Ecce stilus
di miro renzaglia - 13/10/2006
“Lo stile è superiore alla verità; reca in sé la prova dell’esistenza”, così, Gottfried Benn, nella sua opera autobiografica Doppelleben. L’aforisma, che a tutta prima sembra avere un’intenzione paradossale, è invece l’essenziale e fulminante registrazione di un pensiero che varca i limiti delle sue possibilità di sviluppo all’interno della tradizione (del pensiero...) occidentale.... Secondo tale tradizione, infatti, “la verità – assumo per brevità la definizione heideggeriana – è la verità dell’essere” e, in quando coincidente con l’essere, essa è collocata al vertice della scala dei valori occidentali; l’esistenza, invece, non è se non e in quanto immanentizzazione di qualcosa che la trascende – l’essere, appunto – e, come tale, in un rapporto di derivazione e dipendenza da essa; allo stile, infine, se e quando viene chiamato in gioco, altro valore non viene assegnato se non quello di definire il modo o la maniera (quando non appena la posa e l’atteggiamento...) con il quale l’ente sta al mondo...
Nel ‘900, varie eresie esistenzialiste – da Nietzsche a Sarte allo stesso Heidegger – hanno cercato di dare, una dignità diversa all’esistente (detto altrimenti: ciò che diviene...) nel suo rapporto con l’essere (altrimenti detto: ciò che è...) Tutto sommato però, anche là dove l’eresia si è spinta fino all’esito tragico di negare l’essere, il quadro di fondo non è cambiato: il rapporto duale, sul quale è fondata la tradizione e la storia del pensiero occidentale, viene puntualmente e ossessivamente ribadito. Con il suo aforisma, invece, Benn non si limita a prendere parte alla disputa: introducendo e, anzi, privilegiando in terzo elemento - lo stile, appunto –che non annulla ma valorizza gli altri due in un gioco di luci e prospettive diverse, apre il pensiero ad un fondamento inesplorato e, finalmente, non più duale...
Anche per Benn, l’esistenza non possiede in sé la prova del suo essere. Se l’essere, e solo l’essere, è ciò che è, l’esistenza potrebbe benissimo non-essere... Considerazione, del resto, in linea con la tradizione della metafisica occidentale che, da Parmenide a Platone, recita: l’essere è ciò che è, il non essere ciò che non è. Benn, però – sulle orme di quello che considera alle radici del della propria esperienza del pensare: Firedrich Nietzsche – vuole riscattare l’esistenza dalle condizioni di brutale ed evidente nichilismo a cui questa doppia tautologia finisce per ridurla. La cosa più semplice da fare in tal senso, sarebbe un’opera di capovolgimento: l’essere è ciò che non-è, perché di esso non si ha prova tangibile; il (presunto...) non-essere (l’esistenza...) invece, è ciò-che-è, perché di esso abbiamo la prova della nostra esperienza... In somma, con una semplice autocertificazione della nostra coscienza potremmo confermarci di essere (di essere quelli che siamo...) come suggerisce, ad esempio, quella rispettabilissima scuola di pensiero che copre l’arco di pensiero e di cervelli che va da Cartesio ad Hegel...
Se Benn aderisse a tale scuola, il suo aforisma potrebbe suonare pressappoco così: “L’esistenza è superiore alla verità [perché] reca in sé la prova d’essere ciò che è”. Il che, lo si vede bene, è qualcosa di molto distante dall’originale. Né, d’altra parte, Benn intende negare l’essere che, pur restando qualcosa di ineffabile, non riducibile, cioè, all’esperienza della coscienza, e perciò impossibilitato a fornire prove, costituisce il fondo indispensabile di qualsiasi riflessione sull’esistenza che non voglia ridursi all’autocertificazione probatoria... A questo punto, però, si tocca un limite del pensare: se l’essere non può provare la sua verità e l’esistenza non vuole ridursi all’autocertificazione, il cerchio si conclude nell’insensato o se si preferisce, nell’estremo tautologico: “esisto perché esisto”. Per uscirne, Benn intuisce uno scarto dal duale essere-non-essere. Scarto che egli opera inserendo nel loro rapporto un terzo elemento: lo stile, appunto. E’ lo stile, infatti, secondo lui, a recare le prove dell’esistenza e, in quanto tale, a porsi al di sopra della verità (che - lo ricordiamo - è la verità dell’essere...).
Ora, però, è necessario rintracciare il percorso che conduce Benn ad introdurre ed esaltare lo stile nel rapporto fra essere e non-essere. Converrà, allora e intanto, riportare - e il lettore perdonerà la lunga citazione che mi è impossibile sintetizzare in altre parole, senza stravolgerne il senso – un intero brano tratto da un saggio assai denso uscito nel... per i tipi del Saggiatore e dal suggestivo titolo Lo stile in filosofia, di Manfred Frank:
“(...) in contrasto con la communis opinio propongo di distinguere nettamente fra idealismo e primo romanticismo. Designo come come idealista la convinzione – resa vincolante da Hegel – che la coscienza sia un fenomeno autosufficiente, capace di rendere comprensibile a se stessa, con mezzi propri, anche i presupposti del suo sussistere, Il primo romanticismo è al contrario convinto che l’ipseità vada ricondotta ad un fondamento trascendente che non si lascia risolvere nell’immanenza della coscienza. Il fondamento dell’ipseità diventa così un enigma indecifrabile. Tale enigma non può essere elaborato (solamente) dalla riflessione. Ecco perché la filosofia si compie nell’arte e come arte. Giacché nell’arte c’è dato un prodotto la cui pienezza di senso non è esaurita da alcun pensiero possibile. E’ per questo che la ricchezza inesauribile di pensiero con la quale siamo messi a confronto dall’esperienza del bello artistico può farsi simbolo di quel fondamento unitario, irrecuperabile alla riflessione, che per ragioni strutturali è destinato a sfuggire alla capacità di comprensione dell’autocoscienza duale. Il primo romanticismo, in polemico distacco con l’uso classicistico del termine, denomina questo tipo di rappresentazione simbolica allegoria, ‘Allegorein’ significa: parlare altrimenti e dire altro da ciò che si intende. Si intende l’Assoluto e si dice il relativo. Ecco perché – così suona il modo di procedere del primo romanticismo – si tratta di dire il relativo in modo tale per cui, nel gesto del dire, ciò che viene detto sia al tempo stesso annullato da ciò che è inteso. Il che avviene attraverso l’ironia. L’ironia non è il tema del dire, ma un tratto stilistico del discorso. Solo attraverso la sovra determinazione dello stile il discorso preserva il suo riferimento all’Assoluto, destinato a rimanere, come tale, irrapresentabile. Ora, assumendo al tempo stesso che è privo di valore tutto quanto non si riferisca all’Assoluto in quanto Assoluto e che tale riferimento non riesce al linguaggio artificiale della filosofia, solo la poesia si troverà allora, secondo le parole di Novalis, ‘nella verità’...”.
Lo stile, quindi, che della poesia, dell’arte è il tratto fondamentale, diventa il cardine essenziale per alludere all’Assoluto (che coincide con la verità e con l’essere...), referente necessario e non altrimenti qualificabile per ogni conferimento di valore. Questo per i primi romantici, sostiene Frank. E per Benn? In fondo per evitare complicazioni e per conferire allo stile il primato che egli intende assegnargli, il suo aforisma avrebbe potuto recitare semplicemente: “Lo stile reca in sé la prova dell’esistenza”... In questo modo, però, avrebbe effettuato solo una sostituzione di termini, mettendo lo stile al posto della verità ma conferendo a quest’ultimo le stesse prerogative del termine sostituito e restando dentro il sistema duale. In somma, l’esistenza avrebbe rimesso al suo rapporto con lo stile ciò che prima rimetteva al suo rapporto con l’essere: la certificazione della propria identità. Benn, invece, non fa opera né di sostituzione, né di capovolgimento, né di negazione ma, elevando a primato il valore dello stile, sposta al di là del Principio di Contraddizione il rapporto fra essere ed esistere, assoluto e relativo, vero e apparente.
Ma come può lo stile introdursi nella dinamica del rapporto che è alle radici stesse del pensiero (e del pensare...) occidentale? In tanto, vi è da dire che se questo rapporto fosse stato ancora vivo e dinamico, se, cioè e meglio, la dialettica avesse continuato a determinare la dinamica della storia, nessuna intrusione sarebbe stata possibile. Se un altro elemento è potuto entrare in gioco è solo perché il gioco era ormai finito. La modernità finisce, in fatti, proprio con l’esaurirsi della spinta propulsiva che il Principio di Contraddizione aveva dato alla storia. Quello che viene dopo – il cosiddetto postmoderno – non annulla gli elementi della dialettica ma li equalizza togliendo dall’orizzonte ogni riferimento in grado di distinguere valore, segno e senso (quest’ultimo nella doppia accezione di significato e direzione). In questa indecidibilità critico-interpretativa dell’esistente, persino lo stile inteso come modo d’essere del soggetto egoarchico, fissato nella premessa di ritenersi il fondamento di se medesimo (l’individuo assoluto...), che aveva caratterizzato con la sua insorgenza un’epoca non per niente definita “Mod-erno”, è stato eclissato. L’eclisse del modo d’essere conduce al Post-moderno che non è, però, la negazione del modo ma dell’essere. Svincolato dalla referenzialità dell’essere, il modo genera per metameri i molteplici modi che sono l’antitesi esatta dello stile che ho cercato di intendere. La storia, così, non finisce nel “migliore dei mondi possibili”, come sostengono gli apologeti del Post-moderno, ma nel peggiore dei modi. L’essere dello stile non potrà che risorgere, allora, nell’atto semplice e consapevole della rinuncia ai modi. La rinuncia ai modi porta il soggetto a scomparire dall’orizzonte della Post-modernità. Nell’atto di sparire (ovvero: nella rinuncia ad apparire…), il soggetto si fa stile. Lo stile reca in sé la prova dell’esistenza.