“L’Aleph” di Borges ci dice che nel gesto di Praljak c’è stato tutto l’onore che questo mondo ha perso
di Mauro Bottarelli - 30/11/2017
Fonte: Rischio Calcolato
“Che stranezza è mai questa, o amici, non per altra ragione io feci allontanare le donne, perché non commettessero di tali discordanze. E ho anche sentito dire che con parole di lieto augurio bisogna morire. Orsù dunque state quieti e siate forti”. Così Socrate ai suoi compagni di cella, nell’attimo prima di bere quella cicuta che avrebbe voluto, almeno in parte, usare per onorare gli Dei prima di morire. Slobodan Praljak, invece, si è limitato a uno stentoreo e marziale “Non sono un crminale di guerra”, prima di portare il bicchiere alla bocca e avvelenarsi, bevendo il veleno d’un sorso come fosse slivovica, subito dopo che la Corte del Tribunale Penale dell’Aja aveva confermato la sua condanna a 20 anni di reclusione per il suo ruolo nell’assedio di Mostar.
Praljak era una delle figure più in vista del processo per due motivi: operava come intermediario tra il governo di Zagabria e quello della Bosnia-Herzegovina, svolgendo la duplice funzione di ufficiale del Ministero della Difesa croato e, allo stesso tempo, comandante dell’Esercito. Secondo, proprio in quanto capo delle operazioni dell’Hvo nella zona di Mostar, è stato riconosciuto nella sentenza come il principale responsabile della distruzione del Ponte vecchio, lo “Stari Most”, simbolo plurisecolare della città di Mostar e della sua convivenza tra culture. Il ponte di Mostar fu bombardato dall’Hvo l’8 novembre 1993 e crollò il giorno successivo, arrecando, stando all’illuminata Corte dell’Aja, “un danno sproporzionato alla popolazione civile musulmana della città”. Quanto di più contemporaneo possa esistere: la difesa della convivenza fra culture, il nodo dell’Islam nel cuore d’Europa, la condanna del nazionalismo.
Sicuramente, i pragmatici ora si chiederanno come Praljak sia entrato in possesso del veleno e come abbia potuto introdurlo indisturbato nella super-controllata aula dell’Aja. Le anime belle si limiteranno forse a dire che sta bene dove sta adesso, all’inferno. Gli spiriti un po’ più profondi, riconosceranno che un generale resta sempre un generale e sceglie la fine che ritiene più consona al mantenimento dell’onore e dell’orgoglio. Molti, immagino la stragrande maggioranza della gente, guarderà le immagini al telegiornale come si guarda un telefilm americano, maledicendo il giudice che ha fatto subito tirare i teloni e così privandoci della parte clou dello spettacolo, poi tornerà a pensare ai cazzi suoi. Qualcuno, nemmeno lo saprà, perché non guarda il tg, non legge il giornale e su Internet ci va a fare altro. Non importa.
Ogni reazione, anche l’indifferenza o l’ignoranza, sono legittime di fronte a un atto del genere. Perché la potenza simbolica , evocativa, storica e umana di quanto accaduto all’Aja non può e non deve essere per tutti. Sarebbe una bestemmia. E’ giusto che la Rete si riempia di maledizioni, preghiere per Mostar, foto del ponte distrutto con struggenti dediche ai caduti, imprecazioni ma anche deliri anti-islamici e obbrobri di chi piange la dipartita perché “uomini così ci vorrebbero per ripulire lo schifo che c’è in giro”, come se servisse un generale che ha vissuto il mattatoio balcanico per risolvere problemi di ordine pubblico legati a immigrazione o degrado. Ci sarà di tutto e, ripeto, è giusto così. Perché per capire il gesto del generale Slobodan Praljak bisogna, innanzitutto, capire e conoscere il concetto di onore, indissolubile da quel grado militare. Guardate qui,
basta poco per capire ciò che sto dicendo, basta comparare chi fa informazione e chi spande ideologia, pur facendosi campione della lotta alle fake news in nome della democrazia. Quale democrazia, quella che si arroga il diritto di riscrivere la Storia, utilizzando come riferimento quello che altro non è, se non il Tribunale della NATO? Ha diritto non dico di sentenza ma di parola, la NATO, per quanto accaduto sotto il cielo pieno di sangue, lacrime e neve dei Balcani? Ha diritto anche soltanto di aprire bocca, proferire verbo, avanzare un rantolo, squittire un vocabolo?
Ancora freschi della condanna a Ratko Mladic, gli inquisitori della Norimberga 2.0 imposta dalla Terza Via di Clinton e Blair stavano compiendo anche oggi pomeriggio il loro compitino, comminando pene in base a un codice che non tiene conto della sottile linea che divide una guerra da una rapina in banca, un generale da un assassino comune, un soldato da un aggressore di periferia. “Non sono un criminale di guerra”, ha gridato Slobodan Praljak prima di ingerire il veleno come atto estremo di non riconoscimento di un Tribunale che non ha giurisdizione, né autorità, se non nei circoli dei benpensanti e nei comandi NATO, gli stessi che non pagano mai per i “crimini di guerra”. In Vietnam. In Iraq. In Siria. Nella ex-Jugoslavia.
Sarebbe bello che gli occhi dei giudici dell’Aja incontrassero, un giorno, quelli dei bambini ricoverati nei reparti oncologici degli ospedali serbi: chissà quale pena comminerebbero, idealmente, a chi ha riversato bombe di ogni genere per 72 giorni, colpendo fabbriche chimiche che hanno avvelenato aria, acqua e cuori. Ma non accadrà. Mai. Gente che nella vita non ha nemmeno l’enorme cruccio di dover trovare parcheggio, visto che vive scortata ma che ha la presunzione blasfema di giudicare chi, in guerra, dava ordini. E chi li eseguiva. In quell’aula non si stava giudicando un uomo o un generale, si stava giudicando un mondo altro che va annientato, un pezzo di storia che va riscritta, dopo essere stata cancellata con la gomma della propaganda. E non con la galera ma con il marchio d’infamia, “criminale di guerra”, una condanna che per chi conosce e ha vissuto la guerra equivale alla pena capitale.
Che Preljak ha eseguito da solo, piuttosto che vederla tramutarsi in realtà per conto terzi giorno dopo giorno chiuso in una cella, dopo essere stato portato via stretto nelle manette di un regime giudiziario senza patria, né confini, né idealità. La chiamano amministrazione della giustizia umana, è di fatto la riduzione ad atto criminale di un processo storico che ci dirà solo fra 20 o 30 o 40 anni chi avesse ragione e chi torto. Ammesso che serva. Ammesso che non venga imposto il regime del silenzio per via democratica, quella dei media tipo “La Repubblica”. Non so quanti di voi hanno letto “L’Aleph” di Jorge Luis Borges: ve lo raccomando, sentitamente. E’ una raccolta di racconti del grande scrittore argentino, fra i quali svetta “Deutsches requiem”, pensieri e riflessioni di un gerarca nazista la notte prima della sua esecuzione.
Eccone le righe finali: “Molte cose bisogna distruggere, per edificare il nuovo ordine; ora sappiamo che la Germania era una di quelle cose. Abbiamo dato più delle nostre vite, abbiamo dato il destino del nostro amato paese. Altri maledicano e piangano; io sono lieto che il nostro dono sia circolare e perfetto. Si libra ora sul mondo un’epoca implacabile. Fummo noi a forgiarla, noi che ora siamo le sue vittime. Che importa che l’Inghilterra sia il martello e noi l’incudine ? Quel che importa è che domini la violenza, non la servile viltà cristiana. Se la vittoria e l’ingiustizia e la felicità non sono per la Germania, siano per altri popoli. Che il cielo esista, anche se il nostro luogo è l’inferno. Guardo il mio volto nello specchio per sapere chi sono, per sapere come mi comporterò tra qualche ora, quando mi troverò di fronte alla fine. La mia carne può aver paura; io, no”.
Parole che non sono apologia ma rivendicazione di un giudizio più alto e più grande che non quello di un giudice e un carceriere, oltretutto talmente corrotto da far entrare in cella una boccetta di veleno. Il gesto di Slobodan Preljak ha a che fare con la categoria dell’onore, inteso come senso del dovere che prevale su ogni possibile compromesso di buona condotta o patteggiamento con un mondo che non sa quale odore e quale sapore abbia il sangue ma che si permette di discuterne la profondità e il tono del colore, guardandolo in fotografia. Non è nemmeno questione di giudizi a senso unico o di sconfitti alla sbarra e vincitori in toga ad emettere sentenze, pur avendo la coscienza sporca quanto la cella in cui si divertono a rinchiudere i fantasmi della loro cattiva genia morale. E’ questione di principio che si attacca alla realtà come una macchia di grasso che resiste al più potente dei saponi ottenuto dai buoni sentimenti: la patente di “criminale di guerra” che qualcuno ha voluto distribuire era solo un santino votivo, un’iconoclasta assoluzione borghese per l’ennesimo simbolo – il ponte di Mostar – che questo mondo degradato necessita per potersi alzare al mattino e guardarsi allo specchio.
Slobodan Prajlak non ne aveva bisogno, invece. L’inferno che gli viveva dentro era sufficiente a farlo resistere, lottare, imprecare, indignarsi. Essere generale. Essere militare. Essere uomo, nel senso anche deteriore, fallace, peccatore e terreno del termine. E bersi l’ipocrisia del mondo in un sorso, quel sorso amaro e vendicatore che costringe il giudice a sgomberare l’aula e far tirare i pannelli. Penso più per vergogna che per pietà. Anzi, ne sono praticamente certo.