tale occasione, Stefano Savi, direttore di Msf-Italia, denunciava che ormai i rischi per i volontari civili erano divenuti altissimi a causa della condotta dei militari. "Intanto vale ricordare – dichiarava - che in Afganistan è frequente che uomini delle forze speciali della coalizione, personale militare o di intelligence, si muovano in abiti civili. Questo è già un fattore di confusione (…) Poi c'è il lancio di aiuti dagli aerei. Se i militari danno aiuto così come lo fanno i civili, la confusione aumenta. Terzo fattore, il più grave, i militari della coalizione hanno distribuito dei volantini che vincolano la distribuzione di aiuti alla collaborazione. Così facendo, chi opera in maniera neutrale viene necessariamente identificato con gli eserciti e gli operatori diventano obiettivi". Infatti, in questi ultimi anni, sono state centinaia le vittime e i rapimenti - come quello dell'italiana Clementina Cantoni, di Care International, nel 2005 - tra il personale delle Ong di ogni paese, talvolta scambiati anche per mercenari operanti per conto di compagnie private di sicurezza, coperte e talvolta persino finanziate per la loro sedicente attività di cooperazione. Anche numerose imprese, coinvolte nel lucroso giro d'affari della ricostruzione, sono solite presentarsi come organismi cooperanti, tanto che lo stesso governo di Kabul, nei primi mesi di quest'anno, ha denunciato lo spreco di miliardi di dollari da parte delle Ong occidentali e ha revocato le autorizzazioni a oltre 1.600 organizzazioni non governative, tra cui 132 straniere, accusandole di essere implicate in casi di frode e corruzione. La situazione, per le Ong, si è andata aggravando ulteriormente con la creazione dei Team provinciali per la ricostruzione (Prt), attraverso cui l'Isaf-Nato ha iniziato a proiettare la propria azione nelle diverse province. Fin dagli anni Novanta, quasi tutti i paese europei avevano già teorizzato e sperimentato l'integrazione tra componente militare e umanitaria nelle missioni "di pace", a partire almeno dal Kosovo, quindi in Afganistan e poi in Iraq. Inizialmente, numerose Ong, pur di ottenere finanziamenti per realizzare i loro progetti, accettarono tale logica (basti ricordare lo scandalo italiano della missione Arcobaleno, nel '99) e le agenzie di cooperazione, governative e non, di diversi paesi avevano seguito le truppe in Iraq e Afganistan. Il modello individuato da statunitensi, britannici, olandesi e altri è quello denominato Cimic (Civil-Military Cooperation) ed ha trovato proprio nei Prt la sua concreta realizzazione. I Prt tendono infatti a mescolare civile e militare, sia per funzioni che per personale, facendo della collaborazione fra forze armate e Ong l'asse portante. Ad onor del vero, va detto che molte Ong, anche italiane, non hanno accettato simile commistione, a partire da Save the Children che ha definito i Prt "una minaccia per l'azione umanitaria"; ma le cosiddette Briefcase Ong, al contrario, hanno optato per il business, accettando disinvoltamente la logica del fine che giustifica i mezzi. Un ulteriore spaccato dell'ambigua realtà del Prt "un po' forza di combattimento, un po' forza di stabilizzazione, un po' forza di ricostruzione", è stato fornito dal dirigente di Intersos, Nino Sergi, a partire dal caso "italiano" di Herat: "non corrisponde esattamente a quanto viene presentato dai media e dall'informazione ufficiale (…) La componente civile del Prt in verità non è riferita alla sua composizione ma a quella parte di attività che nella Nato va sotto il nome di Cimic", ossia quella struttura che viene ufficialmente definita come "il coordinamento e la cooperazione, a sostegno della missione, tra il Comando Nato ai vari livelli e gli attori civili, inclusi la popolazione e le autorità locali, le organizzazioni e agenzie internazionali e nazionali, le organizzazioni non governative (Ong)". Quindi, come è stato più volte evidenziato, non è la componente "civile" aggregata al Prt a provvedere alla ricostruzione o alla riattivazione di strutture sanitarie, scolastiche o dei sistemi idrici, ma gli stessi militari con i loro reparti logistici. Questa situazione, già ad alto rischio e di dubbia credibilità umanitaria, per le Ong si è andata aggravando, con l'aumento del ruolo militare "contro-insorgenza" via via assunto dalle forze Isaf-Nato, anche nelle province dove anche i reparti Usa non sono stati in grado di assumere il controllo. Si veda, ad esempio, il caso della provincia meridionale di Helmand, dove tutte le Ong straniere -eccetto Emergency- nel luglio scorso hanno deciso di abbandonare la zona. Emblematica del "clima", la testimonianza del geologo Michele Ungano, volontario impegnato in un progetto per impianti idrici: "Le disposizioni sono dettate da un responsabile della sicurezza di Intersos e concordate con l'ambasciata e l'agenzia Ans, una ong che si occupa proprio di monitorare i potenziali pericoli" Per questo, sono apparse del tutto fondate le prese di posizione di Emergency, contrarie all'occupazione militare, anche italiana, in Afganistan, che però hanno suscitato i malumori polemici del ministro della Difesa Parisi e del responsabile della Croce Rossa, Renato Cairo che aveva, senza ombra di pudore, affermato "La guerra è finita, gli ospedali di Emergency sono inutili". Evidentemente, deve aver dato molta noia - a sinistra non meno che a destra - la dichiarazione di Gino Strada, variamente bollato come antimilitarista e pacifista a senso unico: "Non abbiamo mai avuto bisogno di militari per proteggerci, anzi i soldati di ogni sorta sono il reale pericolo. Facciamo da anni il nostro lavoro, che è quello di curare persone ferite o ammalate, senza bisogno dei militari (…) C'è chi appoggia un'operazione di guerra camuffandola e spacciandola per una missione di pace, ma è una vergognosa menzogna voler far credere che le truppe italiane, che hanno partecipato a tutte le operazioni lanciate in Afganistan, siano qui a fare la guardia ai medici". Tale voce fuori dal coro, non a caso, smascherava infatti di colpo tutta la retorica pseudo-pacifista del governo di centrosinistra, inserendosi nelle contraddizioni del pacifismo filoistituzionale; ma l'unico appoggio è venuto da Giulio Marcon, fondatore dell'Ics (Consorzio italiano di solidarietà); mentre a soccorrere il governo di centrosinistra, in ballo per il voto sul rifinanziamento delle missioni militari all'estero, sono velocemente giunti un comunicato dell'Associazione Ong Italiane (Alisei, Aispo, Cesvi, Coopi, Cosv, Gvc, Intersos) intitolato "Il senato decida per il bene del popolo afgano", e una lettera aperta di Intersos, indirizzata ai nove senatori "dissenzienti" della maggioranza di centrosinistra, in cui pur dicendo di condividere "il rifiuto della guerra" venivano sposate le ragioni dell'interventismo armato tricolore. Paradosso nel paradosso: alcune di queste Ong avevano espresso, anche recentemente, critiche e perplessità analoghe a quelle di Emergency; ma di fronte al rischio di mettere a repentaglio protezioni politiche e finanziamenti governativi, non sono riuscite a sottrarsi all'arruolamento. U.F. Fonte: www.ecn.org Link: http://www.ecn.org/uenne/archivio/archivio2006/un31/art4402.html |